1. Introduzione.
Già nel ‘700 l’Abate Dinouart ammoniva che “si scrive male, talvolta si scrive troppo e, talvolta, non abbastanza”, dettando la regola per cui “è bene trattenere la penna, se non si ha nulla da scrivere che valga più del silenzio”. (1)
L’opera da cui sono desunte le suddette citazioni costituisce un elogio del silenzio, da intendersi però non come mezzo per isolarsi, ma come un invito ad un’attenta meditazione prima dell’uso della parola e degli scritti.
Tali riflessioni sono utili per introdurre l’argomento oggetto del presente scritto: il significato che assume il silenzio della pubblica amministrazione nei rapporti con l’utenza e l’esame dei mezzi di cui può avvalersi quest’ultima a fronte dell’inerzia della prima.
2. Significato del silenzio della pubblica amministrazione: la generalizzazione del silenzio-assenso.
Due antiche locuzioni attribuivano differenti significati al silenzio di un soggetto:
1. qui tacet, consentire videtur (chi tace dimostra di acconsentire);
2. qui tacet, non utique fatetur, sed tamen verum est eum, non negare (chi tace, è vero che non confessa, ma tuttavia non nega; che in altri termini può intendersi come chi tace non dice niente).
Nell’ambito degli odierni rapporti tra la pubblica amministrazione ed i cittadini, al silenzio può essere attribuito, a seconda dei casi, valore significativo (di silenzio-assenso o di silenzio-rigetto) oppure un valore di rifiuto di provvedere (silenzio-inadempimento).
L’attuale formulazione dell’art. 2 della legge 7 agosto 1990 n. 241 (la legge di disciplina in generale del procedimento amministrativo), quale derivante dalla novella normativa del 2005 (l. 15/’05 e d.l. 35/’05, conv. nella l. 80/’05) prevede il dovere della pubblica amministrazione di concludere il procedimento amministrativo – conseguente ad un’istanza del privato o avviato d’ufficio – con un provvedimento espresso.
Il successivo art. 20 assume importanza basilare, in quanto pone – eccezion fatta per i procedimenti inerenti le materie specificamente individuate nel comma 4 – la regola generale del silenzio-assenso. Attribuisce, cioè, all’inerzia dell’ente pubblico, decorso il termine di tempo previsto, il significato di accoglimento dell’istanza.
Lo stesso articolo, invece, esclude tale significato, oltre che nelle materie di cui al comma 4, nei casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza e nei confronti degli “atti e provvedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i ministri competenti”.
Attualmente, quindi, resta il problema di tutela del privato nel caso di silenzio-rifiuto (di provvedere) o silenzio-inadempimento, ovvero nel caso in cui il soggetto pubblico resti inerte a fronte di un’istanza del privato che verta in una delle materie escluse dal campo di applicazione della regola del silenzio significativo.
3. Evoluzione storica della questione del silenzio della pubblica amministrazione.
La suddetta generalizzazione del silenzio-assenso costituisce un importante traguardo raggiunto in termini di certezza del diritto e di salvaguardia dei cittadini rispetto a comportamenti patologici o comunque ostruzionistici della pubblica amministrazione.
Ritengo opportuno, tuttavia, riassumere brevemente l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha riguardato la questione oggetto del presente scritto, per passare poi all’esame delle più recenti tendenze in materia e dei rimedi a disposizione del privato per le ipotesi di silenzio-inadempimento (o silenzio-rifiuto, che dir si voglia).
Storicamente l’esigenza di tutela del privato a fronte dell’inerzia della pubblica amministrazione si è manifestata in principio in un ambito particolare, costituito dall’ipotesi di ricorso gerarchico contro un atto emesso dall’ente pubblico.
La legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (l. 21.3.1889 n. 5993) poneva come requisito basilare per l’impugnazione dell’atto amministrativo la sua definitività, caratteristica questa che veniva ad esistenza solo se vi era una decisione sul ricorso da parte dell’organo gerarchicamente superiore a quello che aveva emesso l’atto impugnato.
Logica conseguenza era che l’eventuale mancata decisione sul ricorso gerarchico precludeva la possibilità di impugnazione dell’atto dinanzi al giudice amministrativo.
Si rendeva, pertanto, necessario un rimedio che consentisse al privato di superare una simile impasse. Tale rimedio fu individuato con la nota sentenza n. 429, resa dalla IV Sezione del Consiglio di Stato in data 22 agosto 1902: in pratica, decorso un “congruo termine” di tempo dalla presentazione del ricorso gerarchico, l’interessato doveva notificare una formale diffida all’amministrazione, intimando alla stessa di decidere in merito entro un determinato ulteriore termine. Il decorso di tale termine senza alcuna pronuncia doveva interpretarsi come rigetto del ricorso (c.d. silenzio-rigetto), assumeva cioè valenza di un provvedimento negativo.
Tale soluzione costituiva una finzione giuridica ed era resa necessaria dal carattere impugnatorio, proprio del processo amministrativo, ovvero il carattere di processo che ha ad oggetto un atto amministrativo, rispetto al quale si chiede la pronuncia dell’autorità giudiziaria.
Evidenzio che la soluzione – seppur mossa dal lodevole intento di tutelare il cittadino, evitandogli una situazione di assoluta soggezione a fronte di atteggiamenti di inerzia della pubblica amministrazione – era pur sempre una finzione giuridica e, inoltre, si riferiva al caso specifico dell’inerzia conseguente alla proposizione di un ricorso gerarchico.
Tale rimedio, tuttavia, ebbe una successiva trasposizione in ambito legislativo con il T.U. della legge comunale e provinciale del 1934, il cui art. 5 riconobbe al ricorrente – decorsi senza esito 120 giorni dalla presentazione del ricorso – il potere di notificare istanza alla p.a. affinché decidesse. In assenza di decisione, decorsi 60 giorni, il ricorso era considerato rigettato.
Si compiva così un piccolo passo avanti, eliminando il problema preesistente di come interpretare l’espressione “congruo termine”, ma si restava sempre nel caso specifico del ricorso amministrativo, nulla dicendosi riguardo al silenzio dell’ente pubblico a seguito di un’istanza del privato volta ad ottenere un concreto provvedimento.
La giurisprudenza amministrativa, seppure con alcuni tentennamenti, ritenne di poter colmare tale lacuna interpretando la disciplina suddetta come il frutto di un principio di carattere generale, riferibile a qualsiasi caso di inerzia della p.a. (2).
Permanevano, tuttavia, in dottrina forti perplessità, incentrate sulla circostanza che il silenzio non costituiva altro che un comportamento della p.a., cui per mera finzione si attribuiva il carattere di un atto. Tali perplessità trovarono un espresso riconoscimento da parte dell’Adunanza Plenaria del C.d.S, che con la sentenza n. 8 del 3.5.1960 superò la concezione del processo amministrativo quale esclusivamente di tipo impugnatorio, riconoscendo che i ricorsi giurisdizionali contro il silenzio- rifiuto hanno ad oggetto non un atto amministrativo, ma il comportamento della p.a. omissivo (rispetto all’obbligo di provvedere) (3).
Procedendo nel tempo, si giunse all’abrogazione dell’art. 5 del T.U. della legge comunale e provinciale del 1934 ad opera dell’art. 6 del D.P.R. 1199 del 1971 (di disciplina dei ricorsi amministrativi), che previde che “decorsi 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso gerarchico, senza che l’organo abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all’autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al Presidente della Repubblica”.
A tale sviluppo normativo la giurisprudenza fece seguire un’importante pronuncia, resa dall’Adunanza Plenaria del C.d.S. con sentenza n. 10 del 10.3.1978. In tale occasione, accogliendo la posizione espressa in dottrina dal Sandulli, la magistratura amministrativa ritenne di dover applicare al silenzio-rifiuto la procedura contemplata dall’art. 25 del D.P.R. 3 del 1957 (Testo Unico degli impiegati civili dello Stato), per cui decorsi inutilmente 60 giorni dalla presentazione di un’istanza, il privato doveva diffidare e mettere in mora la p.a. affinché provvedesse entro un termine (di almeno 30 giorni). Decorso infruttuosamente tale termine, era possibile impugnare il silenzio-rifiuto dinanzi al giudice amministrativo.
Con l’impiego di tale impostazione si giunse all’entrata in vigore della l. 241/’90, il cui art. 2 introdusse il principio dell’obbligo dell’amministrazione di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso.
In particolare, tale disposizione previde che gli enti pubblici – ove non vi fosse disciplina di leggi e regolamenti – dovessero stabilire per i procedimenti di propria competenza i termini di conclusione dei medesimi. Ove ciò non avesse luogo, la stessa disposizione di legge fissava un termine generale di conclusione del procedimento di 30 giorni, con decorrenza dall’inizio d’ufficio del procedimento o dalla ricezione dell’istanza del privato.
Devo sottolineare che malgrado l’avvento dell’art. 2 della l. 241/’90 sopra citato rimasero in vita dubbi in merito alla necessità che il privato procedesse alla diffida a provvedere nei confronti della p.a.. A sostegno dell’utilizzo del meccanismo di cui al T.U. degli impiegati civili dello Stato del ’57 si osservò, in giurisprudenza, che l’automatica formazione del silenzio-rifiuto costituiva un pericolo per il privato, in quanto lo stesso avrebbe potuto non rendersi conto dello spirare del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione dinanzi al giudice amministrativo. Inoltre il meccanismo della diffida avrebbe consentito un più ampio margine temporale all’ente pubblico per ovviare ai propri inadempimenti.
La questione è stata risolta con la novella del 2005 (l. 15/’05 e l. 80/’05), a seguito della quale l’attuale art. 2 comma 5 della l. 2412/’90 espressamente prevede che “il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione…può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai precedenti commi 2 o 3…”. In tal modo l’utilizzo della diffida è stato rimesso alla libera scelta della parte privata e non costituisce più un obbligo per la stessa.
4. Segue: le innovazioni introdotte dalla l. 205/’00 di riforma del processo amministrativo.
Sul piano processuale un’importante novità relativamente al giudizio avverso il silenzio-rifiuto si è avuta con la l. 205/’00 (di riforma del processo amministrativo) che ha introdotto nella l. 1034/’71 (legge istitutiva dei tribunali amministrativi regionali) l’art. 21-bis.
Tale norma ha dedicato al giudizio di cui trattasi un rito semplificato. Si tratta, in estrema sintesi, di un rito camerale, destinato a concludersi in tempi brevi, con emissione di una sentenza succintamente motivata. In esso i termini di impugnazione sono ridotti (30 giorni dalla notificazione o, in mancanza, 90 giorni dalla comunicazione della pubblicazione) e – ove il T.A.R. accerti la violazione dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso – il medesimo giudice ordinerà alla p.a. di provvedere entro un termine (di solito non superiore a 30 giorni). Persistendo l’inadempimento oltre tale termine, su istanza del privato il magistrato amministrativo procederà alla nomina di un commissario ad acta, che provvederà in luogo dell’amministrazione.
Sempre sul piano processuale, l’introduzione del rito sopra descritto ha riportato all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza un problema ulteriore: l’identificazione dell’oggetto del giudizio in materia di silenzio.
Era discusso se tale oggetto fosse solo la declaratoria dell’illegittimità del silenzio della p.a. oppure se al giudice amministrativo fosse possibile la cognizione sulla fondatezza della domanda che il privato aveva rivolto all’ente pubblico. Premesso che la questione affonda le sue radici in quello che è un importantissimo corollario del principio della separazione dei poteri, cioè la c.d. riserva alla p.a della funzione amministrativa (con esclusione dell’ingerenza dell’autorità giudiziaria), l’Adunanza Plenaria del C.d.S. n. 10/’78 aveva previsto che il giudice amministrativo – per le sole ipotesi di attività della p.a. di carattere vincolato – potesse valutare il contenuto dell’obbligo dell’amministrazione.
Dopo l’introduzione del rito di cui all’art. 21-bis della l. 1034/’71, l’Adunanza Plenaria del C.d.S. n. 9/’01 ha mutato orientamento, ritenendo che il g.a. non potesse (neppure nell’ipotesi di provvedimenti amministrativi di carattere vincolato) avere cognizione della fondatezza dell’istanza del privato.
Sul punto, da ultimo, è intervenuto lo stesso legislatore, che con la l.80/’05 ha novellato l’art. 2 della l.241/’90, il cui attuale testo prevede che “il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza”.
Devo precisare che l’intervento del legislatore non ha, comunque, dato luogo ad una visione univoca, dato il persistere di differenti interpretazioni del suddetto disposto, più o meno restrittive riguardo al potere dell’autorità giudiziaria amministrativa.
In tale ambito sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo) farsi strada la tesi restrittiva, secondo la quale l’esame della fondatezza della pretesa del privato è consentito al giudice (beninteso su istanza di parte) nel caso di provvedimento omesso dall’ente pubblico di carattere vincolato o, comunque, che presenti modesti profili di discrezionalità tecnica.
Una riprova della suddetta incertezza mi sembra si possa individuare nella seguente affermazione dottrinale: “…il legislatore estende esplicitamente il giudizio all’accertamento della fondatezza della pretesa del privato, nulla specificando, peraltro, in ordine alla natura discrezionale ovvero vincolata della funzione non esercitata dall’amministrazione.
Si è al riguardo anzitutto osservato che la formula <> sembra rimettere di volta in volta all’avveduto apprezzamento del giudice se limitarsi a dichiarare l’illegittimità del silenzio-inadempimento ovvero statuire in ordine alla fondatezza dell’istanza. (4)
Merita di essere citata, inoltre, la ricostruzione dottrinale basata sulla lettura coordinata dell’art. 2 della l. 241/’90 e dell’art. 21-bis della l. 1034/’71, secondo la quale l’espressione “il giudice può conoscere della fondatezza dell’istanza” farebbe riferimento ad un’attività cognitiva solo strumentale ai fini dell’accoglimento o meno del ricorso avverso il silenzio-rifiuto. (5)
Tale soluzione – che ha il pregio di salvaguardare il principio della riserva di amministrazione – prescinde dal distinguo tra attività discrezionale ed attività vincolata e si basa sulla constatazione che il giudice, ove ritenga fondata l’istanza del privato, non si sostituisce alla p.a., ma ordina alla stessa di provvedere, ai sensi del comma 2 dell’art. 21-bis della legge sui T.A.R.
In tal modo l’ente pubblico in caso di attività discrezionale potrà comunque anche provvedere in maniera difforme rispetto alle valutazioni dell’autorità giudiziaria, dandone adeguata motivazione. (6)
5. Possibili sviluppi normativi e concreta tutela dei cittadini.
Conclusa la sintetica illustrazione delle varie tappe del percorso legislativo, giurisprudenziale e dottrinale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, ritengo opportune alcune considerazioni riguardo alla concreta possibilità dei cittadini di reagire all’inerzia dell’ente pubblico.
E’ evidente che la generalizzazione del silenzio-assenso rappresenta un importante passo avanti nella tutela del privato rispetto all’inazione delle amministrazioni. Lo stesso si può dire riguardo all’obbligo della p.a di conclusione del procedimento (art. 2 l. 241/’90) ed a vari istituti previsti dalla legge generale sul procedimento amministrativo (per tutti, basti citare la figura del responsabile del procedimento).
La stessa introduzione del rito speciale di cui all’art. 21-bis della legge 1034/’71 è ispirata alla salvaguardia del privato.
Ma tutto ciò è in concreto sufficiente?
La mia opinione è che non lo è.
Come evidenziato da un’attenta dottrina (7), è difficile pensare che un cittadino – di fronte al comportamento inerte dell’ente pubblico – si avventuri in un (costoso) processo dinanzi al giudice amministrativo, la cui durata ed il cui esito restano incerti.
Di tale stato di cose deve essersi reso conto il legislatore che nel recente d.d.l. n. 1441-bis (Camera dei Deputati) ha proposto di integrare il contenuto dell’art. 2 della l. 241/’90 in tema di conclusione del procedimento, prevedendo che “le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo, mediante una manifestazione di volontà chiara e univoca…entro un termine certo, stabilito conformemente al presente articolo” e, soprattutto, ipotizzando un comma 2-bis in cui è prospettato l’obbligo degli enti pubblici di corrispondere un indennizzo (prescindendo dal riconoscimento dell’eventuale danno) connesso all’inosservanza dei termini di conclusione del procedimento. (8)
Ad avviso dello scrivente, al di là delle innovazioni normative, è auspicabile che la soluzione sia attuata dalle stesse amministrazioni, esercitando la loro capacità di autoorganizzazione, di determinazione dei carichi di lavoro, di costante monitoraggio del rapporto tra questi e il personale assegnato alle varie procedure, avvalendosi dei poteri regolamentari previsti dalla l. 241/’90 per individuare termini dei singoli procedimenti che contemperino le esigenze dell’utenza con le risorse a disposizione.
Dott. Giuliano Lentini
Funzionario amministrativo presso la Provincia di Taranto.
NOTE:
1. Abate Dinouart, L’arte di tacere, 1771.
2. In tal senso, tra le altre, C.d.S., Sez IV, 21.1.1936 n. 26 e C.d.S., Sez. IV, 29.10.1951 n. 534.
3. Nel tempo, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale hanno portato a riconoscere il potere del giudice amministrativo di condannare la p.a. al risarcimento del danno cagionato al privato (cfr. in materia G. Lentini, La tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo , in
www.diritto.it, 31.1.2008 e riferimenti bibliografici ivi citati).
4. N. A. Calvani, Il silenzio inadempimento, in Aspetti dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, a cura di D. Mastrangelo, Aracne Editrice, marzo 2006.
5. P. Franceschetti, Il silenzio nella p.a dopo la riforma del 2005 (a cura di A. Crisafulli), in La pratica forense, Rivista mensile a diffusione telematica.
6. A conclusioni analoghe sul punto perviene F. Lacava, La nuova disciplina del silenzio-inadempimento dopo le leggi n. 15/’05 e n. 80/’05, in
www.amministrazioneincammino.luiss.it. L’Autore evidenzia la scarsa chiarezza dell’espressione utilizzata nella novella legislativa del 2005 ed auspica che l’Adunanza Plenaria del C.d.S. faccia in merito piena luce.
7. G. Totano, Ostacoli operativi alla protezione del cittadino avverso il silenzio della p.a., in GiustAmm.it n. 3-2005.
8. Cfr. al riguardo L. Camarda, La responsabilità amministrativa legata alla certezza della conclusione del procedimento nella logica della semplificazione; V. Italia, Il dovere di concludere il procedimento entro tempi certi e gli enti locali, entrambi in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 17/2008, Noccioli Editore.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE:
– E. Cucciolini, Il silenzio nell’esercizio della funzione pubblica e risarcimento danni, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 9-10/2008, Noccioli Editore.
–
M. Giardetti, Il silenzio della PA come novellato dal DL 35/05, in
www.diritto.it.
–
G. Lucarini, Tutela avverso il silenzio-rifiuto e nuove frontiere nella sindacabilità giurisdizionale della fondatezza della pretesa sostanziale del privato, in
www.diritto.it.
– M. Occhiena, Riforma della l. 241/’90 e “nuovo” silenzio-rifiuto: del diritto v’è certezza, in GiustAmm.it n. 2-2005.
–
C. Silvis, La giuistiziabilità del silenzio-inadempimento della P.A.: questioni risolte e problematiche emergenti, in
www.ergaomnes.net, 23.4.2006.
–
M. Valentino, La discrezionalità amministrativa e le sue forme nella nuova ottica della legge numero 15 del 2005, in
www.diritto.it, 11.1.’07
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