Sommario: | 1. Il recesso nelle società semplici: brevi cenni; 2. La giusta causa intesa come equilibrio tra interessi contrapposti; 3. Giusta causa e divorzio: un possibile connubio?.
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Il recesso nelle società semplici: brevi cenni
In via generale, si può affermare che il recesso è un istituto di carattere speciale che concede la facoltà a chi lo esercita di svincolarsi dal legame contrattuale precedentemente assunto. Se esercitato in un contesto societario, il recesso concede la facoltà al socio di recedere dalla società, ossia fuoriuscire dalla relativa compagine societaria. La peculiarità del recesso è rappresentato dalla sua autonomia: il recesso del socio non è infatti minimamente causa ostativa alla prosecuzione, da parte degli altri soci, dell’attività imprenditoriale (a meno che non vi siano divieti di legge).
Si tratta di un istituto che deroga alle disposizioni generali dettate in tema di scioglimento dei contratti [1], di norma è gratuito (a meno che non si sia pattuita una caparra penitenziale che, come è noto, non genera redditi tassabili), si realizza al verificarsi di specifici presupposti (previsti dalla legge ovvero pattuiti) e si differenzia dal similare istituto della cd “disdetta contrattuale” tanto in relazione alle diverse finalità (la disdetta mira ad impedire il rinnovo di un contratto che altrimenti proseguirebbe tra i contraenti,) quanto in riferimento al differente ambito applicativo dei due istituti (la disdetta attiene infatti esclusivamente ai contratti di durata a tempo determinato; limitazione questa che non è prevista per l’ipotesi di recesso).
Il patto che vieta l’esercizio del recesso – in quanto diritto indisponibile – sembra essere nullo (ovvero inesistente, a seconda della corrente di pensiero alla quale ci si riferisce). E’ lecita per contro ogni pattuizione avente ad oggetto la sua regolamentazione (ad esempio qualora per esercitarlo si stabilisca un termine diverso da quello codicistico).
Destinatario della dichiarazione di recesso (che nella prassi viene esercitata a mezzo di scritti ma nulla vieta che possa essere espressa tanto oralmente quanto per facta concludentia) è innanzitutto la società ma, in caso di recesso ad nutum, la dichiarazione medesima va inoltrata anche a ciascun socio (trattasi di atto unilaterale recettizio e gli effetti si esplicano al momento della ricezione della comunicazione). Se la comunicazione non viene inviata a tutti i soci, il recesso è illegittimo (quindi improduttivo di qualsivoglia effetto) ed il vizio di procedura non viene sanato dalla ricezione della comunicazione da parte della società (la ratio sottesa alla necessità dell’invio della comunicazione a tutti i soci ha infatti natura e finalità diversa rispetto a quella che richiede l’invio della comunicazione alla sede della società). Con l’adempimento di tutte le formalità, il recedente perde la qualità di socio (a tal fine non è necessario alcun “benestare” da parte della società e/o degli altri soci) e, conseguentemente, ha diritto alla liquidazione della propria quota. La liquidazione della quota va fatta attraverso il denaro (e quindi sono esclusi beni o altre cose fungibili) e va rapportata al patrimonio netto esistente al momento in cui il recesso genera i propri effetti (decorsi mesi 3 dalla ricezione della comunicazione di recesso, ovvero, in caso di recesso ad nutum, al momento stesso della ricezione della dichiarazione). Se sorgono controversie, la competenza funzionale è del Tribunale delle Imprese che va individuato, territorialmente, in base al luogo ove ha sede la società.
Fiscalmente, la dichiarazione di recesso non rientra nei casi di tassazione a termine fisso, a meno che non sia inserita in una scrittura privata autentica ovvero in un atto pubblico. Va tassata in caso d’uso ovvero in caso di enunciazione (qualora la dichiarazione venga richiamata in un documento tassato) e sconta il pagamento dell’imposta in misura fissa, trattandosi di atti societari.
La giusta causa intesa come equilibrio tra interessi contrapposti
Il recesso nelle società di persone è disciplinato dall’art. 2285 cc.
Il socio può recedere dalla società – senza preavviso alcuno e senza addurre nessuna motivazione – solo nell’eventualità in cui la società sia contratta a tempo indeterminato ovvero per tutta la vita di uno dei soci (la locuzione normativa “di uno dei soci” va riferita a chiunque faccia parte della compagine societaria e quindi non necessariamente a colui che intende esercitare il recesso). L’equiparazione (tra società costituita a tempo indeterminato e società contratta per tutta la vita di uno dei soci) va intesa come segue: se, alla naturale scadenza della società, un qualsiasi socio compirà una certa età (nella prassi viene per consuetudine indicata l’età di 85 anni), allora la società si reputa contratta per tutta la vita del socio e quindi, al pari delle società a tempo indeterminato, viene data la facoltà a ciascun socio di recedere ad nutum
In ogni altra eventualità, il legislatore acconsente al socio di recedere purchè si realizzi una ipotesi contemplata dallo statuto societario ovvero sussista una giusta causa. In tal’ultima ipotesi, la dichiarazione di recesso deve indicare, in maniera specifica ed analitica, la motivazione alla base del recesso medesimo (ossia deve specificare il giusto motivo) e deve essere tempestivamente comunicata, a seconda delle ipotesi, alla società ovvero ai soci. Il diritto del recesso va infatti esercitato entro un congruo e ragionevole lasso di tempo (decorrente dal momento in cui il socio viene a conoscenza dell’esistenza della giusta causa), pena l’intervenuta decadenza per “acquiescenza”.
In accordo con un principio consolidato, per giusta causa vanno intese tutte le manifestazioni rientranti nella sfera potestativa del socio (necessariamente connotati da elementi di antigiuridicità ovvero lesivi delle norme statutarie ovvero dei normali principi di buone fede, lealtà e correttezza) che siano capaci non solo di creare insanabili ed irreparabili conflitti con gli altri soci, ma che siano altresì tali da generare una “paralisi” dell’attività imprenditoriale della società. L’elemento centrale che contraddistingue le ipotesi di giusta causa è, quindi, rappresentato dal comportamento del socio che genera una situazione di “scompiglio” tale da minare in maniera definitiva il rapporto fiduciario che lega i soci, così da non lasciare altra alternativa all’altro socio se non quella di recedere dalla società (il recesso del socio verrebbe visto come una sorta di legittima reazione da opporre alla condotta dell’altro socio). Da qui ben si comprendono le ragioni per le quali il recesso sia da annoverare tra gli eventi eccezionali che riguardano la conduzione della società. Non costituiscono di conseguenza giusta causa tutti quegli accadimenti rientranti nella sfera personale del socio recedente (inabilità, interdizione, ecc….) e nè le particolari vicissitudini societarie (trasformazione della ragione sociale, modifica dello statuto, approvazione stato di liquidazione, trasferimento della sede all’estero, ecc…)
L’elemento caratterizzante del recesso rimane pur sempre la base economica: il socio recede perché non ha convenienza economica nel rimanere “vincolato” alla società, preferendo altri investimenti imprenditoriali che – secondo le aspettative – sono più profittevoli. Eventuali reciproche antipatie tra i soci, ad esempio, che riverberano effetti solo sull’aspetto personale, non potranno mai essere considerate quali cause legittimanti il recesso per giusta causa.
Analogamente, meri dissidi interni tra i soci circa la conduzione della società non potranno mai legittimare il recesso del socio. D’altronde, se così fosse, si verrebbe a creare una ingiustificata situazione nella quale la bilancia degli interessi coinvolti penderebbe – senza logica alcuna – a favore del socio recedente a discapito dell’altro.
E’ ben noto infatti che il recesso per giusta sia da intendere quale strumento teso ad equilibrare gli opposti interessi (di natura economica) che vengono in essere nel momento in cui il socio palesi e comunichi la sua decisione di recedere dalla società. In tale ipotesi, nello scenario che ne consegue, l’interesse di cui il socio recedente è portatore si scontra con l’interesse dell’altro socio intento a mantenere invariata la compagine sociale per timore di negative ripercussioni economiche derivanti dalla fuoriuscita del socio (ricordiamoci infatti che le società di persone sono caratterizzate per l’elemento “personalistico” alla base della scelta di unirsi in un vincolo societario). Il legislatore ha inteso mitigare la situazione dando la facoltà di recedere al socio al ricorrere di specifiche situazioni rappresentanti, appunto, la giusta causa.
Ma se l’intento della norma di cui ci si occupa è quello di equilibrare gli opposti interessi, allora deve essere data facoltà al socio – come convenientemente sottolineato dalla dottrina – di recedere ogni qual volta si verificano episodi tali da generare gravi squilibri all’interno della società e/o tra i soci stessi. Vanno, quindi, ampliate le ipotesi tipizzate dalla giurisprudenza e vanno di conseguenza qualificati quali giusti motivi tutti quegli episodi che hanno rilevanza – ad esempio – sulla sfera personale del socio oppure incidano sull’aspetto oggettivo della “governance” societaria.
Valga il seguente esempio per comprendere le ragioni di tale affermazione. Immaginiamo che Tizio e Caio siano entrambi soci di una società semplice di trasporto urbano i cui proventi sono commisurati al relativo lavoro svolto. A seguito di una malattia a Tizio viene revocata la patente e non più condurre automezzi. Quest’ultimo, chiaramente, ha tutto l’interesse a fuoriuscire dalla società ed a vedersi liquidata la propria quota. Se però si adottassero alla lettera le linee guida della giurisprudenza, in una simile ipotesi, non verrebbe data la possibilità al socio di recedere per giusta causa (non si rinviene infatti il comportamento scorretto dell’altro socio che legittima il recesso).
Si tratta di una evidente situazione paradossale ed illogica.
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Giusta causa e divorzio: un possibile connubio?
Dubbi interpretativi sono sorti in relazione all’esatto inquadramento del disposto di cui all’art. 2285 cc comma 3 (nella parte in cui viene richiesta la presenza della giusta causa per consentire il recesso del socio) con le disposizioni di cui alla legge 898/70, ossia con la normativa dettata in tema di divorzio (chiaramente ha poca attinenza ai nostri fini il distinguo legislativo tra scioglimento del matrimonio e cessazione degli effetti civili del matrimonio). La questio iuris va posta nei seguenti termini: immaginiamo di trovarci di fronte ad una società la cui compagine societaria sia composta da soci tra loro uniti dal vincolo del matrimonio. Ebbene, in un simile contesto, l’intervenuta sentenza di scioglimento del matrimonio rappresenta – di per sé stessa – un’ipotesi di giusta causa di recesso? Oppure il socio, per legittimare il proprio recesso, è comunque tenuto a specificare le ragioni sulle quali fonda la propria decisione di fuoriuscire dalla società ed a dimostrare che le argomentazioni motivazionali siano tali da poter essere ricondotte nell’alveo applicativo del concetto di “giusta causa”.
Va specificato da principio che dalla problematica esulano le società di capitali sulla base di due distinte argomentazioni. Le società di capitali, come è infatti noto, sono contraddistinte per avere un’autonomia patrimoniale perfetta. Deriva che, per queste ultime, hanno poca attinenza le vicissitudini personali che investono i soci (il principio in realtà non ha sempre valore assoluto ma va spesso mitigato in quanto nel panorama societario vi sono molte società di capitali – per lo più sotto forma di srl anche semplificate – denominate a “ristretta base societaria” che sono composte da un numero minimo di soci legati tra loro da vincoli parenterali per le quali hanno rilevanza le vicende personali dei singoli soci). Ed inoltre in ragione del fatto che per le società di capitali vige – dopo la riforma del 2003 – un apparato normativo autonomo (quasi a “tenuta stagna”): le disposizioni dettate in tema di società semplici non vanno estese anche alle società di capitali: conseguentemente il recesso per giusta causa non si applica per queste ultime (si veda, da ultimo, Trib. Catanzaro 21.11.17).
La questio iuris introdotta non è di poco conto: i motivi infatti che sono alla base del divorzio (che di norma riguardano la sfera personale: tradimento, incompatibilità di carattere, ecc…) non solo hanno natura ed intensità diversa dalle scelte decisionali che spingono il socio di uscire dalla compagine societaria (che sono contraddistinte da connotati economici), ma oltretutto mal si conciliano con queste ultime. In altri termini: la decisione del socio di recedere dalla società è sempre suscettibile di valutazione economica (Tizio recede perché non ha guadagni dalla società e quindi ha interesse economico a fuoriuscire perché vuole destinare risorse – di tempo o monetarie – per altri affari); mentre nel divorzio il dato economico non riveste importanza alcuna (il coniuge divorzia per decisioni personali legate all’aspetto sentimentale [2]). Le scelte alla base del divorzio, di conseguenza, non rappresentano di per sé stesse motivi ostativi alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale esercitata dai coniugi sotto forma di società.
Se si aderisse pertanto alla tesi che vuole il divorzio come motivo legittimante – di per sé stesso – il recesso per giusta causa, ciò porterebbe, come conseguenza, non solo ad una insensata equiparazione tra scelte motivazionali tra loro, per natura, del tutto disomogenee [3]; ma verrebbe altresì a crearsi una situazione connotata da una sproporzione di interessi (ingiustificata) a favore del socio / coniuge recedente. Si pensi infatti all’ipotesi, peraltro frequentissima nella prassi, nella quale i coniugi intendono divorziare – magari consensualmente – non per ragioni personali e quindi attinenti la vita matrimoniali (come dovrebbe essere), ma per meri fini fiscali / tributari. In un simile contesto, sarebbe del tutto illogico dare la possibilità al coniuge di esercitare financo il diritto di recesso (che va ricordato deve ricorrere in ipotesi eccezionali) per il semplice fatto di avere raggiunto un’intesa (che cela quasi una simulazione) con l’altro coniuge.
In un quadro così delineato, sembra allora corretto concludere ritenendo che l’intervenuto divorzio (di per sé stesso) non sia da annoverare tra le giuste cause che possano legittimare il recesso dalla società ma occorre identificare le ragioni alla base del divorzio e valutare se esse possano essere ricondotte tra le ipotesi di giusta causa legittimanti il recesso.
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Note
[1] Il recesso deroga, in particolare, al dettato normativo di cui all’rt. 1372 cc che , come è noto, prevede che i contratti non possono essere sciolti se non con il consenso di tutti i contraenti.
[2] La scelta di divorziare non può trovare ragione ad esempio nello scarso guadagno dell’atro coniuge. Il divorzio può però creare disagi economici dovuti ad un abbassamento del tenore di vita.
[3] Si immagini la situazione nella quale due coniugi decidono di divorziare poiché vivono in città tra loro lontane e viene meno la comunione spirituale. Se si aderisse alla tesi in commento, si arriverebbe all’assurda conclusione di dare la possibilità di recedere anche in presenza di scelte personalissime (in questo caso il fatto che i coniugi vivono distanti) che non sono minimamente suscettibili di valutazione economica.
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