Svolgimento del processo
Con sentenza n.1067 del 2007 il Tribunale di Trento revocava il decreto ingiuntivo n. 597/2000 non opposto nei termini, emesso ad istanza dell’avv. E.F. nei confronti di G.S. per il pagamento di L. 18.382,407, a titolo di compensi professionali. Il Tribunale ravvisava la dedotta ipotesi di dolo processuale ai sensi del n. 1 dell’art. 395 cod. proc. civ. per essere alcuni corrispettivi, riconosciuti nel suddetto decreto, relativi alla redazione di un atto di appello, inoltrato in bozza al cliente dopo la scadenza del termine di impugnazione; non accoglieva, invece, la domanda accessoria di risarcimento dei danni; compensava le spese processuali.
La decisione, gravata da impugnazione dell’avv. F. in via principale e di S..G. in via incidentale, era riformata dalla Corte di appello di Trento, la quale con sentenza in data 13.11.2009, accoglieva l’appello principale, assorbito quello incidentale, rigettando la domanda di revocazione; compensava per la metà le spese processuali, ponendo l’altra metà a carico del G. .
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione G.S. , svolgendo due motivi.
Ha resistito l’avv. F. , depositando controricorso e svolgendo, a sua volta, ricorso incidentale condizionato.
Parte resistente ha altresì depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente si da atto della riunione del ricorso principale e incidentale avverso la medesima sentenza, giusta il disposto dell’art. 335 cod. proc. civ..
L’esame deve muovere dal ricorso principale, atteso che quello incidentale è formalmente subordinato all’accoglimento, anche parziale, dell’impugnazione dell’altra parte.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 395 n. 1 cod. proc. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia recepito l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale per aversi dolo processuale revocatorio è indispensabile verificare la lesione del diritto di difesa della parte lesa, nonché l’effetto di siffatto comportamento sulla decisione giudiziale; il tutto valutato in relazione alle circostanze del caso concreto.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n.5 cod. proc. civ.), nonché violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2702, 2730 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.). Il ricorrente formula plurime censure nei confronti del Giudice di appello e segnatamente: di non aver tenuto conto delle circostanze documentali da cui risultava che con il ricorso monitorio erano richieste anche le competenze per l’atto di appello intempestivo; di non aver rilevato elementi presuntivi in ordine al dolo revocatorio del professionista, segnatamente nella lettera datata 09.08.1999 inviata allorché il termine per l’appello era ormai scaduto e costituente “un evidente tentativo di precostituire nei confronti del cliente una difesa idonea a nascondere la verità”; di non avere preso in considerazione la confessione giudiziale dell’avv. F. , il quale avrebbe ammesso di essere stato a conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza; di non avere, infine, esaminato due testimonianze, provenienti dallo stesso avversario, da cui si evincerebbero elementi di conferma dell’esistenza del dolo revocatorio.
2. I motivi – che, per la loro evidente connessione fattuale, logica e giuridica, si prestano ad un esame congiunto – sono infondati, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dell’art. 395 cod. proc. civ. in relazione alla fattispecie concreta, siccome ricostruita con valutazioni congrue e logiche.
Si osserva, innanzitutto, in conformità a costante giurisprudenza (S.U. n. 9213/1990, e, fra le molte, Cass. nn. 888/2001, 5068/1995, 7576/1994, 4833/1991, 1128/1987), che il dolo processuale di una delle parti in danno dell’altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell’art. 395, n. 1, cod. proc. civ., in quanto consista in un’attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria e impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale. Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall’ordinamento al fine di pervenire all’accertamento della verità (Cass. 19 settembre 2008, n. 23866; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3488).
Per integrare la fattispecie del dolo processuale revocatorio ai sensi dell’art. 395 cod. proc. civ., n. 1, non è, dunque, sufficiente la sola violazione dell’obbligo di lealtà e probità previsto dall’art. 88 cod. proc. civ., né, in linea di massima, sono di per sé sufficienti il mendacio, le false allegazioni o le reticenze, ma si richiede un’attività intenzionalmente fraudolenta che si concretizzi in artifici o raggiri subiettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e a impedire al giudice l’accertamento della verità. (Cass. 26 gennaio 2004, n. 1369). In particolare se è vero che, secondo un orientamento peraltro risalente nel tempo (cfr. Cass., S.U., n. 9213 del 1990), anche il silenzio su fatti decisivi può integrare gli estremi del dolo processuale revocatorio, è pur vero che ciò può avvenire soltanto a condizione che esso costituisca elemento essenziale di un’attività diretta a trarre in inganno la controparte e idonea, in relazione alle circostanze, a sviarne o pregiudicarne la difesa e a impedire al giudice l’accertamento della verità. Ne consegue che il silenzio può configurare dolo revocatorio della sentenza, ai sensi del comma 1, n. 1, dell’art. 395 cod. proc. civ., solo se rappresenti elemento di una macchinazione fraudolenta, che abbia concretamente inciso sul contraddittorio e sul diritto di difesa o, comunque, sull’accertamento della verità (Cass. 29 gennaio 2002, n. 1155).
2.1. Nulla di tutto ciò risulta essersi verificato nel caso di esame, in cui il comportamento incriminato si è concretato nell’omettere al giudice del monitorio che alcuni compensi richiesti con il ricorso per ingiunzione (disamina, redazione e carteggio) si riferivano ad un atto di appello per il quale era già scaduto il termine per la sua proposizione. A tal riguardo la Corte di appello ha escluso che sia stata acquisita la dimostrazione che “l’avv. F. abbia agito in perfetta mala fede con la piena consapevolezza di danneggiare volutamente e coscientemente il cliente al fine di lucrare somme non dovute” (e precisamente per la fase di appello, la somma corrispondente ad attuali Euro 820,13), sottolineando che, a tali effetti, non era sufficiente dimostrare che il difensore avesse ottenuto un compenso non dovuto – come semplicisticamente ritenuto dal primo giudice – ma occorreva la prova, incombente sulla parte istante in revocazione, che tale risultato fosse il frutto di un’attività coscientemente e volutamente diretta ad ingannare.
In base a tale corretto approccio ermeneutico, nel quale sono nettamente distinti la prova dell’errore in cui era incorso l’avvocato (per non avere correttamente valutato i tempi occorrenti per la presentazione dell’appello ovvero per avere dimenticato la data di scadenza dell’impugnazione o anche per avere calcolato erroneamente il termine di impugnazione) dalla prova del dolo (intesa come comportamento fraudolento diretto a provocare l’errore del giudice del monitorio e della controparte in ordine alla spettanza delle competenze professionali, nel senso, evidentemente di dissuadere quest’ultima dal proporre tempestiva opposizione), la Corte di appello ha, in particolare, evidenziato come la lettera in data 09.08.1999 (con cui l’avv. F. inviava al cliente la bozza dell’atto di appello di cui si controverte a termine ormai scaduto) -lungi dal prefigurarsi come strumento della macchinazione del professionista a danno del cliente – era più agevolmente ascrivibile all’errore di cui si è detto; tanto più che l’atto di appello, per essere stato allegato alla stessa lettera, doveva essere stato predisposto in precedenza.
2.2. Gli argomenti di segno contrario di parte convenuta – secondo cui, al momento dell’invio della suddetta lettera, l’avv. F. era perfettamente consapevole dell’errore in cui era incorso, tanto da avere “confessato” in sede di interrogatorio formale di non avere notificato l’atto perché si era accorto che i termini per l’appello erano già scaduti al momento del conferimento dell’incarico – prima ancora che rivelarsi meramente alternativi rispetto alle diverse valutazioni della Corte territoriale, eludono il nucleo centrale della decisione impugnata, sovrapponendo ed equivocando la prova dell’errore in cui è incorso il legale circa la scadenza del termine di proponibilità dell’appello (questione, questa, da prospettarsi in sede di opposizione all’ingiunzione, come ragione di responsabilità del professionista) con la prova del dolo, la quale avrebbe richiesto la dimostrazione che le attività di cui si è detto (la redazione della bozza, la lettera al cliente ecc.) si inserissero in un disegno fraudolento diretto a impedire al giudice l’accertamento della verità e a sviare la difesa della controparte inducendola a non proporre opposizione; il che è stato escluso dai giudici di appello con una motivazione sufficiente, coerente e rispettosa della normativa interessata, interpretata in coerenza con il consolidato orientamento di questa S.C. come sopra richiamato.
In definitiva i suddetti motivi, così come articolati, pur lamentando formalmente un difetto di motivazione e violazione di legge, sono ben lungi dal prospettare un vizio della sentenza gravata, rilevante sotto il profilo di cui ai nn.3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. e mirano, anche attraverso la surrettizia deduzione del malgoverno delle norme in tema di interpretazione delle prove, a sollecitare null’altro che una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite nell’impugnata sentenza.
Il ricorso va, dunque, rigettato, risultando, di conseguenza, assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale condizionato; condanna il ricorrente principale al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 4.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre accessori come per legge.