Sangue infetto e contagio: la responsabilità del Ministero e l’irrilevanza della conoscenza del virus all’epoca della trasfusione

Il tema della responsabilità del Ministero per i contagi provocati da sangue infetto è uno dei più delicati e controversi degli ultimi decenni. Si tratta, in particolare, di una questione che involge l’imputabilità, al Ministero della Salute, del pregiudizio sofferto da pazienti che, per aver subito operazioni o essersi sottoposti a particolari terapie che comportavano l’utilizzo di sangue o emoderivati, contrassero e svilupparono epatiti B, C o AIDS.

 

  1. – L’origine della vicenda e le conseguenze giuridiche

Numerose sono le vicende giudiziarie sorte di conseguenze e, in ognuna di esse, il compito più difficile per coloro che agiscono per il risarcimento dei danni è dimostrare che la contrazione dell’infezione da HbV, HcV o HiV sia imputabile ad un comportamento negligente e/o colposo del Ministero della Salute per un ritardo nella predisposizione di controlli e nell’adozione di misure preventive idonea ad impedire il contagio.

Segnatamente, i soggetti che ritengono di aver contratto un’infezione epatica a causa di un trattamento sanitario, hanno due possibilità: la prima, agire in via amministrativa e richiedere l’indennizzo di cui alla l.n. 210/1992; la seconda, adire il Giudice Civile per ottenere il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.

2.1. – La richiesta di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.: i presupposti

Rimandando ad altro scritto la distinzione fra le due azioni e le precisazioni circa i termini decadenziali e di prescrizioni ex lege previste, si effettua una breve precisazione con riguardo alla seconda tipologia di azione giudiziaria.

Ebbene, le parti attrici citano il Ministero della Salute dinanzi al Giudice civile per ivi sentirne accertare la responsabilità e, per l’effetto, condannarlo al risarcimento dei danni patiti.

Anzitutto, giova precisare che la responsabilità di cui trattasi è indubbiamente di tipo extracontrattuale, dunque disciplinata dall’art. 2043 c.c. [i], sicché per accertarla e dichiararla è fondamentale dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tanto dell’elemento soggettivo (colpa o dolo) quanto di quelli oggettivi (la condotta e il nesso causale tra la condotta e l’evento verificatosi).

Com’è noto, il nesso di causalità rappresenta il legame che intercorre fra l’antecedente fattuale e il suo effetto logico e, nei casi di cui si discute, esso involge il rapporto fra il trattamento con emoderivato e il virus contratto, al fine di stabilire se sussista effettivamente fra gli stessi un rapporto causa-effetto o una semplice relazione temporale.

2.2. – La richiesta di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.: il nesso causale e la giurisprudenza

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione, è intervenuta a Sezioni Unite[ii] chiarendo definitivamente che stante l’assenza di norme civili disciplinanti il rapporto causale, l’accertamento del detto nesso debba avvenire in applicazione dei criteri dettati dagli artt. 40 e 41 c.p., atteso che anche la responsabilità aquilina[iii] tragga origine da una condotta commissiva o omissiva.

Sebbene, diversamente da quel che avviene nella responsabilità penale, il metodo di imputazione della responsabilità civile non è sempre costituito da una condotta colpevole, l’applicazione del rapporto di causalità di cui agli artt. 40 e 41 c.p.[iv] in ambito civilistico, consente l’individuazione della sequenza causale da esaminare e l’esame dei fattori che, seppur facenti parte della sequenza, non sono stati tali da determinare il verificarsi dell’evento lesivo. Di conseguenza, sulla scorta di quel che ha affermato la giurisprudenza di legittimità – se nel processo penale vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio – nel processo civile vige la regola del più probabile che non, in forza della quale la certezza probabilistica, va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito delle c.d. evidence and inference anglosassoni. Nello specifico, attraverso una prognosi postuma occorre eliminare mentalmente dalla sequenza causale tutti quei fattori che, in forza della c.d. regolarità causale, non possono aver generato l’evento nocivo verificatosi.

Ciò precisato, in ossequio al principio generale di cui all’art. 2697 c.c. [v] grava sul danneggiato l’onere della prova del nesso causale tra l’attività o il fatto pericoloso (nella specie, l’emotrasfusione o il trattamento con emoderivato) e l’evento dannoso subito (rectius, epatite contratta o sviluppata immunodeficienza).

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  1. – Il Ministero e l’irrilevanza della mancata conoscenza del virus all’epoca del contagio

Senonché, una volta dimostrato che il danno patito sia riconducibile al trattamento con emoderivato o all’emotrasfusione ricevuta, spetta alla parte pubblica citata comprovare l’assenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) ovvero che l’evento non fosse voluto o comunque non prevedibile dall’agente. È notorio, infatti, che ci sono eventi straordinari, qualificabili come caso fortuito o forza maggiore, che escludono la colpa del soggetto agente e, dunque, contrastano con il principio previsto ex art. 2043 c.c., stante la mancanza del fondamentale requisito della colpevolezza (elemento soggettivo) e il verificarsi di un’interruzione del nesso di causalità.

Cosicché, anche nei casi in cui risulti ampiamente confermata la riconducibilità della patologia epatica e dei pregiudizi sofferti dai pazienti al trattamento con emoderivato, le difese che il Ministero giustappone per contrastare l’imputabilità dell’evento lesivo ad una propria condotta (nella specie, di tipo omissivo) si fondano sul principio ad impossibilia nemo tenetur, in forza del quale nessuna responsabilità potrebbe addebitarsi allo stesso per i casi di contagio avvenuti prima della scoperta degli specifici virus, trattandosi di eventi non prevedibili e dovuti a causa di forza maggiore o a caso fortuito. Più chiaramente, ad avviso del Ministero della Salute dovrebbe escludersi la responsabilità del dicastero in ordine alla contrazione dei virus Hbv, HcV o HiV in epoche rispettivamente antecedenti al 1975, 1989 e 1985 (date di pubblicazione della scoperta dei virus di cui trattasi) non conoscendosi prima di tale data né i detti virus, né i relativi specifici metodi di rilevazione. Pertanto, sostiene il Ministero che, prima degli anni suindicati, non sarebbe stato possibile scongiurare il rischio di trasmissione, non essendo le infezioni virali ancora a loro ben note nella loro esatta caratterizzazione molecolare.

Le suddette deduzioni del Ministero, che valutano il profilo causale con riguardo all’epoca in cui si è verificato l’evento, non sono coerenti con i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui – benché la scienza medica e il Ministero della Salute non disponessero di specifiche conoscenze con riguardo ad ogni determinato virus – il ricorso ai c.d. metodi virucida, avrebbe reso inattivi anche i virus non ancora specificatamente conosciuti, scongiurando o quantomeno limitandone la diffusione. [vi]

Invero, mediante le norme scientifiche e di laboratorio in vigore già dalla fine degli anni ’50 – fra cui ad esempio l’art. 1, L. n. 296/1958 che attribuiva al Ministero il dovere di provvedere alla salute pubblica e vigliare sui servizi sanitari espletati dalle amministrazioni autonome dello Stato o da altri enti pubblici, anche attraverso l’emanazione di istruzioni coordinate e obbligatorie per tutte le PP.AA. del settore sanitario – si potevano conoscere le modalità di trasmissione dei virus, indipendentemente dalla loro specifica tipizzazione, sulla base di un criterio di prevenzione che trae fondamento dal combinato disposto delle norme di cui agli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.

Conseguenzialmente, sul Dicastero già ben consapevole della sussistenza del rischio di trasmettere malattie epatiche per via ematica, gravava l’onere di vigilare ed esercitare un serrato controllo sulla sicurezza del sangue, adottando tutte le misure di prevenzione necessarie per impedire eventuali contagi.  (cfr. Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2790; id., 13 luglio 2018, n. 18520).

Ne segue che il nesso causale tra la somministrazione del sangue infetto in ambiente sanitario e la patologia insorta debba esser vagliato, non già sulla base delle conoscenze scientifiche del momento in cui venne effettuata la trasfusione (come erroneamente sostenuto dal Ministero), quanto piuttosto sulla base di quelle disponibili al momento dell’accertamento del nesso causale, rilevando all’uopo unicamente il collegamento naturalistico tra l’omissione (o l’azione) e l’evento dannoso.

4.- Valutazioni conclusive

Così argomentando, inevitabilmente sorge in capo al Ministero della Salute una responsabilità per omissione dei controlli sulla raccolta e la distribuzione del sangue per uso terapeutico e, quindi, sull’idoneità dello stesso ad essere oggetto di trasfusione indipendentemente dall’anno in cui parte attrice sia stata sottoposta al trattamento sanitario, trattandosi di un dovere che (come su attestato) la P.A. era già tenuta ad adempiere sulla base delle conoscenze mediche e dei dati scientifici, acquisiti anche prima dell’anno in cui il virus fosse specificatamente identificato.

In merito, giova richiamare il principio di diritto enunciato dalla Suprema secondo cui: “In caso di patologie da infezioni da virus HbV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, non sussistono eventi autonomi e diversi ma solo manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo, sicché anche prima dell’anno 1978, in cui il virus dell’epatite B fu definitivamente identificato in sede scientifica, con conseguente scoperta dei mezzi di prevedibilità delle relative infezioni, è configurabile la responsabilità del Ministero della salute per l’omissione dei controlli in materia di raccolta e distribuzione del sangue per uso terapeutico e sull’idoneità dello stesso ad essere oggetto di trasfusione, già consentiti dalle conoscenze mediche e dai dati scientifici del tempo.” (Cass. civ., Sez. Un., 4 febbraio 2016, n. 2232; Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2018, n. 18520; id., Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2017, n. 22832).

Sulla scorta di tutto quanto dedotto, sembrerebbe apparentemente più agevole per i pazienti contagiati ottenere il riconoscimento dei danni patiti per l’omesso controllo del Ministero, sebbene non possa tacersi il fatto che – nella gran parte dei casi – i giudizi si concludono, seppur con esito positivo, dopo il decesso degli stessi e questi non riescano neppure a godere del (meritato) risarcimento ad essi dovuto per le sofferenze ingiustamente patite e i nocumenti subiti.

Note

[i] Si richiama il principio ormai assodato, che trae origine dalle note sentenze gemelle, con cui la Suprema Corte ha chiarito: “La responsabilità del Ministero della salute per i danni causati da infezioni contratte in seguito ad emotrasfusioni o somministrazione di farmaci emoderivati non si fonda né sull’art. 2049 c.c., perché il Ministero non risponde dell’operato delle Asl e delle strutture ospedaliere, pienamente autonome rispetto a quello; né sull’art. 2050 c.c., perché pericolosa è la produzione e distribuzione di sangue, ma non il controllo e la vigilanza su tali attività; né, infine, sull’art. 1218 c.c., perché tra paziente e Ministero non sussiste alcun vincolo contrattuale. Ne consegue che la suddetta responsabilità del Ministero per deficit di vigilanza può trovare fondamento solo nella clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente onere della vittima di provare la colpa dell’amministrazione e il nesso causale tra questa e il danno.” (Cass. Civ, sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 576 e 584).

[ii]Un ulteriore richiamo alla decisione del 2008, nella parte in cui la Corte di Cassazione così conferma, ricostruendolo compiutamente, l’applicabilità del metodo penalistico per l’accertamento del nesso causale, alla sede civile: “Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p. ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non). Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause […] trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa risulti tale da rendere irrilevante le altre cause preesistenti…” Da ciò facendo, quindi, derivare quale conseguenza logica che, nello specifica questione in esame: “Sussiste il nesso causale tra il comportamento omissivo di una struttura ospedaliera e dell’amministrazione sanitaria e il contagio da Hiv subito da una paziente, a seguito di emotrasfusioni e dell’assunzione di emoderivati, allorché il contagio risulti avvenuto in un periodo nel quale si conosceva la pericolosità delle somministrazioni di derivati e delle trasfusioni ai fini della trasmissione del virus e, dunque, l’evento dannoso non poteva considerarsi, per la scienza e per la regola statistica, imprevedibile ed improbabile.

[iii] Art2043 c.c. Risarcimento per fatto illecito. “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

[iv] Art. 40 c.p. Rapporto di causalità “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Art. 41 c.p. Concorso di cause. “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od omissione e l’evento.

Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita.

Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui.”

[v] Art. 2697 c.c.  Onere della prova. “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

[vi]Argomentazione che trae origine dal pronunciamento dei Giudici di legittimità che, anche di recente, ha confermato il consolidato orientamento, a mente del quale: “In caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni ’60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi.” (Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2019, n. 1566)

Avv. Caterina Ambrosio

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