Sharenting: proposta di legge contro i dati dei minori sui social

Il fenomeno dello sharenting è ormai noto a tutti: si tratta dell’ormai invalso e diffuso comportamento dei genitori contemporanei di pubblicare online su tutti i social possibili e immaginabili, più altri di futura invenzione, foto e informazioni personali riguardanti i propri figli, anche in età molto precoce. Al grido (o per lo meno al pensiero) “siamo tutti dei piccoli Ferragnez” i genitori postano, postano come se non ci fosse un domani, senza rendersi conto che invece, per fortuna, il domani c’è e questo pubblicare scellerato di fotografie dell’amata prole potrebbe, proprio un domani, creare qualche problema di natura pratica, oltre che giuridica, a loro stessi o ai figli in questione.

Indice

1. Perché lo sharenting è un problema?


Il termine (brutto) sharenting deriva dalla crasi delle parole “share” (in inglese, condividere) e “parenting” (in inglese, esercitare il ruolo di genitore) e si tratta di un fenomeno non di poco conto.
Secondo una ricerca condotta da AVG Technologies (compagnia specializzata in sicurezza informatica), il 92% dei bambini americani ha già una significativa presenza online prima di compiere i 2 anni. In Europa, la situazione non è molto diversa, con genitori sempre più propensi a condividere dettagli della vita dei propri figli sui social media. Si stima che, in media, un bambino diventi protagonista di circa 1.500 post sui social prima del suo quinto compleanno. Uno studio europeo del 2021 mostra che l’80% dei bambini ha una significativa presenza online dall’età di due anni, prevalentemente su Facebook (non solo sulla bacheca della propria pagina personale, in teoria riservata gli “amici”, ma anche in gruppi aperti e pubblici), Instagram e Twitter.
Il fenomeno dello sharenting è maggiormente diffuso per i bambini dagli zero ai tre anni, ma oltre il 64% dei genitori pubblica foto dei figli anche dopo il quarto anno di vita. Questo significa che al raggiungimento dell’età per il consenso digitale (in Italia fissato ai 14 anni, ma su quasi tutti i social 13 anni è l’età minima richiesta per iscriversi, anche se il GDPR parla di 16 anni) un adolescente medio avrà una presenza social pari a migliaia di scatti già presenti in rete.
A fronte di numeri che fanno riflettere, in Europa qualche Stato si è già mosso per arginare il fenomeno: in Francia, ad esempio, già dal 2016 esistono leggi che sanzionano i genitori per la pubblicazione non autorizzata di immagini dei propri figli, con multe che possono arrivare fino a 45.000 euro. Una mossa decisa che mette in chiaro la serietà con cui il governo francese affronta la questione della privacy online dei minori

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2. E in Italia, come siamo messi?


Ad oggi nel Belpaese non esiste alcuna legge che vieti ai genitori di sentirsi Ferragnez dentro, ma è stata presentata una proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati da Alleanza Verdi-Sinistra, intitolata “Disposizioni in materia di diritto all’immagine dei minorenni”, la quale punta a mettere paletti all’abitudine dello sharenting, nell’ottica della crescente preoccupazione per i potenziali rischi legati a questa pratica, che spaziano dall’esposizione a fini commerciali indesiderati fino a pericoli più gravi come la pedopornografia.
La proposta legislativa si articola in tre principali direzioni:

  1. Limitazione dell’esposizione mediatica dei minorenni: pur non vietando completamente la condivisione delle immagini dei minori sui social media, introduce l’obbligo per i genitori di informare l’AGCOM tramite una dichiarazione firmata da entrambi. Questo passaggio mira a rendere più consapevole la condivisione delle immagini, ponendo una sorta di filtro legale alla pratica dello sharenting.
  2. Gestione degli introiti derivanti dall’esposizione dei minori: in risposta al rischio di sfruttamento commerciale dei minori (altro fenomeno su cui riflettere, quello dei baby influencer), la proposta prevede che eventuali guadagni ottenuti dalla loro immagine sui social network debbano essere depositati in un conto corrente intestato al minore. Questo fondo sarà accessibile dal minore solo al raggiungimento della maggiore età, se non per motivazioni eccezionali, garantendo così una tutela finanziaria dei diritti del minore.
  3. Diritto all’oblio digitale a partire dai 14 anni: si propone che i minori, al compimento del 14º anno di età, possano richiedere la rimozione dal web di tutti i contenuti che li vedono protagonisti. Questo punto si concentra sul diritto alla privacy e sull’autodeterminazione dei minori riguardo alla loro immagine online, offrendo loro la possibilità di cancellare le tracce digitali della loro infanzia se lo desiderano.

L’attenzione è posta sugli “small data” che emergono dai profili online dei genitori, spesso senza un consenso informato o la consapevolezza da parte dei minori stessi. L’osservatorio di antropologia digitale BeUnsocial sottolinea l’incertezza riguardo alla percezione della privacy da parte della generazione Alpha, i nativi digitali nati tra il 2010 e il 2025, suggerendo che potrebbero sviluppare un atteggiamento molto diverso verso la condivisione online e la privacy digitale, forse inclinando verso una maggiore gelosia della loro privacy, sentita come costantemente violata durante l’infanzia.
In un’epoca in cui la distinzione tra sfera pubblica e privata si fa sempre più sfumata, iniziative legislative come questa rappresentano tentativi importanti di adattare le normative alla realtà del mondo digitale, cercando di proteggere i più vulnerabili.
E allora, che dire? Forse non siamo i Ferragni (e nemmeno loro sembrano più così inclini a condividere ogni dettaglio dei loro pargoli online da quando è iniziata la fase della loro tormentata separazione), ma nel nostro mondo iper-connesso, il valore della privacy sembra essere stato dimenticato, lasciando spazio a una sorta di voyeurismo digitale mascherato da affetto e orgoglio genitoriale. Ma se c’è una lezione che possiamo imparare dai nostri amici francesi, è che forse è arrivato il momento di riflettere sul significato di condivisione e sui limiti che dovremmo auto-imporci per proteggere chi non ha voce in capitolo.
I social media hanno indubbiamente cambiato il modo in cui viviamo, comunichiamo e persino come facciamo genitori. Hanno reso il mondo più piccolo, ma anche molto più esposto. In questo contesto, lo sharenting diventa un campanello d’allarme che ci ricorda l’importanza di trovare un nuovo equilibrio, per crescere una generazione che sappia apprezzare il valore della condivisione, senza perdere di vista quello della privacy.
Dopotutto, i momenti più preziosi della vita di un bambino potrebbero essere quelli non fotografati, non postati e non condivisi, ma semplicemente vissuti.

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Avv. Luisa Di Giacomo

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