- Separati ma conviventi
- Cosa prevede la legge –l’intollerabilità della convivenza
- Prassi giurisprudenziali
- La pronuncia della cassazione
- Conclusioni
1. Separati ma conviventi
Moglie e marito possono separarsi e, nello stesso tempo, decidere di vivere nella stessa casa (magari in camere diverse) senza un termine massimo? In molti lo fanno e, a dir il vero, ciò nasconde spesso operazioni elusive. È il caso di chi finge la separazione, con cessione dei beni immobili al coniuge, per evitare il pignoramento da parte dei creditori. Ma c’è anche chi “sposa” questa scelta perché vuol garantire ai figli la possibilità di continuare a vivere sia con la madre che con il padre. Non tutti i giudici però credono a questo intento altruistico ed ecco che, per qualcuno, un accordo del genere è nullo e non può essere ratificato.
2. Cosa prevede la legge – l’intollerabilità della convivenza
Separarsi e poi continuare a coabitare sotto lo stesso tetto, sebbene in camere separate, non è ammesso dalla nostra legge. Il diritto di famiglia non ammette situazioni “ibride”: se ci si separa, ci si deve separare anche fisicamente. Risultato si può vivere da separati nella stessa casa a condizione che sia solo per un lasso di tempo breve, magari solo per consentire all’ex di trovare una sistemazione o le risorse necessarie per pagare un affitto. È vero che, durante il matrimonio, ben possono i coniugi derogare al dovere di coabitazione quando esigenze familiari di carattere superiore lo impongono (ad esempio, per ragioni di lavoro, studio, ecc.), ma ciò non autorizza a ritenere il contrario, cioè ad affermare la validità di un accordo di separazione volto a preservare e legittimare la semplice coabitazione una volta che sia cessata la comunione tra le parti.
La separazione non è un atto che può contenere qualsiasi tipo di accordo tra le parti
La separazione si giustifica proprio perché la convivenza è divenuta intollerabile; per cui non si vede come possa coesistere una situazione di «convivenza intollerabile» con una di «coabitazione». Al limite la coabitazione può essere consentita solo per un periodo di tempo limitato, ma giammai a tempo indeterminato. Questo non toglie che i coniugi non possano vivere da separati nella stessa casa, in camere distinte. Ma si tratterà di una «separazione di fatto», cioè non ratificata dal giudice. Ed è anche consentito avere due stati di famiglia nella stessa abitazione. Tuttavia quando la moglie e marito intendano poi formalizzare a tutti gli effetti la separazione, per poi procedere magari al divorzio (non prima di sei mesi), dovranno andare a vivere sotto tetti diversi.
È vero che oggi è difficile permettersi di prendere una casa in affitto e continuare a vivere in modo dignitoso da separati. Ed è anche vero che l’interesse del figlio prevale su quello dei genitori, tant’è che molti tribunali stanno adottando il sistema dell’affidamento alternato (i genitori si alternano a vivere nella stessa cosa, ove dimora stabilmente il figlio). È infine vero che ciascuno è libero di fare ciò che vuole all’interno della propria casa, sia anche ospitare il proprio ex coniuge a tempo indeterminato. Ma una situazione del genere non può essere formalizzata nell’accordo di separazione (può al limite trovare spazio in accordi verbali o contrattuali tra le parti, fuori però dal tribunale). Diversamente, si finirebbe per omologare accordi simulatori oppure operazioni elusive, anche a fini illeciti.
Questo significa che con la separazione si sospendono gli effetti del matrimonio, ma non vengono estinti. La separazione è pertanto una situazione reversibile, ciò significa che in qualsiasi momento è possibile tornare indietro. Del resto è proprio con questo scopo, ovvero garantire un congruo periodo di riflessione alla coppia, che è nata.
Ecco perché continuare a vivere sotto lo stesso tetto espone a un rischio. Se ad un dato momento uno dei due coniugi decidesse di chiedere il divorzio, l’altro, se non è d’accordo, potrebbe sostenere che sono decadute le condizioni che rendevano sensata una separazione e che si è invece aperta la strada per la riconciliazione. A questo punto può diventare spinoso tentare di dimostrare il contrario. Se ciò dovesse accadere quello dei coniugi che non volesse rimanere sposato dovrà riavviare tutta la procedura per la separazione da capo con conseguente dispendio di tempo e denaro e senza contare la ricaduta emotiva.
E dall’altro canto uno dei presupposti per la pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio, ex artt. 3 della L.898/70 è la non interruzione della separazione (per almeno tre anni dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale) da intendersi quale non avvenuta ricostituzione del consorzio coniugale in relazione all’intero complesso dei rapporti costituenti il vincolo matrimoniale nella sua giuridica configurabilità (Cass. n. 4056/97), pertanto appare necessario, ai fini della sentenza di divorzio, che tra i coniugi non vi sia stato il mantenimento o il ripristino né della comunione c.d. spirituale (come animus di riservare al coniuge la posizione di compagno esclusivo di vita) né della comunione materiale (intesa come convivenza basata su una comune organizzazione della intera vita domestica) ed il relativo accertamento costituisce un potere-dovere del giudice di merito sindacabile in sede di legittimità solo per difetto di motivazione.
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3. Prassi giurisprudenziali
Appare orientata in tal senso la maggior parte della giurisprudenza sul punto. In tale direzione l’ordinanza del Tribunale di Como del 06.06.2017 ove si legge:
“….fermo restando che sul piano personale le parti hanno facoltà di comportarsi e autodeterminarsi come meglio credono, la loro volontà, anche nella sfera personale e familiare, non può però scegliere la forma da dare al proprio stile di vita al punto di piegare gli istituti giuridici sino a dare riconoscimento e tutela a situazioni le quali non solo non sono previste dallo ordinamento ma si pongono altresì in contrasto con i principi che ispirano la normativa in materia familiare;
in altre parole, l’ordinamento non può dare riconoscimento, con le relative conseguenze di legge, a soluzioni “ibride” che contemplino il venir meno tra i coniugi di gran parte dei doveri derivanti dal matrimonio, pur nella persistenza della coabitazione, la quale ex art. 143 cc costituisce anch’essa uno di questi doveri e rappresenta la “cornice” in cui si inseriscono i vari aspetti e modi di essere della vita coniugale; è vero che in costanza di matrimonio tale dovere può essere derogato, per accordo tra i coniugi, nel superiore interesse della famiglia, per ragioni di lavoro, studio ecc.. sì da non escludere la comunione di vita interpersonale (cfr. Cass. 19439/11, 17537/03), ma ciò non autorizza a ritenere il contrario, cioè ad affermare la validità di un accordo (con le conseguenze di legge della separazione) volto a preservare e legittimare la mera coabitazione una volta che sia cessata la comunione materiale e spirituale tra le parti; più in generale devesi rilevare che lo istituto della separazione trova giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fattore tipicamente individuale, riferibile alla personale sensibilità e formazione culturale dei coniugi, purchè però oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile (cfr. Cass. 8713/15, 1164/14), talchè non si vede nel caso di specie come possa “oggettivamente” apprezzarsi la condizione di intollerabilità della convivenza laddove gli stessi coniugi progettino di prorogarla a tempo indeterminato per ragioni di convenienze varie, atteso il contrasto con il dato di realtà reso evidente dalla persistente, collaudata e “tollerata” convivenza; in pratica essi chiedono che il giudice li dichiari separati perché soggettivamente si ritengono tali, ovvero non provano più reciprocamente sentimento né attrazione fisica, e desiderano proseguire una convivenza meramente formale, ma a tale desiderio (pur legittimo sul piano personale ed attuabile nella sfera privata), non corrisponde alcun “tipo” di strumento e/o istituto nello attuale ordinamento, ergo il desiderio non può assurgere a diritto; non può quindi trovare accoglimento la pretesa di attribuire, con il provvedimento di omologa, riconoscimento giuridico, con i conseguenti effetti tipici della separazione coniugale (scioglimento della comunione dei beni, decorrenza del termine per lo scioglimento del vincolo ecc..), ad un accordo privatistico che regolamenti la condizione di “separati in casa” …..”
4. La pronuncia della cassazione
Sono numerose le sentenze in cui il giudice ha autorizzato temporaneamente i coniugi separati a vivere sotto lo stesso tetto (ossia senza che uno dei due coniugi spostasse la sua residenza altrove). Ad esempio, i coniugi sono autorizzati a vivere sotto lo stesso tetto, fino al momento della vendita dell’abitazione familiare intestata al 50% ad entrambi.
I coniugi sono autorizzati a vivere sotto lo stesso tetto, fino a quando ad esempio, il marito cassaintegrato non troverà un lavoro che gli permetta di prendere autonomamente casa in locazione.
Si tratta di situazioni temporanee ed eccezionali.
Del resto la Corte di Cassazione, con la rivoluzionaria sentenza n. 3323 del 2000 con cui la I Sez. Civile della Suprema Corte ha stabilito che i coniugi “separati in casa” possano ottenere la sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio (divorzio), pur avendo continuato a vivere sotto lo stesso tetto, durante la separazione legale, in quanto ciò che è rilevante è che non ci sia stata la riconciliazione intesa come “comunione spirituale”, ossia la volontà di “riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita”. Si trattava di una “separazione in casa”, in quanto i coniugi, pur continuando a vivere nella stessa casa, provvedevano autonomamente alle rispettive necessità, dividendo la casa coniugale in due ambienti distinti, consumando i pasti separatamente, dormendo in camere separate, disinteressandosi della vita dell’altro coniuge.
A fronte di una situazione di evidente “separazione in casa” fortemente caratterizzata dall’animus dereliquendi e da una vita familiare improntata al distacco fisico e spirituale tra coniugi (a nulla rilevando in proposito la coabitazione o l’erogazione di somme di denaro) si afferma come perdurante e non interrotta la normale convivenza.
Secondo la Corte il divorzio dovrebbe essere pronunciato sulla base “….della oggettiva mancanza di comunione tra i coniugi all’attualità ed indipendentemente dall’eventuale deterioramento in precedenza del legame coniugale (che comunque è elemento di ulteriore conforto alla tesi dello scioglimento) sia, nel non rendersi conto che, come sovente avviene nei rapporti matrimoniali, all’originario accordo i coniugi hanno sostituito un nuovo e diverso patto di convivenza con elementi del tutto atipici (separazione sotto lo stesso tetto, mancanza di rapporti sessuali, il sostentamento a carico di uno solo dei consorti) rispetto al matrimonio quale giuridicamente e religiosamente previsto……”
5. Conclusioni
Premesso quindi che, in presenza di figli e di fronte a possibili ristrettezze economiche, la coabitazione possa apparire “il minore dei mali”, la legge non contempla concettualmente la coesistenza di una separazione legale e al tempo stesso della residenza nella stessa abitazione.
Sebbene il giudice possa omologare una separazione che preveda la coesistenza dei due coniugi sotto lo stesso tetto coniugale, sarebbe comunque consigliabile spostare la residenza altrove, laddove il giudice non fosse d’accordo con la proposta di una “separazione in casa” dei coniugi per esempio nell’interesse dei figli minorenni.
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Note
- Diritto net: coniugi separati con la stessa residenza: è possibile? – Diego Carmenati 08.01.2022;
- Separati ma conviventi – La Legge per tutti – 06.07.2017;
- Isee separati, stessa residenza – La legge per tutti 22.10.2019;
- Coniuge separato riprende la residenza presso la casa coniugale – 25.01.19. www.indebitati.it
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