Sentenze definitive contrastanti: quid iuris?

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Sentenze definitive contrastanti: L’ importante ed interessante ordinanza,  sotto riportata per relationem, è del Tribunale Collegiale di Lamezia Terme (CZ), riunitosi per decidere il reclamo (nella procedura recante il n.1339/2021 R.G. del 10 febbraio 2022),avverso l’ ordinanza contraria  del G.U. del medesimo Tribunale.

Trib. di Lamezia Terme- sez. unica civile-ord. 10-02-2022 del proc. iscritto al R.G. 1339/2021

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Indice

1. Premessa


Il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Lamezia Terme (CZ), con propria sentenza, a seguito di giudizio abbreviato del 21/7/2009, condannava  A.B. e C.D. (il primo quale comandante la Polizia Locale e il secondo quale assessore del Comune di  XX) per molteplici ipotesi delittuose  di peculato.
Più nel dettaglio, il G.U.P. riteneva A.B. responsabile dei reati a lui ascritti in quanto si era appropriato di denaro della P.A., provento di sanzioni per infrazioni al C. di S., violazioni alla normativa edilizia e tasse di occupazione temporanea di suolo pubblico: denaro, secondo l’accusa, ammontante nel complesso a centocinquanta milioni di lire, di cui aveva disponibilità per ragioni di ufficio. Inoltre, sempre secondo l’accusa, si era appropriato di ulteriori cento milioni, sempre dell’Ente territoriale, provenienti dai medesimi fondi, con successiva cessione al sindaco e agli assessori, mediante buoni di anticipazione non regolarmente deliberati.
C.D., nella qualità di assessore comunale era stato condannato per avere ricevuto parte dei predetti buoni di anticipazioneper un importo complessivo di circa dieci milioni di lire.
Le pene irrogate erano, per A.B., anni due e mesi due di reclusione e per C.D. un anno di reclusione, oltre, per entrambi, al pagamento delle spese processuali con il beneficio della: pena sospesa e non menzione.
Seguiva la condanna in solido di entrambi gli imputati al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore dell’ ente pubblico, costituitosi parte civile, oltre alle spese di costituzione di parte civile liquidate in euro diecimila, oltre accessori.
Avverso la richiamata sentenza veniva proposto gravame  dinanzi la Corte d’Appello di Catanzaro, la quale, con sentenza dell’ 11/12/2012, accogliendo parzialmente l’appello interposto ed escludendo, per questo, la contestata ipotesi del reato di peculato, in quanto non si era verificata  alcuna appropriazione di somme di denaro, riteneva le condotte contestate sussumibili sotto l’ipotesi del reato di abuso d’ufficio, ex art. 323 cod. pen..
In virtù della riqualificazione giuridica delle condotte, ritenute accertate secondo la Corte d’Appello, il giudice del secondo grado dichiarava n.d.p. perché i reati contestati erano prescritti.
Entrambi i prevenuti proponevano ricorso per cassazione, sostenendo la loro assoluta estraneità ai fatti contestati e chiedendo, per questo, l’assoluzione con formula terminativa.
La Suprema Corte delle Regole, Sesta Sezione Penale, con sentenza del 27/2/2014, dopo avere rilevato come la Corte territoriale avesse correttamente ritenuto che non fosse assolutamente configurabile il reato di peculato, censurava, ugualmente, il giudice di merito di secondo grado, in quanto lo stesso era  inciampato, secondo la S.C., in un evidente errore, ritenendo, in modo non suffragato da puntelli giuridici, che i fatti contestati agli imputati fossero da sussumersi sotto l’ipotesi di reato di cui all’art. 323 cod. pen.
Infatti, dopo avere dichiarato come i ricorsi fossero da ritenersi fondati in punto della configurabilità del reato di abuso di ufficio, la S.C. ha rilevato come la contestazione dei fatti poggiasse, in modo generico, su veri e propri assiomi quali: “chiara violazione delle disposizioni regolanti la gestione delle spese pubbliche, lasciando al lettore la individuazione di tali disposizioni, e dei limiti legali di gestione e utilizzo del denaro pubblico, tutti assiomi che travisano il contenuto della norma penale di cui all’art. 323 cod. pen.” (Cass., Sez. VI Penale, sent. n. 247 del 27 febbraio 2014).
Sulle premesse sopra brevemente riportate, la S.C. “annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati contestati, così come elencati nell’epigrafe della sentenza di primo grado, perché il fatto non sussiste”.
Nelle more dello svolgimento del processo penale,  la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Calabria, su specifica citazione della Procura Regionale-Sede,  vocava in giudizio  A. B.  e  C. D., proponendo nei loro confronti e in quelli di altre soggetti ritenuti corresponsabili e giudicati separatamente, domanda risarcitoria per avere essi gestito una consistente parte di risorse pubbliche in modo irregolare in danno, quindi, dell’Ente pubblico.
All’esito dell’istruttoria contabile, la Corte dichiarava fondata la citazione della Procura e, quindi, meritevole di accoglimento, per cui A.B. e C.D. venivano entrambi condannati al risarcimento dei danni, alla restituzione delle somme nell’entità sopra dichiarata, nonché alle spese del giudizio.
E’ opportuno precisare come nella fase preliminare dell’istruzione del procedimento, la Corte contabile, nella vigenza della disciplina rituale che lo prevedeva, avesse sospeso il procedimento, avendo ritenuto (e questa rappresenta l’unica decisione processualmente corretta intrapresa dal giudice contabile), che la simultanea pendenza nei confronti di A.B. e C.D. del procedimento penale che li riguardava in merito ai medesimi fatti contestati sia dal giudice penale che da quello contabile, costituisse motivo di  pregiudizialità, rispetto a quello contabile: da qui la decisione, sua sponte, di sospensione dell’iter procedurale contabile. A distanza di pochissimo tempo, mutata la norma,  e mentre il procedimento penale era ancora in corso, il giudice contabile, melius re perpensa, ma sarebbe il caso di dire peius, revocava l’ordinanza di sospensione e proseguiva nell’istruttoria.
Avverso tale sentenza di condanna, le parti proponevano appello dinanzi la Corte dei Conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale, la quale, a distanza di qualche mese dalla ricezione del gravame, emetteva, in data 14 settembre 2012, sentenza tramite la quale rigettava l’appello, condannando gli appellanti alle ulteriori spese del giudizio.
Il giudice contabile di seconda istanza chiude il procedimento dinanzi a sé in data 14 settembre 2012, ossia circa un anno e mezzo prima di quello penale che si chiude in data 27 febbraio 2014 con la sentenza della Cassazione.
 La sentenza contabile definitiva condanna i convenuti al risarcimento dei danni tramite la restituzione di ingenti somme, mentre  il giudice penale, afferma che i predetti non abbiano commesso i fatti contestati tanto che li assolve con formula piena e terminativa perché il fatto non sussiste.
 Invero, è opportuno rilevare come i fatti addebitati dal giudice contabile siano speculari,  e coincidenti con i fatti contestati nel giudizio penale, anzi, a volere essere più precisi, il procedimento contabile è sortito in tempi successivi all’insorgenza di quello penale sulla scia degli accertamenti effettuati da quest’ultimo.
Di tale conclamata specularità si ha evidente traccia nella sentenza emessa dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale, cogliendo l’occasione, rileva come l’unico aspetto che avrebbe potuto interessare il giudice contabile nel procedere, simultaneamente e contemporaneamente, in un giudizio autonomo da radicare entro il confine della sua competenza (ossia la violazione di una norma di contabilità pubblica), appare in tutta la sua illegittimità, in quanto la contestazione effettuata nei confronti di A.B. e C.D. è la seguente:  chiara violazione delle disposizioni regolanti la gestione delle spese pubbliche, omettendo del tutto e, si osa dire,  deliberatamente, quali siano tali norme facenti parte del diritto contabile positivo vigente, non solo sottraendo, in tale maniera, agli interessati quella potestas defendendi, garantita dalla Carta Costituzionale (il rilievo è della Cassazione), quanto incorrendo in una nullità assoluta e insanabile, a motivo che nel nostro ordinamento giuridico non possono avere diritto di cittadinanza, come, invece, avviene ne I promessi sposi, norme ritenute Innominate o Innominabili.
A parte le considerazioni che precedono, il problema di fondo resta, in ogni caso, e si fonda sulla domanda che viene spontaneo porsi: quale delle due sentenze, entrambe definitive (una di assoluzione della Suprema Corte di Cassazione e l’altra di condanna della Corte dei Conti)  debba essere eseguita, considerato che esse si elidono a vicenda e che le contestazioni e gli addebiti mossi sono assolutamente gemellari tanto da sembrare fotocopiati?
Quid juris?
La risposta data dal Tribunale di Lamezia Terme  in composizione collegiale tramite l’ordinanza sopra richiamata, fuga ogni dubbio sulla strada da prendere in presenza del diverticulum giuridico sopra prospettato. 

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2. L’iter processuale di merito sulle sentenze definitive in contrasto


Prima di entrare in argomento, è opportuno precisare che, in questo momento processuale, nella trincea difensiva di A.B. e C.D. si apposta un altro soggetto, E. F., nella qualità di sindaco del comune di XX,  il quale, in tutte le  fasi processuali trattate nella premessa, era stato difeso da altro avvocato e aveva conseguito il medesimo risultato: condannato nelle fasi di merito e assolto in quella di legittimità.
 Posta la superiore ricostruzione processuale, l’Ente territoriale ritiene, comunque, di porre in executivis la sentenza di condanna emessa dalla Corte dei Conti, seguendo la procedura di rito, con notifica del precetto, che veniva ritualmente opposto, prima ancora che si desse impulso alla procedura esecutiva, dagli amministratori assolti.
L’opposizione si fonda in principalmente su un motivo che può definirsi epicentrico e che verrà enunciato a conclusione dell’esame che va condotto.
Dopo avere evidenziato, ancora una volta,  trattandosi di circostanza determinante, che gli addebiti effettuati dal giudice contabile e le contestazioni effettuate da quello penale, hanno identicità fattuale assoluta, essendosi la Corte dei Conti avvalsa delle indagini condotte in primo grado dal giudice penale del Tribunale di Lamezia Terme, appare di tutta evidenza come il giudice contabile non avesse la potestà di dare corso ad una propria indagine se non entro i limiti marginali di una competenza specifica per fatti non rientranti nella competenza penale del Tribunale di Lamezia Terme, cosa che nel caso in rassegna non si è verificato. In ogni caso avrebbe dovuto attendere il risultato definitivo del procedimento penale.
La prosecuzione contestuale dei giudizi, nelle due sedi giurisdizionali di competenza, ha determinato la violazione di un principio basilare e sacrosanto del nostro ordinamento giuridico, dando, così, vita ad un odioso bis in idem.
Tuttavia, la domanda posta prima (quid juris?) resta ancora senza una risposta.
La risposta, definita prima epicentrica, è stata rinvenuta in due arresti giurisprudenziali della Suprema Corte delle Regole (Cass., Sez. II, sentenza n. 20863 del 29 settembre 2009 e ordinanza n. 28506 dell’ 8 novembre 2018 che si è pronunciata in tema  di conflitto tra giudicati (civile e penale).
La Suprema Corte ha statuito che la prevenzione del rischio di un contrasto tra giudicati è affidata al divieto di contemporaneo esercizio dell’azione civile sia in sede civile che in sede penale. Se il danneggiato si costituisce parte civile dopo aver convenuto il danneggiante innanzi al giudice civile, tale iniziativa comporta l’automatica rinuncia agli atti del processo civile. Se, viceversa, egli promuove l’azione civile dopo essersi costituito parte civile innanzi al giudice penale, il giudizio civile è sospeso ope legis fino alla definitività della pronuncia in sede penale. In breve,  l’azione civile può essere iniziata in una delle due sedi e, entro certi limiti, trasferita nell’altra, ma il danneggiato non può contemporaneamente esercitare l’azione civile in sede civile e penale. Nondimeno, può accadere che il giudice penale non rilevi una causa di esclusione della parte civile o che il giudice civile non si avveda che l’azione proposta davanti a lui deve considerarsi rinunciata, in quanto trasferita in sede penale, oppure deve essere sospesa. In tal modo potrebbe pervenirsi ad una decisione nel merito in entrambe le sedi. In questa circostanza l’eventuale contrasto dei giudicati riguarda le pronunce sulle questioni civili, non il sottostante accertamento fattuale. La soluzione del contrasto, dunque, non trova soluzione nelle previsioni del codice di procedura penale, bensì nel richiamato principio giurisprudenziale secondo cui deve prevalere la sentenza emanata per ultima (Cass. Ordinanza 8 novembre 2018, n. 28506). Applicando il superiore principio giuridico di carattere generale, nell’ambito di interesse, se ne ricava che il giudicato nel merito penale,  in quanto successivo a quello contabile, prevale su quest’ultimo. 
Questa la tesi sostenuta dalla difesa in sede di reclamo ed accolta dal collegio civile, quale giudice del reclamo, del Tribunale di Lamezia Terme.
Ove sulla medesima questione si siano formati due giudicati contrastanti, al fine di stabilire quale dei due debba prevalere occorre fare riferimento al criterio temporale, nel senso che il secondo giudicato prevale in ogni caso sul primo purchè la seconda sentenza contraria ad altra precedente non sia stata sottoposta a revocazione, impugnazione peraltro ammessa esclusivamente ove la decisione oggetto della stessa non  abbia pronunciato sulla relativa eccezione di giudicato (Cass. Ordinanza, 5821 del 3 marzo 2020).  A volere diversamente argomentare dovremmo giungere alla conclusione per la quale si potrebbe legittimare una violazione del ne bis in idem di natura sostanziale.
Nel caso in rassegna è possibile individuare le seguenti connotazioni:
a)Le due contestazioni, contabile e penale, sono assolutamente speculari, avendo il giudice contabile attinto dall’attività istruttoria del giudice penale di prima istanza, nel senso che la contestazione contabile contiene l’addebito contabile in una con quello penale costituito, in prime cure, dal peculato, così come la contestazione penale contiene, complessivamente,  il peculato, l’abuso d’ufficio e la violazione di norme contabili;
b)La sentenza definitiva, passata in autorità di cosa giudicata formale e sostanziale, dopo la conferma effettuata dalla Corte dei Conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale, è stata emessa nella data del 14 settembre 2012, mentre quella del giudice penale (Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale), passata in autorità di giudicato formale e sostanziale, è stata emessa nella data del 27 febbraio 2014;
c)E’, infine, appena il caso di evidenziare come non si verifichino le ipotesi di esclusione previste nelle due massime sopra riportate, ossia ”purché la seconda sentenza contraria ad altra precedente non sia stata sottoposta a revocazione“.
Tuttavia, malgrado tale incontrastabile evidenza, il Tribunale di Lamezia Terme, giudice dell’opposizione a precetto (opposizione pre-esecutiva), al quale la difesa di A.B., C.D. e E.F. ha chiesto, in via preliminare e prodromica, la sospensione del titolo esecutivo, ha rigettato l’istanza cautelare, la quale, per questo, è stata riproposta, in sede di reclamo, al Collegio di quel Tribunale (Dott. Giovanni GAROFALO, Presidente; Dott. Salvatore REGASTO, Giudice relatore/estensore;Dott.ssa Maria Concetta PEZZIMENTI, Giudice),dopo avere anatomizzato la natura giuridica del reclamo con riferimento alla sua natura e al suo esito (accoglimento o rigetto), preannunciava la fondatezza dell’ interposta  impugnativa, affermando che il provvedimento di rigetto del giudice monocratico non poteva essere condiviso dal Collegio e aggiungeva, in particolare, quanto segue:
“Nel caso de quo, il dedotto contrasto di giudicati è emerso successivamente alla emanazione della sentenza di appello n. 482/2012 della Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Centrale, che ha confermato quella di primo grado (le decisioni di assoluzione della Cassazione Penale risalgono, infatti al 2014 e al 2015), sicché si tratta di un fatto (in tesi) estintivo della pretesa creditoria successivo alla formazione del titolo azionato rispetto al quale, peraltro, non poteva essere fatto valere il rimedio impugnativo della revocazione ex art. 202 del Codice di Giustizia Contabile (d.lgs. n. 174 del 26 agosto 2016) non rientrando la fattispecie tra le ipotesi descritte nella appena citata disposizione…Purtuttavia, nel caso di specie, appare evidente l’esistenza di un contrasto di giudicati tra la sentenza della Corte dei Conti che ha condannato gli odierni reclamanti al risarcimento dei danni a favore del comune di XX, in sostanza per distrazione e appropriazioni di somme dalle casse comunali, e le successive decisioni della Suprema Corte Penale che hanno invece escluso le condotte appropriative e distruttive contestate e la perdita della disponibilità delle somme da parte dell’ente comunale, assolvendo tutti gli imputati con la formula  <perché il fatto non sussiste>con la conseguente caducazione delle statuizioni di carattere civilistico…
La Corte di Cassazione con la sentenza ha assolto gli imputati-reclamanti con formula piena, escludendo sia l’esistenza di indebiti vantaggi patrimoniali degli imputati, sia l’esistenza di svantaggi patrimoniali per l’ente comunale, che non ha mai perso la disponibilità dei fondi in oggetto, con conseguente annullamento di ogni statuizione civile emessa nei precedenti gradi di giudizio…mentre risulta evidente come il danno da risarcire sia stato determinato dal giudice contabile sul presupposto del compimento di fatti materiali appropriativi e distrattivi da parte degli odierni reclamanti e sulla base di accertamenti peritali che hanno ricostruito gli ammanchi delle somme dalle casse comunali, fatti però che sono stati esclusi dal Giudice Penale”.
Il Collegio, inoltre, in seno al provvedimento, del quale sono stati escerpiti gli incisi che precedono, ha osservato come “non sussista neppure l’abuso d’ufficio individuato dalla Corte d’Appello di Catanzaro riqualificando i fatti e i reati, dal momento che la Cassazione ha escluso la sussistenza del fatto in sé in quanto non risultavano essere state individuate le norme di contabilità violate (indicate dalla Corte d’Appello catanzarese in maniera del tutto generica secondo i Supremi Giudici)”.
Aggiunge, ancora, il Giudice collegiale del reclamo, un ulteriore rilievo di seguito riportato,il quale appare in tutta la sua forza dirimente di ogni ed eventuale obiezione:
Se la responsabilità è stata precedentemente accertata e riconosciuta  con decisione definitiva contrastante (come in effetti è accaduto nel caso in disamina), la coerenza del sistema, non può che essere garantita attraverso la prevalenza del successivo accertamento in sede penale dell’insussistenza del fatto illecito che, oltre ad essere diretta conseguenza del <criterio temporale> cui poc’anzi si è fatto riferimento, può affondare, a fortiori, le sue basi anche nella stessa <ratio> che pervade l’art. 652 cod. proc. pen., disposizione in forza alla quale il giudicato pienamente assolutorio penale fa stato anche nel giudizio amministrativo qualora lo stesso sia ancora pendente al momento della pronuncia penale”.
Da quanto precede si ricava, de plano et de jure, che, se il giudizio contabile si è concluso e la relativa sentenza sia passata in autorità di cosa giudicata, i suoi effetti, contrastanti con la sentenza penale, anch’essa definitiva, vengono annichiliti e resi inapplicabili. E’, quindi, una sentenza, quella contabile, da ritenersi tamquam non esset.
Prosegue, e conclude,  il Collegio del reclamo:
“A pensarla diversamente si correrebbe il rischio, nella specie, di un corto circuito logico prima ancora che giuridico, se si riconoscesse il diritto ad agire esecutivamente all’ente pubblico per recuperare delle somme che una successiva decisione definitiva del Giudice Penale ha escluso fossero mai uscite dalla disponibilità dell’ente medesimo o distratte”.
In virtù di quanto espresso in precedenza, il Tribunale di Lamezia Terme ha accolto il reclamo sospendendo l’efficacia esecutiva della sentenza del giudice contabile.

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Cristina Manfredi Gigliotti

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