Trib. Bologna – Sentenza n. 1068 del 15 dicembre 2011
Nella sentenza in commento la sezione lavoro del Tribunale di Bologna ha riconosciuto il danno da mobbing, ed il conseguente diritto al risarcimento, ad una lavoratrice licenziata disciplinarmente dopo essere stata sottoposta per più di un anno a condotte discriminatorie da parte del proprio datore di lavoro.
Nel caso di specie, la dipendente, responsabile del servizio fiscale di un sindacato, aveva denunciato che a partire dalla primavera del 2004 sino all’estinzione del rapporto di lavoro, avvenuta per motivi disciplinari nel luglio dell’anno seguente, era stata oggetto di “comportamenti volti a isolarla ed estrometterla dall’ambiente lavorativo” da parte dei superiori e dei colleghi.
Le tesi avanzate dalla difesa secondo cui il cambiamento della password del computer e la disattivazione dell’utenza telefonica sarebbero avvenute, rispettivamente, su tutti i computers per ragioni di sicurezza ed a causa di una bolletta telefonica elevata non sono state ritenute convincenti dal Tribunale, come la circostanza che l’omessa comunicazione fosse dovuta alla irreperibilità della dipendente e che l’estromissione dalla carica di amministratore delegato sarebbe avvenuta su sua stessa richiesta.
Secondo il giudice felsineo la condotta lesiva del datore di lavoro risulterebbe configurabile ogni qual volta siano riscontrabili:
1. una molteplicità di comportamenti persecutori, anche leciti se singolarmente presi, ma posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente, con intento vessatorio;
2. un evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
3. il nesso di causa tra la condotta del datore di lavoro e la lesione dell’integrità psico-fiscica del dipendente;
4. la prova dell’intento persecutorio perseguito dal datore di lavoro, elemento idoneo a distinguere il mobbing da singoli atti illegittimi, quali la dequalificazione ex art. 2103 c.c.
Ciò premesso, posto che il fondamento dell’illegittimità del mobbing per il giudice del lavoro trova il suo fondamento giuridico nella contrarietà del comportamento del datore di lavoro all’obbligo incombente sullo stesso di adottare, ai sensi dell’art. 2087 c.c., le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore, tale responsabilità sussiste anche qualora la condotta mobbizzante provenga da altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima come dispone l’art. 2049 c.c. qualora lo stesso datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo.
Nel caso di specie il comportamento persecutorio del datore di lavoro, esercitato per il tramite di due preposti, è stato rinvenuto, grazie alle prove offerte dalla ricorrente, nella decisione di modificare la password di utilizzo del computer della lavoratrice, bloccandone l’accesso; nella disattivazione del suo cellulare aziendale; nella sostituzione della serratura dell’ufficio.
Inoltre, i colleghi della lavoratrice erano stati “invitati” a disattendere sistematicamente le direttive dalla stessa impartite.
Sulla base di ciò il Tribunale, nell’accogliere la domanda di risarcimento del danno subito dalla ricorrente, ha riconosciuto una menomazione permanente dell’integrità psicofisica della lavoratrice pari all’8%, liquidata, sulla scorta delle Tabelle del Tribunale di Milano, in complessivi 13.670,00 a titolo di invalidità permanente, in € 840,00 a titolo di invalidità temporanea assoluta, ed in € 1.800,00 a titolo di invalidità temporanea parziale.
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