Separazione dei coniugi: non basta provare la “sindrome da madre malevola”

Daniela Sodo 22/06/21
 

(accoglimento)

(Riferimento normativo: artt. 155, 315 bis, 337 ter, quater, quinquies e octies c.c.)

La vicenda

Nel corso di un procedimento di separazione tra coniugi, la Corte di Appello, investita del reclamo avverso un provvedimento dei Giudici di primo grado di declaratoria delle condizioni di affidamento della figlia minore da parte del padre, sulla base delle risultanze della espletata c.t.u. disponeva l’affidamento “super-esclusivo” della stessa minore al padre rilevando un elevato grado di conflittualità della coppia di genitori – con difficoltà comunicative tra loro – in una ad una grave carenza delle capacità genitoriali della madre ed in particolare una scarsa flessibilità di quest’ultima ad accettare il ripristino delle relazioni tra padre e figlia, volendo piuttosto mantenere la figlia con sé con esclusione dell’altro genitore, nonché un atteggiamento volto a rappresentare versioni non veritiere dei fatti ed a non a modificare le proprie convinzioni, il tutto aggravato da un’influenza della famiglia materna sulla madre con prospettive dannose e rischiose per la bambina.

In particolare, la Corte territoriale, pur rilevando come la madre avesse mantenuto con la figlia, almeno in apparenza, un sufficiente rapporto di accudimento, evidenziava, sempre sulla base delle conclusioni peritali, un comportamento materno di alienazione della minore rispetto al padre ed una personalità contraddistinta dalla cd. “sindrome della madre malevola” o anche detta “MMS” che pertanto rendeva opportuno l’affidamento esclusivo della stessa minore al padre.

La decisione dei Giudici di appello veniva dunque impugnata dalla madre in Cassazione anzitutto per violazione e falsa applicazione degli artt. 155, 315 bis, 337 ter, quater, quinquies e octies c.c., artt. 62, 194, 709 ter c.p.c. per avere i Giudici di appello aderito acriticamente alle espletate c.t.u., e quindi alle diagnosi ed alle psico-patologie in queste indicate, sebbene non riscontrate, senza però sottoporre essa ricorrente ad un eventuale percorso di sostegno alla genitorialità che pure si sarebbe dovuto rendere necessario, nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 155, 333, 337ter, quater e octies c.c. con riferimento alla mancata verifica dell’attendibilità scientifica della teoria posta a base della diagnosi di “sindrome della madre malevola” e alla sua qualificazione come genitore “condizionante”, in quanto risultanze peritali non fondate su dati clinici e senza che la Corte territoriale avesse effettuato una valutazione comparativa degli effetti sulla minore del trauma dell’allontanamento dalla casa familiare rispetto al beneficio atteso, nel senso che il provvedimento impugnato non appariva ispirato al superiore interesse del minore in quanto il dolore della forzata separazione della minore dalla madre fosse rimasto sullo sfondo rispetto alla ritenuta prevalenza dell’interesse all’attuazione coattiva del diritto alla bigenitorialità.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte Suprema

La Corte di Cassazione, sul presupposto che “nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica (allo scopo di verificare le condizioni psico-fisiche del minore e conclusasi con un accertamento diagnostico di sindrome dell’alienazione parentale), il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale, non può, ove all’elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto – sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici – a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare (Cass., n. 7041/13)”, ha accolto il ricorso come proposto dalla madre ricorrente censurando in particolare la decisione dei Giudici di appello perché inidonea a garantire il migliore sviluppo della personalità della minore.

Le riflessioni conclusive e gli spunti critici di riflessione

La pregnanza giuridica di questa significativa ordinanza della Corte Suprema risiede certamente nell’attenta valutazione, da parte della Corte Suprema, del valore probatorio che assumono gli elaborati peritali che sempre più spesso vengono ad interessare i giudizi di separazione dei coniugi e che, come è noto, sono tendenti ad accertare, in un contesto così particolare come quello della crisi familiare, le dinamiche relazionali intercorrenti tra i coniugi-genitori, le competenze genitoriali della coppia e l’impatto che le stesse possano avere sulla situazione personale ed affettiva dei figli, soprattutto se minori, al fine di individuare la forma di affidamento più adatta ed idonea per loro.

Nel caso in commento questo strumento probatorio ed istruttorio, poi, assume ancora maggiore rilevanza poiché va a sostanziare tutta una serie di approfondimenti clinici e psicologici tendenti all’accertamento della c.d. “sindrome da alienazione parentale” ovvero, più specificatamente in quanto destinataria degli stessi unicamente la madre, della c.d. “sindrome da madre malevola”.

Ciò che traspare in ogni caso dalla lettura della pronuncia è certamente il riconoscimento esplicito del ruolo determinante, e talvolta decisivo, che questo mezzo istruttorio e tecnico riveste per dipanare le enormi difficoltà decisionali che siano rimesse ai Giudici nella gestione, processuale, della crisi familiare, espressione di un dovere professionale che si richiede venga espletato in maniera ancora più accorta e diligente rispetto a quello, ordinario e per certi versi scontato e naturale, che è insito già nel conferimento di un incarico di tal genere.

Non è del resto un caso che, proprio con riguardo alla tematica oggi trattata di una sindrome così particolare, vi siano stati addirittura dei casi di azioni risarcitorie promosse finanche nei confronti del consulente tecnico incaricato perché ritenuto negligente per avere diagnosticato “una malattia che non esiste”, a dimostrazione di come il problema circa la rilevanza scientifica e medica di questa sindrome sia quanto mai ancora aperto ed attuale (1)

La Corte di Cassazione, tuttavia, pur sollevando nella pronuncia in commento qualche dubbio e/o perplessità sulla consistenza scientifica di una diagnosi che non è sembrata convincente ( “una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale”), come detto non disconosce il prezioso contributo dei professionisti chiamati ad espletare questo incarico ma ne stigmatizza i presupposti, e soprattutto le conclusioni, per non essere riusciti gli stessi ad individuare esattamente l’obiettivo ultimo e prioritario della loro attività tecnica, e cioè quello di scandagliare sì la situazione familiare e coniugale, oltre che personale dei soggetti contendenti, ma al solo fine di fornire utili contributi per assicurare ai figli l’equilibrio e la serenità di cui necessitino.

In particolare, effettivamente non possono non colpire quei significativi passaggi nei quali la Corte Suprema efficacemente riporta alcuni dei fattori e delle circostanze che avevano indotto i c.t.u. a ritenere la madre – ricorrente non idonea alla sua funzione genitoriale perché affetta, a loro dire, della menzionata “sindrome da madre malevola” o anche “di alienazione parentale” (PAS) e come detto giudizio negativo fosse stato determinato persino dalla personalità conflittuale che la stessa avesse dimostrato verso essi professionisti.

Si tratta, invero, di dati di fatto che, sebbene presi in considerazione dai Giudici di legittimità come elementi volutamente ostativi, o quanto meno limitativi, della possibilità per il padre di intrattenere dei rapporti con la figlia, non sono stati tuttavia ritenuti sufficienti a far escludere la capacità della madre di intrattenere con la figlia “un sufficiente rapporto di accudimento” tale da consentire loro di superare, ai fini della decisione circa l’affidamento della minore, tutti i possibili dubbi che nei precedenti giudizi di merito pure erano stati sollevati in merito.

Il fondamentale principio di diritto, infatti, che la Corte Suprema ha sancito e posto a base della sua pronuncia è quello secondo il quale “in materia di affidamento dei figli minori, è stato affermato che il giudice deve attenersi al criterio fondamentale rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. L’individuazione di tale genitore deve essere fatta sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio, che potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché sull’apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in grado di offrire al minore “ ed è certamente un criterio che lascia pochi dubbi alle possibili differenti interpretazioni.

Vi è in questa precisazione, invero, la chiara intenzione degli Ermellini di stigmatizzare la posizione assunta dai Giudici di merito nel privilegiare l’affidamento esclusivo della minore al padre sulla base di detti, certamente incontestati e sia pure gravi, episodi di “alienazione parentale” da parte della madre, “senza però effettuare una valutazione più ampia, ed equilibrata, di valenza olistica che consideri cioè ogni possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della ricorrente, nell’ambito di un equilibrato rapporto con l’ex-partner, e che soprattutto valorizzi il positivo rapporto di accudimento intrattenuto con la minore”.

Il giudizio espresso dalla Corte, dunque, verso l’operato dei consulenti è quanto mai impietoso nei suoi contenuti laddove si legge che essi “hanno riscontrato una forte animosità della ricorrente nei loro confronti e una certa refrattarietà a seguire i suggerimenti e le prescrizioni da loro impartite in ordine al rapporto con la minore e con l’ex partner, è altresì vero che proprio tali limiti caratteriali della madre avrebbero dovuto essere affrontati e valutati nella prospettiva di un’offerta di opportunità diretta a migliorare i rapporti con la figlia, in un percorso scevro da pregiudizi originati da postulate e non accertate psicopatologie con crismi di scientificità. Dagli atti emerge, invece, che le asprezze caratteriali della ricorrente sono state valutate in senso fortemente stigmatizzante, come espressione di un’ineluttabile ed irrecuperabile incapacità di esprimere le capacità genitoriali nei confronti della figlia, pur in mancanza di condotte di oggettiva trascuratezza o incuria verso quest’ultima, anche minime, o anche di mancata comprensione del difficile ruolo della madre. Al contrario, proprio il riferimento della Corte veneziana al buon rapporto di accudimento della minore da parte della ricorrente dimostra plasticamente il travisamento in cui lo stesso giudice d’appello è incorso nel ritenere che la B. fosse stata protagonista di un comportamento concretizzante l’invocata cd. PAS (dall’inglese: Parental Alienation Syndrome) desunto dalle predette condotte, attraverso, come esposto, un implausibile sillogismo la cui premessa principale è costituita da un ingiustificato severo stigma di comportamenti della madre fondato su un mero postulato”.

In queste parole, infatti, è espressa tutta la contrarietà manifestata dai Giudici di legittimità verso una metodologia psico-analitica e di conseguente natura processuale e probatoria incontestabilmente venuta meno all’imprescindibile obiettivo di tutelare prioritariamente l’interesse della minore.

La motivazione addotta dalla Corte in proposito è, peraltro, a nostro parere, assolutamente corretta e condivisibile poiché, nel riconoscere la propria estraneità rispetto a giudizi di merito circa la “fondatezza scientifica della suddetta PAS” e quindi rispetto alle conclusioni,  anche cliniche, cui possano pervenire i professionisti incaricati, allo stesso tempo evidenzia le lacune di un processo decisionale dei Giudici di merito che, appunto, concentrandosi eccessivamente su fatti e condotte attinenti i coniugi e gli stessi consulenti, ha totalmente perso di vista come l’escludere la madre dalla sfera della minore o comunque l’attenuarne i rapporti incida negativamente sullo sviluppo fisio-psichico della stessa minore oltretutto in un momento ed in un periodo della sua vita così delicati.

Dal punto di vista ermeneutico, del resto, non è mai stata un mistero l’oggettiva difficoltà, generata proprio dal contenuto del nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c, per le parti in causa di mettere in discussione, in sede di legittimità, gli elaborati peritali e dunque contestare anche le decisioni che, talvolta in maniera del tutto acritica e basata unicamente sul dictum peritale, i Giudici di merito abbiano adottato, né è stato del pari mai sottaciuto il fatto che soprattutto nell’esercizio dell’attività di consulenza psicologica in ambito forense vi siano delle linee-guida che indicano il corretto modus procedendi et operandi; si tratta, invero, di norme di soft law per lo svolgimento della consulenza psicologica secondo regole metodologicamente condivise e in ossequio alle best practices che, tra l’altro, sono state espressamente adottate e richiamate anche nella riforma della responsabilità sanitaria di cui alla Legge n. 24/2017, con la conseguenza che una eventuale loro violazione non possa non implicare un error in procedendo della CTU, sotto il profilo di una scorrettezza metodologica nell’accertamento del fatto scientifico.

E’, del resto, questo il ragionamento giuridico che, ad esempio, ha portato la stessa Corte Suprema a dirimere la vicenda, divenuta tristemente assai nota, del bimbo conteso tra i genitori nel Comune di Cittadella con l’annullamento del provvedimento emesso in sede di merito per non aver tenuto conto delle censure mosse dalla comunità scientifica proprio avverso la PAS (sindrome di alienazione parentale) (2) e, dunque, per omesso esame di un fatto decisivo, in tal modo offrendo al citato n. 5 dell’art. 360 una applicazione certamente più ampia e di fatto imponendo al Giudice di merito di non limitarsi ad un mero, asettico richiamo alle conclusioni del consulente ma piuttosto, sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici, di verificare il fondamento scientifico di una consulenza che si presenti deviante rispetto alla scienza medica ufficiale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare.

In definitiva, pertanto, con questo orientamento si passa da una visuale esclusivamente scientifica e tecnica del fatto come elaborato dai consulenti alla logica dell’uomo comune e del buon senso, stabilendo che l’oggettivo riscontro di disturbi della personalità del minore manifestatisi in forme anomale d’avversione nei confronti di uno dei genitori per  comportamento alienante e possessivo dell’altro debba giustificare tutti gli opportuni provvedimenti giudiziali del caso nell’interesse prioritario dello stesso minore, indipendentemente dalla loro qualificazione in termini di “sindrome di alienazione parentale” essendo sufficiente ricondurli a problemi relazionali molto frequenti nelle famiglie in crisi, senza un necessario substrato scientifico o clinico che dir si voglia.

Con l’ordinanza oggi in commento, dunque, in conformità proprio a questo orientamento, vi è finalmente il riconoscimento esplicito del primato della ragione rispetto alla prova meramente scientifica e, quindi, l’esaltazione di quel senso comune che poi deve sempre guidare l’opera del giurista ed a maggior ragione del giudice.

La “Sindrome da Madre Malevola

Piuttosto, a corollario poi delle conclusioni e dei principi sin qui richiamati ci sembra che con il provvedimento in esame la Corte abbia forse voluto dare una “spallata” decisiva ad un concetto, o per meglio dire ad una terminologia, quella della “sindrome da madre malevola”, che evoca già nella sua stessa denominazione un connotato quasi offensivo e discriminatorio perché si presterebbe ad individuare nella donna, e quindi nella madre, l’unico o il  prevalente genus in grado di poter caratterizzare negativamente le relazioni e le dinamiche genitoriali.

Probabilmente, dunque, è arrivato il momento di mettere fine all’uso di questa locuzione e di utilizzare piuttosto, e soltanto, quella di “sindrome da alienazione genitoriale o parentale”, certamente più corretta e consona al nostro sistema giuridico poiché indirizzata indifferentemente a chi, tra i genitori, si renda eventualmente colpevole di tali condotte anomale, senza dunque questa aprioristica differenziazione di genere che, invece, ci sembra più basata se non su veri e propri pregiudizi quanto meno sulla semplicistica circostanza che nella maggior parte dei casi l’affidamento del figlio minore o la sua coabitazione siano riconosciuti in capo alla madre, sebbene ciò sia stato volutamente superato dal Legislatore con la nota normativa dell’affidamento congiunto o condiviso (3).

Certamente non possiamo tralasciare di considerare come anche autorevoli studiosi e clinici della materia (4) abbiano riscontrato tale sindrome unicamente su condotte e comportamenti riconducibili alla figura materna, dai quali appunto è poi derivato il fastidioso termine ancora oggi in uso, quasi a voler escludere ontologicamente l’eventualità che anche il padre possa rendersi colpevole degli stessi devianti atteggiamenti (5).

Persino in quei casi, pochi in verità, in cui sia stata accertata la grave responsabilità del padre per allontanamento del figlio dall’altro genitore, giammai si è inteso parlare di “padre malevolo”, come invece ci si sarebbe atteso secondo una corretta e perfetta equiparazione dei ruoli genitoriali, ma piuttosto sempre e solo di “alienazione parentale”, a dimostrazione probabilmente di un retaggio culturale e giuridico che affonda le sue radici in una persistente soggezione della figura materna rispetto a quella del padre (6).

Senza, tuttavia, minimamente voler scendere nell’eccesso che pure nel tempo è stato riscontrato con riguardo alla posizione assunta da alcune studiose del diritto di chiara estrazione femminista (7) che hanno voluto coniare, evidentemente per finalità ideologiche, il termine “sindrome di Alienazione materna” o MAS per identificare i casi di manipolazione del figlio riconducibili alla figura paterna, la motivazione che ci induce oggi a ritenere ormai superata la terminologia “sindrome da madre malevola” si poggia piuttosto su basi prettamente giuridiche e di puro diritto proprio per l’esplicita volontà del legislatore di tutelare al massimo la bi-genitorialità, per cui auspichiamo un totale cambio di rotta in tal senso anche da parte degli operatori del diritto e degli studiosi del pensiero.

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  • Tribunale di Treviso – Sezione Civile – sentenza n. 3547 del 18 giugno 2015 e, conforme, Corte di Appello di Venezia – ordinanza 06.04.2016
  • Civ. n. 7041/2013
  • Legge n. 54 dell’08 febbraio 2006
  • vedi per tutti “La Sindrome della Madre Malevola”, Ira Daniel Turkat e Gardner, R.A. (1989) – Family Evaluation in Child Custody Mediation, Arbitration and Litigation, Creative Therapeutics, Cresskill, N.J.
  • una posizione più neutra, sebbene riferita a condotte anomale della madre, è assunta dalla Corte di Cassazione – Sezione Prima – nell’ordinanza n. 287723 del 16 dicembre 2020 laddove si parla di “sindrome da alienazione parentale
  • vedi Cassazione Civile – Sezione Prima – sentenza n. 5847 dell’08 marzo 2013
  • si veda la femminista australiana Anne Morris (1999). Uncovering ‘Maternal Alienation’: a further dimension of violence against womenDepartment of Social Inquiry, University of Adelaide, Adelaide

Sentenza collegata

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Daniela Sodo

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