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1. Breve digressione sulla legittimità costituzionale dell’informativa antimafia: Corte Cost. n. 57/2020.
Ancor prima di ripercorrere i passaggi logico-argomentativi, ispiratori dei più recenti interventi dei Giudici di Palazzo Spada, utili a chiarire in concreto il modus operandi delle informazioni antimafia che, nell’incessante confronto con l’anti-Stato, si atteggiano quale misura cardine disegnata dall’Ordinamento e posta a servizio delle Prefetture, onde ostacolare la propalazione di agenti inquinanti rispetto al sano sviluppo dell’economia nazionale e locale (affezione che è tipico ascriversi alle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata), giova rievocare la nozione giuridica di ordine pubblico. Com’è noto, si tratta di un concetto proteiforme o, meglio, cangiante nel tempo e nello spazio, giacché «frutto della combinazione di fattori sociali e di specifiche condizioni storiche vigenti in un certo sistema giuridico»[1].
Volendo riproporre argomentazioni facenti capo ad una letteratura saldamente consolidata sul punto, utile per agganciarsi oltretutto al nodo delle potestà amministrative di prevenzione e contrasto ai tentativi di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico del Paese, è opportuno guardare alla predetta nozione di ordine pubblico in una duplice accezione. Essa rileva quale limite all’esercizio di un potere di produzione giuridica e come argine frapposto alla piena estrinsecazione di attività materiali, esercizio a loro volta di libertà fondamentali[2]. Muovendo da siffatte premesse, sono intuibili i dubbi di legittimità costituzionale maturati con riferimento a talune disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 (d’ora innanzi, codice antimafia), a cagione dei quali il Giudice delle leggi è stato, di recente, investito più volte di questioni di legittimità, per l’(asserita) violazione degli artt. 3 e 41 Cost. (libertà di iniziative economica), ovvero dell’art. 97 Cost. (buon andamento P.A.). Orbene, la Corte Costituzionale – dapprima con le sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019, dappoi, con la recentissima sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 – ha avvalorato, tramite rinnovate preziose puntualizzazioni, l’ottica di favor, già uniformemente avallata alla luce della pregressa giurisprudenza costituzionale, in ordine alla «legittimità della pur grave limitazione della libertà di impresa», che deriverebbe dal ricorso ai provvedimenti interdittivi. In particolare, le censure svolte dal remittente afferivano alle ricadute della informativa antimafia sugli atti elencati dall’art. 67 co. 1 d.lgs. cit., in quanto «funzionali all’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, così privando un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, e ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo»[3]. Ciò posto, i giudici della Consulta offrono importanti spunti nel tentativo di delimitare l’ambito di applicazione delle disposizioni legislative de quibus, laddove incidenti su diritti costituzionalmente protetti, ragionando a proposito del ruolo cui assolve, nell’odierno assetto costituzionale, il ricorso a simili strumenti amministrativi. A tal riguardo, il Collegio – muovendo dalla empirica osservazione del fenomeno mafioso, connotato da una speciale pervasività e diffusività, tali da rendere costantemente latente il rischio di una sistemica contaminazione anche dei mercati privati[4] – valuta condivisibile e, anzi, necessitata dalla grande «adattabilità alle circostanze» mostrata dall’azione criminale delle mafie tradizionali, la scelta di affidare all’autorità amministrativa la fruibilità discrezionale di misure pur connotate da una particolare gravità. Difatti, il carattere tecnico-discrezionale connotante la valutazione condotta dall’autorità prefettizia in ordine al c.d. pericolo di infiltrazione mafiosa si giustifica in ragione delle stesse finalità pratiche sottese ai provvedimenti in questione. Dette finalità consistono – come lucidamente spiegato dai giudici nella richiamata pronuncia – nell’intento (non già) di «colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento» (Corte cost. n. 57/2020). In ciò la Corte Costituzionale è andata oltre quanto già osservato dalla giurisprudenza amministrativa, rammentando che è vero che si tratta di valutazioni atteggiantesi come discrezionali ma che, nel contempo, si caratterizzano per via di una «forte componente tecnica» e sono, perciò, «soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo». Del resto, trattandosi di un giudizio connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, le conclusioni cui addiviene l’autorità prefettizia potranno essere sindacate in sede giurisdizionale soltanto nei casi di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti[5]. Sulla scorta di un siffatto ragionamento, è agevole comprendere come l’informazione in esame finisca inevitabilmente per integrare ed impreziosire l’efficacia deterrente del sistema di giustizia preventiva e cautelare basato sulla documentazione antimafia. Mutuando l’espressione in auge tra i giudici amministrativi, detta connotazione cautelare spiega il motivo per cui si dice che il provvedimento di prevenzione presupponga una prognosi di permeabilità al condizionamento mafioso da parte di una società, che si sospetta essere stata attinta dalle maglie tentacolari della criminalità organizzata. Sulle cause assumenti rilievo indiziante e sul parametro valutativo posto a fondamento del giudizio di pericolosità svolto dal Prefetto ci si soffermerà nel prosieguo. A chiusura delle argomentazioni sopra accennate, i giudici della Corte Costituzionale hanno ritenuto, in definitiva, che la misura prefettizia in commento, sotto il profilo della ragionevolezza, non possa ritenersi sproporzionata rispetto ai valori in gioco. Convogliando verso le medesime conclusioni fatte proprie già dal Consiglio di Stato (ex plurimis, sezione III, n. 565/2017), il Collegio ha ritenuto che l’assunto della equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali della libertà di impresa, da un lato, e della sicurezza e ordine pubblico, dall’altro (i.e. contrasto al fenomeno mafioso), possa ritenersi giustificato in virtù dell’onere, di cui è gravata la Prefettura, di ricostruire un quadro chiaro, completo e convincente, idoneo a comprovare il pericolo di infiltrazione mafiosa. I giudici – sempre con l’intento di fugare ogni dubbio sollevato in merito all’ammissibilità dell’istituto in questione – hanno posto l’accento sul carattere provvisorio che la misura assume ai sensi dell’art. 86 comma 2 cod. antimafia[6]. La temporaneità dello strumento amministrativo de quo implica che, alla scadenza del termine, occorre vagliare la persistenza di un pericolo di condizionamento. Qualora tale controllo dia esito favorevole, sarà opportuno procedere al recupero della impresa al mercato (ad esempio, mediante la sua reiscrizione nell’albo). Ciò serve a scongiurare il pericolo di un danno irreversibile all’operatore economico, insito nell’evenienza in cui la prognosi iniziale dovesse assumere invece carattere di immutabilità, con l’effetto di attribuire all’impresa che ne sia stata colpita una sorta di stigma permanente di “mafiosità” (o comunque di vicinanza agli ambienti mafiosi), malgrado ne siano venuti a mancare nel tempo i presupposti giustificativi. In altri termini, è erroneo ritenere che la morte dell’impresa costituisca, ad ogni effetto, l’esito immancabile cui conduce l’adozione dell’interdittiva antimafia dal momento che – come visto – la medesima misura non si appalesa come intangibile e, anzi, anche a prescindere dalla sua possibile revisione, l’ordinamento giuridico appresta un insieme di misure a tutela della continuità aziendale[7]. Alla stregua di quanto esposto, può ritenersi ampiamente assodato che il provvedimento in parola supera indenne il filtro di ragionevolezza e di legittimità, in quanto le relative caratteristiche non sono tali da pregiudicarne la conformità a Costituzione.
2. Le verifiche prefettizie tra contiguità imprenditoriale mafiosa soggiacente e contiguità compiacente.
È proprio prendendo le mosse da quella funzione di “frontiera avanzata” – cui faceva accenno già il Consiglio di Stato con sentenza del 30 gennaio 2019, n. 758 – che trovano sistemazione logica i principi elaborati dai giudici amministrativi a proposito dell’interdittiva antimafia e confermati, da ultimo, dal Consiglio di Stato con sentenza dell’11 maggio 2020, n. 2962. Nella sentenza de qua, i giudici rivitalizzano la dicotomia che era stata coniata in anni recenti. L’approfondimento dei fenomeni di «contiguità con la criminalità organizzata» da parte delle imprese ha infatti messo in luce che la polimorfa casistica riscontrabile in materia può essenzialmente farsi confluire, per esigenze di semplificazione sistematica, all’interno dei due macro-settori inquadrabili sotto le voci della contiguità c.d. soggiacente e contiguità c.d. compiacente. In particolare i giudici stigmatizzano l’accentuata pericolosità di quest’ultima ipotesi, su cui si sono concentrate le maggiori attenzioni degli interpreti, preoccupatisi di fornire risposte giuridiche efficaci al cospetto di «condotte ambigue di operatori che, benché formalmente estranei ad associazioni mafiose, si pongono su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità, nell’esercizio dell’attività imprenditoriale». È perfettamente in linea con tale scacchiere criminale l’ulteriore constatazione secondo cui può ritenersi ampiamente compiuta la “metamorfosi della fisionomia” delle mafie, le quali – superate le «tragiche stagioni di sangue degli attacchi frontali allo Stato» – si “nutrono” oggi della quotidiana ed invasiva penetrazione, tramite membri intranei alla consorteria mafiosa o concorrenti esterni, dei settori sui quali si erige l’economia legale del nostro Paese. Ciò posto, la richiamata pronuncia ha il pregio di compendiare efficacemente lo stato dell’arte.
2.1. Consiglio di Stato n. 2962/2020: lo stato dell’arte della giurisprudenza amministrativa.
In via del tutto preliminare, mette conto osservare che – coerentemente con quanto asseverato dal Consiglio di Stato in occasione di illustri precedenti in materia (primo fra tutti, mutatis mutandis, Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758) – l’esigenza di salvaguardare i valori fondanti della democrazia si traduce nella devoluzione all’autorità prefettizia di uno strumentario composito, fatto di «accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini». Nell’ampia cassetta degli attrezzi per il contrasto alla criminalità organizzata, ai fini dell’attivazione dell’informazione antimafia, assumono rilievo presupposti nettamente diversi da quelli richiesti per l’adozione delle comunicazioni[8]. Elemento fondante l’informativa è la riscontrata sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, tendenti a influenzare la gestione di un’impresa. Com’è evidente, trattasi di nozioni che delineano fattispecie di pericolo (per definizione, inteso come probabilità di evento). Da ciò può pacificamente ricavarsi che le stesse sono finalizzate a prevenire un evento che, per scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, potendo essere anche solo potenziale. Un sì esteso campo valutativo del potere prefettizio si arresta soltanto di fronte a fatti inesistenti oppure obiettivamente non sintomatici, perché desumibili da elementi meramente immaginari o aleatori. A questo proposito, la tipizzazione delle situazioni c.d. sintomatiche del pericolo di infiltrazione è avvenuta in via pretoria[9], attingendo tanto da indicazioni legislative quanto dalla stessa casistica giurisprudenziale. Detta tipizzazione non ha tuttavia portata retroattiva: essa si limita infatti a riprendere quella desumibile dalla costante giurisprudenza amministrativa «in tema di rapporti di parentela, frequentazioni, cointeressenze, vicende anomale dell’impresa, intestazioni fittizie di società, ricorso alle c.d. teste di legno, scambio di mezzi e di personale, intrecci societari in ambito familiare, società di tipo familiare o clanico, e così via». A ben vedere, si tratta di elementi puramente presuntivi della contaminazione mafiosa, integrati da dati di comune esperienza ed evincibili dalla mera osservazione di fenomeni sociali[10]. Invero, pur non superando la soglia della punibilità penale, è sufficiente che, alla luce dei fatti osservati, l’ipotesi dell’ingerenza mafiosa presenti una soglia di significatività superiore rispetto a qualunque altra spiegazione logica divergente[11]. In altri termini, la verifica di legittimità dell’informativa impone che il ragionevole rischio di sbocchi criminali all’interno della singola impresa sia stato prognosticato in base alla regola causale del “più probabile che non” ovvero, con formulazione più appropriata, della c.d. “probabilità cruciale”. In proposito, come ben osservato a più riprese dalla giurisprudenza amministrativa, si tratta di un procedimento logico estraneo al sistema penale, essendo quest’ultimo improntato su criteri di certezza probatoria, idonei a suffragare il convincimento del giudice penale al di là di ogni ragionevole dubbio. Al contrario, l’idea di “probabilità cruciale” si connota per la «(minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica»: ne deriva che «l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità»[12]. Diversamente opinando, ove all’autorità si richiedesse di istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’adozione dell’informativa ad effetto interdittivo, finirebbe per essere frustrata irrimediabilmente e vanificata la stessa funzione preventiva assegnata alla legislazione antimafia[13], da cui invece dovrebbero restar fuori i provvedimenti anche solo latamente sanzionatori[14]. Per tale via, il Consiglio di Stato ha così fornito un decalogo o, meglio, una clausola generale aperta dalla quale attingere per l’individuazione degli elementi rilevanti, soddisfando nel contempo il principio di tipicità, dal momento che tale tipizzazione non costituisce né una norma in bianco, né comporta una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa, imprevedibile per il cittadino e insindacabile per il giudice. Sotto questo profilo, i giudici del massimo organo della giustizia amministrativa hanno già espressamente sconfessato le voci critiche levatesi rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione delle misure di prevenzione personali e in particolare dello strumento dell’informativa[15], apparsa, specie a seguito della recente pronuncia della Corte EDU, nel caso De Tommaso c. Italia[16], «poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate»[17]. Ciò esplicitato, atteso che il d.lgs. n. 159/2011 presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (art. 91 co. 6), per procedere all’adozione di consimili misure interdittive ante delictum occorre che il Prefetto abbia valutato in modo unitario l’insieme degli elementi emersi nel corso del procedimento, apprezzabili soltanto ove considerati nel relativo legame sistematico. Viceversa, l’impianto motivazionale dell’informativa apparirebbe carente e, per ciò solo, demolibile, laddove l’autorità si limitasse alla valutazione atomistica (per dirla con le parole del Collegio, ad una «visione parcellizzata») di ciascun singolo elemento che, siccome alienato dal suo contesto fattuale ed esaminato isolatamente, perderebbe qualsivoglia valenza indiziaria.
3. Applicazione al caso di specie.
A latere della suesposta digressione di carattere generale, è possibile analizzare funditus i motivi specifici, a sostegno della decisione n. 2962/2020, con la quale il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza di prime cure resa dal T.A.R. Veneto, respingendo, per l’effetto, l’impugnativa proposta dalla società ricorrente avverso l’interdittiva antimafia, emessa dal Prefetto di Verona, e avverso il decreto dell’Ufficio Motorizzazione civile, recante sospensione dell’autorizzazione concessa alla medesima società all’esercizio della professione di autotrasportatore su strada di merci (A.E.P.), disposta per carenza del requisito di onorabilità, discendente dal provvedimento prefettizio. L’atto di appello consta di 8 capitoli, nei quali l’appellante ripercorre l’evoluzione storica della società e, parallelamente, i punti sui quali si fonda l’interdittiva, contestandoli. Per ciò che attiene alle doglianze mosse avverso l’interdittiva antimafia, la società ricorrente ha ritenuto meritevole di censura il provvedimento prefettizio[18] dal quale risulterebbe che il Prefetto avrebbe fatto applicazione della regola in base a cui «“il figlio di un mafioso non può non essere anche lui mafioso” con l’aggravante che “se un imprenditore conosce un mafioso è anche lui mafioso e di conseguenza lo sono anche i suoi parenti”». Un siffatto peculiare ragionamento dimostrativo – a giudizio dell’appellante – incappava in un’evidente fallacia argomentativa, vulnerabile in termini probatori, dal momento che tali evidenze non risultavano corroborate da ulteriori elementi comprovanti la contiguità esistente tra l’imprenditore e l’associazione criminale, «dovendo ricorrere legami, frequentazioni, cointeressenze idonee a ritenere che il soggetto controindicato possa influire sulle scelte imprenditoriali dell’azienda». A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha evidenziato, invece, come il giudice del T.A.R. abbia correttamente fatto applicazione dei predetti principi generali. In particolare, la Corte ha condiviso la decisione del Tribunale regionale di ritenere immune da vizi la valutazione resa dal Prefetto di Verona, dal momento che i fatti storici emersi – a seguito di una compiuta istruttoria – hanno recato evidenza del fatto che, nel caso in esame, si sarebbe perfezionato un vero e proprio “passaggio di testimone” delle aziende, finalizzato ad eludere la normativa antimafia. In tale direzione convergono, consolidando la ricostruzione e l’operato dalla Prefettura, una serie di elementi, dei quali: «la giovane età dei due soci, il primo dei quali, titolare del 99% delle quote sociali, figlio convivente con il padre [secondo la Prefettura, reale dominus della società ed il cui nome in passato era stato avvicinato a quello di esponenti di clan malavitosi], ed il secondo genero dello stesso; la derivazione di buona parte dei mezzi e del personale da precedenti imprese dello stesso; della comunanza delle sedi sociali; dell’utilizzazione dello stesso studio commerciale», colluso con la ‘ndrangheta. La lettura complessiva di tali elementi di permeabilità criminale, tali da porre l’impresa in una condizione di potenziale asservimento, alla stregua del descritto criterio della probabilità cruciale, ha infatti indotto i giudici a disvelare come l’operazione societaria de qua, che già aveva destato l’attenzione della Prefettura di Verona, non fosse altro che una manovra di facciata, tesa a mascherare la longa manus dell’imprenditore di cui erano stati documentati, più volte, i «rapporti di conoscenza, di affari e di vera e propria contiguità» con la criminalità organizzata, senza escludere che la società fosse in fatto gestita proprio da quest’ultimo. Del resto, è d’uso corrente tra le società vicine ai sodalizi criminali la pratica di precostituirsi, come nel caso di specie, un coacervo di elementi fattuali («mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo»[19]), funzionali a rendere attendibile, ex post, la cesura con il passato, nel tentativo di paralizzare il potere prefettizio di ricorrere a misure cautelari[20]. Vi è di più. Le conclusioni del T.A.R. sono state avallate dal Consiglio di Stato anche sulla scorta dei principi già espressi dalla Sezione III, in presenza delle condizioni sufficienti ad integrare situazioni c.d. di «regia familiare»: nei casi cioè in cui i rapporti di parentela assumano un’intensità tale da far ritenere sussistente una conduzione familiare dell’impresa, secondo una concezione “clanica”, usuale dei metodi mafiosi. A fortiori, nella vicenda in esame, l’esistenza di una regia collettiva di tipo familiare, promanante dall’imprenditore compromesso con logiche riconducibili alle associazioni di stampo mafioso, è apparsa ragionevolmente ipotizzabile rispetto al socio che (oltre ad essere il figlio dell’imprenditore colluso), aveva anche una giovane età (poco più che ventenne all’atto della costituzione della società), e per il quale, perciò, non sussisterebbe «la sufficiente garanzia di mancato condizionamento». Da ultimo, il Collegio ha ritenuto sfornito di qualsivoglia pregio probatorio il rilievo fondato sulla “risalenza” nel tempo dei dati fattuali posti a fondamento della disposta misura ostativa. Difatti, secondo consolidata giurisprudenza sul punto, è opportuno che il ricorrente dia prova della sopravvenienza di nuovi fatti positivi, documentanti la fuoriuscita definitiva dell’impresa «dal cono d’ombra della mafiosità». In via del tutto conseguenziale, il provvedimento di interdizione antimafia, correttamente disposto dal Prefetto di Verona, ha comportato il venir meno del requisito di onorabilità indispensabile per l’iscrizione, ed il mantenimento dell’iscrizione, all’Albo delle persone fisiche e giuridiche autorizzate ad esercitare l’attività di autotrasporto di cose per conto di terzi. L’automatismo insito nel descritto meccanismo di perdita dei requisiti di onorabilità (artt. 4 e 5 commi 2 e 8 del D.Lgs. 22 dicembre 2000, n. 395) è apparso ai ricorrenti affetto da illegittimità costituzionale, per contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 3, 14 e 133 Cost., in quanto sottratto ad ogni valutazione da parte della stessa Amministrazione. In proposito, seppure il Collegio in altre occasioni – invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza della sanzione rispetto al caso concreto – avesse già ritenuto non legittimi gli automatismi legislativi[21], cionondimeno ha evidenziato che l’ipotesi in parola è nettamente diversa dai casi precedentemente esaminati, dal momento che «il provvedimento di revoca e cancellazione non ha carattere punitivo o afflittivo e non si configura quale pena accessoria», ma è una misura conseguente alla constatazione della sopravvenuta perdita di una condicio iuris, prescritta per l’esercizio di una peculiare attività e, a conclusione, ha ritenuto manifestamente infondata l’anzidetta questione di legittimità costituzionale.
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Incapacità giuridica speciale e incidenza dell’informativa sulle gare pubbliche: Consiglio di Stato n. 2064/2020.
Per ragioni di completezza illustrativa, è opportuno tirare le fila del discorso ponendo mente all’incidenza esplicata dall’interdittiva antimafia in capo al soggetto attinto (persona fisica o giuridica), in termini ostativi rispetto alla titolarità di qualsivoglia di situazione giuridica soggettiva. Come già chiarito dal Consiglio di Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3[22] – con riguardo ai soggetti cui sia stata applicata, con provvedimento definitivo, la speciale misura di prevenzione in questione – dal divieto di ottenere una serie di atti elencati all’art. 67 co. 1 cod. antimafia[23] conseguirebbe un’incapacità giuridica parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la P.A.) e tendenzialmente temporanea. Il massimo consesso amministrativo, nella nota pronuncia del 2018, ha anche precisato che nell’elencazione di cui al citato art. 67 andrebbe ricompresa «l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa, riconosciutigli da una sentenza passata in giudicato», senza che in ciò possa ravvisarsi una compromissione della c.d. intangibilità del giudicato, proprio in ragione del fatto che la mancata erogazione del risarcimento non consegue ad un’incisione del giudicato ma alla stessa incapacità speciale ex lege del soggetto destinatario dell’interdittiva. Non potendo in questa sede esaminare la complessa evoluzione dell’interessante dibattito a proposito di incapacità giuridica speciale dell’imprenditore[24], basti qui fare accenno alla recente sentenza del Consiglio di Stato n. 2064/2020, con cui i giudici hanno chiarito la portata applicativa dell’art. 94 d.lgs. citato, quanto alla incidenza dell’informativa sulle gare pubbliche in corso, ovvero già conclusesi[25]. Nello specifico, con particolare riferimento alle ipotesi in cui gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, le stazioni appaltanti devono procedere alla risoluzione dello stesso (co. 2). Tuttavia, la generale azione destrutturante dell’utilitas già ottenuta dall’impresa, per effetto dell’intervenuta aggiudicazione in proprio favore, è mediata dalla previsione contenuta al co. 3 che enuncia, quali ipotesi derogatorie del tutto residuali, i casi in cui l’amministrazione possa dar seguito al contratto pubblico già stipulato, ossia: allorquando a) l’opera sia in corso di ultimazione; b) in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico; c) qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi[26]. In queste ipotesi del tutto eccezionali e remote, e soltanto al ricorrere delle stesse, può trovare applicazione il rimedio straordinario della prosecuzione del contratto pubblico. Nel caso di specie, i Giudici di Palazzo Spada hanno condiviso la valutazione dell’amministrazione di confermare l’originaria aggiudicazione «non appena è venuta a conoscenza dell’intervenuto annullamento in sede giurisdizionale dell’informativa», in ragione della ritenuta prevalenza dell’interesse alla celere realizzazione dell’opera, rispondente a finalità di interesse pubblico, rispetto alle vicende dell’impresa impegnata ad ottenere una riabilitazione in sede amministrativa, non essendo medio tempore ancora intervenuta l’aggiudicazione a terzi. Del pari corretta è stata, successivamente, la valutazione dell’amministrazione – una volta confermata la legittimità dell’informativa in sede di appello – di revocare nuovamente l’aggiudicazione, in conseguenza della reviviscenza dell’interdittiva antimafia[27].
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Note
[1] O. FERACI, L’ordine pubblico nel diritto dell’Unione Europea, Giuffre` 2012, p. 11.
[2] In tal senso, si v. G. CORSO, Ordine pubblico nel diritto amministrativo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, n. 10, Torino, 1995, pp. 439 ss.
[3] Cfr. Corte Cost., sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 in G.U. 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 14 del 1-4-2020.
[4] Sul punto, la Corte rinvia alla relazione del 7 febbraio 2018, conclusiva dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, dalla quale emerge la peculiare vulnerabilità dei «settori connotati da elevato numero di piccole imprese, basso sviluppo tecnologico, lavoro non qualificato e basso livello di sindacalizzazione, dove il ricorso a pratiche non propriamente conformi con la legalita’ formale diviene prassi diffusa».
[5] «mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento», Cons. St. n. 4724 del 2001.
[6] «ha una validità di dodici mesi dalla data dell’acquisizione, salvo che non ricorrano le modificazioni di cui al comma 3».
[7] Fondate sull’estromissione degli «elementi di contagio con la criminalità organizzata».
[8] Che diversamente dalle informazioni, hanno carattere vincolato, dovendo il Prefetto solamente verificare che sussista a carico del soggetto sottoposto a verificare una delle misure di prevenzione personali definitive, disciplinate dal Libro I, Titolo I, Capo III del Codice antimafia, consultando la banca dati nazionale unica disciplinata all’art. 96. Per una più compiuta disamina delle verifiche prefettizie antimafia, in generale, si rinvia a R. GAROFOLI e G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, XIII, Neldiritto ed., 2020, 1326 ss.
[9] Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[10] Cons. St., sez. III, 13 novembre 2017, n. 5214.
[11] Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019 n. 6105.
[12] Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483.
[13] Cons. St., A.P., 6 aprile 2018, n. 3.
[14] Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743. Per tale ragione, si rammenta che – in sede di informativa antimafia – non occorrerebbe alcun accertamento di responsabilità penali, neppure sub specie attenuata di concorso esterno, né tantomeno la prova della commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 legge n. 203/1991.
[15] Sul punto, v. G. AMARELLI, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia ‘generica’ ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e) d.lgs. n. 159/2011? in Diritto penale contemporaneo, n. 4, 2017.
[16] Si veda De Tommaso c. Italia, [GC], 23 febbraio 2017, § 45.
[17] In proposito si rinvia alla già citata sentenza Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019 n. 6105, da cui si apprende – in risposta all’addebito di assoluta genericità mosso avverso l’informativa antimafia – quanto segue: «il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica».
[18] E con esso, di riflesso, la stessa sentenza del T.A.R. Veneto che «avrebbe avallato le mere congetture su cui si fonda l’interdittiva».
[19] Cons. St., sez. III, 13 maggio 2020, n. 3030.
[20] Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854.
[21]«anche in materie ove sia riconosciuta un’ampia discrezionalità al legislatore, come è accaduto per la sanzione della destituzione automatica nei confronti dei pubblici dipendenti e dei professionisti, senza la mediazione del procedimento disciplinare» (§ 28.1).
[22] Con nota di G. FASANO Antimafia: l’incapacità ex lege derivante dall’interdittiva in Quotidiano giuridico n. 1/1, 2018.
[23] In particolare, è fatto divieto di ottenere: «contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali» (lett. g).
[24] Per una disamina approfondita della questione, si rinvia a C. COMMANDATORE, Interdittiva antimafia e incapacità giuridica speciale: un difficile equilibrio in Resp. civile e previdenza, n. 3, 2019, 917 ss.
[25] In proposito, si v. anche G. CASSANO, Quale l’incidenza dell’informazione antimafia sulle gare pubbliche?, in Quotidiano giuridico n. 2/85 del 22 maggio 2020.
[26] Come ritenuto dal Tar Campania, la determinazione dell’amministrazione aggiudicatrice di procedere in tal senso, in presenza di uno dei presupposti indicati dall’art. 93 co. 3 non sarebbe viziata per profili di eccesso di potere o irragionevolezza. Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. I, con sentenza del 5 novembre 2014, n. 5692.
[27] Cons. St., sez. III, 24 marzo 2020, n. 2064.
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