Il reato di rissa
Il delitto di cui all’art. 588 c.p. punisce chiunque partecipi ad una rissa. Come noto, la rissa è un reato plurisoggettivo, per la cui configurazione si richiede necessariamente la partecipazione di più soggetti. Tradizionalmente, la rissa consiste nello scambio, reciproco e contestuale, di molteplici atti di violenza fisica tra almeno tre persone, tutti diretti principalmente ad arrecare offesa agli altri corissanti. Tale ipotesi base viene tuttavia aggravata dalle previsioni di cui ai commi successivi della disposizione ora richiamata. I recenti e gravi fatti di cronaca, con riferimento particolare all’uccisione del ventunenne Willy Monteiro Duarte, hanno ispirato il legislatore verso una riforma del trattamento sanzionatorio di cui all’art. 588 c. II c.p. Invero, l’art. 10 D.L. 130/2020 (Decreto Sicurezza e Immigrazione) ha previsto un inasprimento delle pene, tanto pecuniaria (c. I art. 588 c.p.) quanto detentiva (c. II art. 588 c.p.); con riferimento alla seconda, il legislatore ha innalzato la cornice edittale da mesi 3 e anni 5 di reclusione a mesi 6 e anni 6 di reclusione nell’ipotesi in cui dalla rissa dovessero derivare lesioni personali o, addirittura, la morte di uno dei corissanti.
Il reato di rissa aggravata dall’evento morte pone un’interessante questione circa la possibilità di contestare ai corissanti tanto la fattispecie di cui all’art. 588 c. II c.p. quanto il reato di omicidio. In sostanza, ci si chiede se e in quali condizioni i due reati possono tra loro concorrere e a quale titolo ciò avvenga. La domanda che viene in gioco, dunque, è la seguente: a quale titolo risponderà colui che si limitò a partecipare alla rissa con esito mortale? La risposta non può prescindere dall’analisi di alcuni elementi, tra i quali sicuramente ricopre un ruolo fondamentale quello soggettivo, in termini di volontà e prevedibilità dell’evento fatale; sarà solo grazie all’analisi concreta di tale elemento che si potrà rimproverare, al corissante, un concorso ex art. 110 c.p. piuttosto che un concorso ex art. 116 c.p. nel reato di omicidio.
Il concorso anomalo
L’art. 116 c.p., c.d. “concorso anomalo”, prevede espressamente che “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione”. Il c. II della disposizione introduce un’attenuante, ossia una riduzione di pena, per colui che volle il reato meno grave; così infatti recita: “Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”. Si osserva, a proposito, che la norma introduce un’ipotesi particolare di aberratio delicti specificamente relativa al concorso di persone nel reato.
Sebbene il tenore letterale della norma faccia presupporre che l’art. 116 c.p. altro non sia che un’ipotesi di responsabilità oggettiva per il fatto altrui, un’interpretazione costituzionalmente orientata impone di dare una lettura diversa nel senso che per l’integrazione della norma devono sussistere sia il rapporto di causalità materiale – ossia il reato deve essere causalmente riferibile all’azione o all’omissione del concorrente – sia un coefficiente di colpevolezza – il quale, genericamente, deve consistere nella prevedibilità del reato diverso o più grave. Una lettura alternativa porterebbe inevitabilmente ad un’interpretazione incostituzionale: se si ritenesse, come pare emergere dal mero dato testuale, che la sola causalità materiale sia sufficiente ad integrare il concorso anomalo, allora ciò significherebbe sacrificare il principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 della Costituzione. Così, con sentenza n. 42 del 13 maggio 1965, la Corte Costituzionale ha ritenuto legittimo l’art. 116 c.p., avallando quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la sussistenza del rapporto di causalità materiale non è di per sé sufficiente poiché è richiesta anche l’individuazione di un rapporto di c.d. causalità psichica. In sostanza, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, il reato diverso o più grave deve essere inteso “come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza.”.
La giurisprudenza, anche relativamente recente, è tornata ad esprimersi sul concetto di causalità psichica e di prevedibilità in concreto del reato diverso da quello voluto. In particolare, la Suprema Corte[1] ha affermato che la prognosi postuma sulla prevedibilità del diverso reato commesso dal concorrente andrà effettuata in concreto, valutando la personalità dell’imputato e le circostanze ambientali nelle quali l’azione si è svolta. La componente psichica si colloca in un’area compresa tra la mancata previsione di uno sviluppo in effetti imprevedibile – situazione nella quale la responsabilità resta esclusa – e l’intervenuta rappresentazione dell’eventualità che il diverso evento potesse verificarsi, anche in termini di mera possibilità o scarsa probabilità. “La norma dell’art. 116 c.p. si applica, dunque, quando l’imputato, pur non avendo previsto la commissione del diverso illecito da parte dei concorrenti, avrebbe potuto rappresentarsene l’eventualità se, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, avesse fatto uso della dovuta diligenza”.
Responsabilità per rissa aggravata e concorso anomalo in omicidio
Con specifico riferimento al reato di rissa, caratterizzato dalla volontà di prendere parte ad un fatto potenzialmente lesivo dell’incolumità fisica di chi vi partecipa, potrebbe risultare complesso affermare e dimostrare che l’evento di lesioni o, addirittura, l’evento morte, non siano esiti prevedibili ex ante dai corissanti. A ben vedere, nel concetto di rissa non può rientrarvi un mero litigio verbale, per quanto acceso possa essere, ma la “lite”, per così dire, deve estrinsecarsi in un “venire alle mani con il proposito di ledersi reciprocamente[2]”.
Innanzitutto, giova osservare che sulla compatibilità tra il concorso anomalo ex art. 116 c.p. nel reato di omicidio e l’aggravante di cui all’art. 588 c. II c.p. vi sono orientamenti contrastanti; si registra, infatti, un indirizzo minoritario, rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 20933 del 15 maggio 2008, secondo il quale tale compatibilità andrebbe esclusa. Effettivamente, ad un primo sguardo, ci si potrebbe chiedere perché colui che partecipò ad una rissa dall’esito mortale debba essere imputato tanto ai sensi dell’art. 588 c. II c.p., quanto ai sensi degli artt. 116 e 575 c.p. Nel 2010, i Giudici di legittimità[3] si pronunciarono proprio sulla questione ora in esame; nel ricorso per Cassazione, proposto dalla difesa si censurava l’erronea applicazione della legge penale, con particolare riferimento al concorso fra il reato di rissa aggravata dall’evento morte e il delitto di omicidio in concorso anomalo ex artt. 116 e 575 c.p. La difesa, in breve, riteneva inammissibile che lo stesso evento morte potesse essere addebitato all’agente in due diversi modi, entrambi di matrice colposa. La Corte ebbe così modo di precisare che i delitti di omicidio o di lesioni personali hanno una consistenza autonoma e non possono ritenersi assorbiti dal delitto di rissa.
Effettivamente, anche volendo, non potrebbe configurarsi un’ipotesi di concorso apparente di norme: l’art. 588 c.p., infatti, non è in rapporto di specialità né con il reato ex art. 575 c.p. né con il reato ex art. 582 c.p., sicché ragionevolmente non può farsi applicazione del c.d. principio di specialità (art. 15 c.p.). D’altra parte, l’autonomia dei reati in esame può essere desunta anche dal tenore letterale dello stesso art. 588 c.p.: ivi si specifica che la pena è aumentata quando la rissa ha quali conseguenze le lesioni o la morte di uno o più partecipanti. E cioè: l’aggravio di pena si spiega in ragione della semplice partecipazione ad una rissa che ha avuto tali esiti. Quindi, la previsione dell’ipotesi aggravata risponde all’esigenza di punire più duramente un fatto di rissa che, per le concrete modalità di attuazione, ha portato alla commissione degli ulteriori reati di lesioni e omicidio. Come sottolineato dalla Corte, non pervenire a tale soluzione vorrebbe dire punire meno duramente colui che provoca una lesione personale o addirittura uccide nel corso di una rissa rispetto a colui che commette i medesimi reati ma in un contesto differente. Tale esito è inammissibile.
Ammessa dunque la possibilità di concorso anomalo tra il reato di omicidio e il reato di rissa aggravata, è ragionevole chiedersi quando l’omicidio possa considerarsi conseguenza non voluta ma prevedibile della rissa. Possono allora farsi alcuni esempi tratti dalla giurisprudenza: chi partecipa ad una rissa sapendo che uno dei corissanti è solito portare con seco delle armi; il coinvolgimento nella rissa risponde ad un’azione punitiva preordinata nei confronti di un “gruppo rivale”; si conosce l’indole particolarmente violenta di un corissante[4]. In queste ipotesi sarà prevedibile, secondo la normale diligenza, che la rissa sfoci nelle conseguenze di cui al comma II art. 588 c.p. Interessante è la pronuncia con cui la Corte di Cassazione, confermando la sentenza di appello, escludeva la configurabilità del concorso anomalo in capo al compartecipe in una rissa aggravata rispetto all’omicidio commesso da uno dei partecipanti, armato per ragioni di servizio: l’esclusione del concorso anomalo è stata spiegata sul presupposto che appariva del tutto ragionevole, in base anche ai rapporti di amicizia con la vittima, ritenere che l’arma non sarebbe stata usata[5].
In conclusione, va osservato che nell’ipotesi in cui il corissante abbia effettivamente previsto ed accettato il rischio relativo al reato più grave, ricorrerebbe l’ipotesi di concorso ex art. 110 c.p. poiché l’accettazione del rischio equivale ad integrare l’elemento soggettivo del dolo eventuale.
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Note
[1] Cassazione Penale, Sez. I, sentenza n. 37256, 8 settembre 2014.
[2] Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 43524, 8 novembre 2004.
[3] Cassazione Penale, Sez. I, sentenza n. 283, 8 gennaio 2010.
[4] Cassazione penale sez. V, sentenza n. 10995 del 25 ottobre 2006.
[5] Cassazione penale sez. V, sentenza n. 34036 del 18 giugno 2013.
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