L’esclusione dello scopo di lucro nello statuto delle società

Redazione 26/01/01
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di Giuditta Lamorte

L’art. 2247 cc, definisce la società come il contratto con il quale “due o più persone conferiscono beni e servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”, elementi essenziali della società sono dunque

a) la pluralità delle persone, anche se oramai questo concetto è diventato anacronistico, essendo stata introdotta nel nostro ordinamento la società unipersonale a responsabilità limitata, disciplinata dagli artt. 2475 e 2475 bis cc;

b) il conferimento di beni o servizi, inteso come assunzione dell’obbligo di compiere una prestazione diretta al conseguimento del fine sociale;

c) l’esercizio in comune di un’attività economica, quindi una attività economica svolta nell’interesse comune, ben potendo la società essere costituita per un singolo affare (società occasionale), anche se non mancano autorevoli tesi contrarie;

d) la divisione degli utili, l’art. 2247 conclude dicendo che lo scopo della società è la divisione degli utili fra i soci.

Quest’ultimo punto è sicuramente uno degli argomenti più caldi sui quali dibattono i giuscommercialisti, giacché nel silenzio del legislatore si dubita che la divisione degli utili assuma il ruolo di causa del contratto, assuma in altre parole la configurazione di ragione economico-sociale tipica per la quale la società stessa viene in essere.

2. LA PRODUZIONE E LA DIVISIONE DI UTILI:

LUCRO OGGETTIVO E LUCRO SOGGETTIVO

“La produzione e la divisione degli utili, che costituiscono l’elemento oggettivo della causa del contratto di società, va riferita al complesso dell’attività societaria e questa funzione economico-sociale tipica non viene meno se qualche atto o negozio, rientrante nell’oggetto sociale, sia esercitato senza fine lucro” (Cass. 1921/61); non a caso una società può compiere atti di liberalità (antitetici allo scopo di lucro) solo se espressamente previsti dallo statuto ed in caso contrario solo se procede ad una modifica dello statuto stesso.

L’attività economica esercitata in comune, deve essere volta alla produzione di utili(c.d. lucro oggettivo) e tali utili dovranno poi essere divisi fra i soci (c.d. lucro soggettivo) (Cass. 1481/65) e si è altresì precisato, facendo riferimento al rapporto tra economicità dell’attività esercitata e scopo di lucro, che l’attività societaria è economica solo quando è organizzata in maniera tale da consentire la produzione di utili.

3. IL TRAMONTO DELLO SCOPO DI LUCRO O SEMPLICEMENTE DIRITTO

SPECIALE E DIRITTO COMUNE?

Si parla da più parti di “tramonto dello scopo di lucro” in quanto nella pratica si riscontra l’esistenza di società dichiaratamente prive dello scopo di lucro e di società in fatto prive del suddetto scopo.

Quando si parla di società dichiaratamente prive di scopo di lucro si fa riferimento alle società consortili e, prima della modifica introdotta dalla L. 586 del 18 novembre 1996, alle società sportive:

a) per quanto riguarda le società consortili, così come disciplinate dall’art 2615 ter cc, si incorre nella categoria dei così detti contratti collegati, per questo viene in esistenza un negozio–mezzo (in questo caso la struttura societaria) ed un negozio–fine (il consorzio); in virtù di quanto ora detto nelle società consortili non c’è il tramonto dello scopo di lucro, ma solo un adeguamento di due discipline quindi questo tipo di società avrà la forma della società e la sostanza del consorzio, di conseguenza resta fermo lo scopo mutualistico del consorzio, il cui obiettivo è quello di procurare un vantaggio agli associati; in conclusione la struttura societaria non è impiegata nella sua funzione tipica;

b) per quanto riguarda le società sportive, l’art. 10 co. 2 della L. 91 del 23 marzo 1981, prevedeva espressamente la non distribuibilità degli utili all’interno di dette società, ma il loro reinvestimento nell’ambito della attività sportiva.

Questa espressa mancanza di lucro soggettivo nell’ambito delle società sportive veniva letto da parte di alcuni, non già come norma speciale rispetto alla fattispecie tipica, bensì come principio generale.

Con la Legge 586/96 è stata introdotta la possibilità per le società sportive di distribuire gli utili prodotti, anche se lo strumento usato dal legislatore non è quello di una disposizione in positivo, ma la mera abolizione dell’art. 10 co. 2 della L. 91/81, cioè la abolizione della norma che imponeva alle società sportive di reinvestire gli utili in attività, appunto, sportive.

Quando si parla di società di fatto prive di scopo di lucro si fa riferimento a quelle società il cui Statuto formalmente prevede l’esercizio di una attività economica al fine della divisione degli utili, ma “di fatto” manca o il perseguimento del lucro oggettivo o il perseguimento del lucro soggettivo, quanto alla prima fattispecie, mancanza di lucro oggettivo, il riferimento è a quelle società che non esercitano una attività economica, ma mera attività di godimento, quanto alla seconda fattispecie, mancanza di lucro soggettivo, il riferimento è a quelle società nelle quali viene esercitata una attività economica, per antonomasia produttiva di utili, ma gli utili prodotti non vengono distribuiti fra i soci, bensì destinati a scopi altruistici o morali.

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4. UN PROBLEMA DI QUALIFICAZIONE

Per quanto fin qui detto in mancanza di scopo di lucro non si pone un problema di validità del contratto societario, ma un problema di qualificazione del contratto associativo prescelto.

Partendo dal presupposto che:

a) una associazione può esercitare attività economica;

b) ciò che distingue una associazione esercente attività economica da una società è proprio lo scopo e più precisamente lo scopo di lucro oggettivo e soggettivo (come sopra definiti) nelle società e di mero lucro oggettivo nelle associazioni,

la giurisprudenza, in particolare il Supremo Collegio, ha ritenuto che ” la partecipazione dei soci agli utili è un requisito del contratto di società ed entra a far parte della causa di esso, quindi se due o più persone conferiscono determinati beni per esercitare in comune un’attività economica e destinare gli utili alla beneficenza, si è fuori dello schema del contratto di società e si rientra nello schema del contratto di associazione”.

5. LE ARGOMENTAZIONI E LE SANZIONI

Tutte le argomentazioni sulla non essenzialità dello scopo di lucro si basano su due elementi fondamentali:

1) da una parte il disposto dell’art. 2332 cc, nell’indicare tassativamente le cause di nullità della società, non menziona tra queste anche la mancanza dello scopo di lucro;

2) dall’altra l’inesistenza di una sanzione a carico di una società che, pur validamente costituita ed omologata, non persegua nei fatti lo scopo di lucro.

Si sostiene che una società nel cui statuto sia stato escluso lo scopo di lucro sarebbe una società non omologabile e che una società che lo abbia escluso, di fatto, sarebbe una società soggetta a dichiarazione di nullità per simulazione, ma per quanto riguarda quest’ultimo punto dottrine e giurisprudenza prevalenti ritengono inammissibile la nullità della società per simulazione.

6. LE POSSIBILI SOLUZIONI

Trovandosi, comunque, di fronte ad una pluralità di persone che intendono esercitare insieme una attività economica al fine non già di dividere gli utili, bensì di destinarli a scopi morali ed altruistici, si potrà

a) costituire una associazione esercente attività commerciale, con tutti i rischi inerenti alla responsabilità e l’assoggettabilità al fallimento che questa comporta;

la clausola statutaria inerente potrebbe avere il seguente tenore letterale

“L’associazione, pur prevedendo nel proprio oggetto l’esercizio in comune di una attività economica, così come risulta dall’art. ____, non si pone come scopo la distribuzione degli utili prodotti.

Gli utili di cui sopra saranno destinati a (indicazione del fine altruistico o morale che l’associazione persegue)”

La suddetta clausola è stata formulata anche in considerazione del fatto che l’associazione, al contrario della società può perseguire il lucro oggettivo (cioè può produrre utile), ma le è inibito perseguire il lucro soggettivo, cioè le è inibito distribuire l’utile prodotto fra i soci;

b) costituire una società tipica e concludere a latere un patto parasociale di non distribuzione degli utili fra i soci, fatta comunque salva l’efficacia meramente obbligatoria di detti patti;

c) costituire una società di capitali tipica, prevedendo tanto il lucro oggettivo, quanto quello soggettivo e concludendo un patto parasociale con il quale i soci si obbligano a devolvere quanto percepito in fini altruistici (Campobasso); questa soluzione non mettendo in discussione né il lucro oggettivo né quello soggettivo, non incide neanche sul concetto di causa del contratto, ma considera solo il diritto individualedel socio, cioè prevede un atto di disposizione dell’utile che è già entrato nella sfera personale del singolo.

7. LE CONCLUSIONI

Hanno dunque ragione i sostenitori della teoria favorevole alla esclusione quando dicono che, mancando la disciplina sanzionatoria, se ne deve dedurre la fattibilità di una società priva dello scopo di lucro, ma forse ciò che è sbagliato è il presupposto di partenza.

Se si considera che una società di capitali nel cui atto costitutivo non sono indicati tutti gli elementi previsti dall’art. 2328 cc è una società non omologabile e quindi inesistente, così come sostiene anche la relazione ministeriale (n. 928) “in difetto dell’iscrizione nel registro, nel sistema del nuovo codice non esiste neppure una società irregolare, perché ciò sarebbe contrario alla volontà dei soci”… vuol dire che la disciplina sanzionatoria manca non perché il legislatore non abbia voluto sanzionare la fattispecie in questione, ma perché non si può sanzionare una fattispecie inesistente. L’art. 2328 cc n. 7) prevede espressamente che l’atto costitutivo “deve indicare” le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti, questo vuol dire che il giudice, in sede di controllo di legittimità formale (non già controllo di merito), nel verificare che lo Statuto sia conforme alle norme di legge vigenti in materia, negherà l’omologa per la mancata previsione delle disposizioni di cui agli artt. 2328 n. 7) e 2433 cc, cioè per la mancata previsione del lucro oggettivo e del lucro soggettivo.

Alla medesima conclusione, anche se con argomentazioni diverse, si giunge in materia di società di persone; l’art. 2262 cc recita “salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto”. L’articolo in esame sancisce il diritto del socio alla distribuzione degli utili realizzati, ma allo stesso tempo, salvo patto contrario, prevede la possibilità che gli utili realizzati (lucro oggettivo) non vengano distribuiti “quando ciò sia necessario per le esigenze della società” (Greco), in analogia al disposto dell’art. 2433 cc, in materia di società per azioni. L’art. 2262 cc prevede quindi che l’utile realizzato (lucro oggettivo) non venga distribuito fra i soci per particolari esigenze sociali; secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie il salvo patto contrario può essere realizzato solo con il consenso di tutti i soci, questo vuol dire che del diritto agli utili già maturati (ma non ancora liquidati) in capo ad ogni socio, può disporne solo il socio come singolo e non già la società; né tantomeno può disporne la società attraverso l’atto costitutivo, perché se così avesse voluto, il legislatore non avrebbe detto “salvo patto contrario”, ma avrebbe utilizzato le parole “salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo”, come in altre occasioni ha fatto.

 

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