Preliminarmente all’esamina della colpa occorre richiamare il principio, per cui presupposto della giurisdizione contabile è ogni relazione (rapporto di servizio) che lega un soggetto alla P.A. per lo svolgimento di un’attività pubblica, ossia coerente ai fini dell’ente e con effetti e rilevanza finanziaria per l’Erario globalmente considerato, questo indipendentemente dall’inserimento stabile e professionale di un soggetto nell’apparato della P.A. (Corte dei conti, Sez. I, 29.1.98, n. 25/A).
L’art. 3 della L. 20.12.96 n. 639 dispone la responsabilità personale dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo e con colpa grave.
Il sistema della colpa nel codice civile è fondato sul modello astratto del buon padre di famiglia, ma all’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale il codice fa riferimento ad una forma attenuata di responsabilità basata sul dolo o colpa grave in quanto ai sensi dell’art. 2236 c.c. se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave.
Ma anche in altre occasioni il codice civile fa riferimento alla particolare diligenza necessaria vista la natura e le caratteristiche di una specifica attività, come ad esempio all’art. 1176, c. 2°, in sostanza la colpa consiste nel violare un criterio medio di diligenza adattabile alle varie circostanze, nel caso di colpa professionale la limitazione al dolo o alla colpa grave è giustificata dal rischio particolare che si impone all’agente.
Non si deve, comunque, sottovalutare il grado di diligenza ricompreso nel modello del buon padre di famiglia, in quanto la figura non fa affatto riferimento ad una diligenza media bensì costituisce un metro dell’attività diretta alla tutela e alla realizzazione di interessi altrui, sicché vi è insita l’idea di una speciale sollecitudine che deve guidare l’obbligato nella sua attività.
Nel sistema del codice civile si è così creata una doppia figura della colpa, una astratta fondata sul modello del buon padre di famiglia intesa come una concezione psicologica della colpa che si esaurisce in un nesso psichico fisso ed uguale tra l’agente ed il fatto ed un’altra normativa fondata su una reale graduazione della colpevolezza in cui l’attenzione si sposta dalla verifica dell’inadempimento alla valutazione dell’azione colpevole, modellando la colpa secondo la diversità dei casi in rapporto alla maggiore o minore antidoverosità del comportamento del soggetto rispetto all’entità del danno . Tuttavia a modellare la gravità della colpa si è considerato oggettivamente anche, sebbene giurisprudenzialmente contrastato, il complesso dell’organizzazione amministrativa nel cui ambito si inserisce l’attività che si presume fonte del danno erariale, pertanto il grado di colpevolezza richiesto è tanto più elevato quanto minore è la funzionalità complessiva dell’organizzazione in cui l’illecito va a collocarsi. (Corte dei conti, SS.RR. 24.9.97, n. 66, contro SS.RR. 10.6.97, n. 56 e Sez. I, 14.1.97, n. 1).
L’art. 59, c. 1° del D. Lgs. N. 29/93 e succ. modifiche conferma la disciplina attualmente vigente in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, questa viene a collegarsi con l’art. 3 della L. n. 639/96 nella parte in cui, ad integrazione della gravità della colpa, dispone che “ nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrativa in relazione al comportamento degli amministratori e dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”.
Il potere riduttivo dell’addebito non consiste in una gratuita riduzione dello stesso, ma in una determinazione discrezionale dell’an e del quantum delle somme da porre a carico del responsabile in funzione alla gravità della colpa.
Sempre l’art. 3 della L. N. 639/96, in rapporto con l’art. 82, c. 2° della legge di contabilità generale, esclude la responsabilità passiva del campo della responsabilità amministrativa sottolineando il principio fondamentale della individualità della responsabilità derivante dalla concezione normativa della colpa.
Il principio della individuazione della colpa ha comportato l’affermarsi della personalità della responsabilità e quindi la intrasmissibilità della stessa agli eredi, in questo quadro si colloca il problema della limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave. Tale limitazione non significa che viene consentito un comportamento lassista dei pubblici dipendenti, assoggettando alla sanzione risarcitoria solo quei comportamenti costituenti macroscopiche inosservanze dei doveri d’ufficio, bensì si tiene conto della complessità dei doveri d’ufficio incombenti ai pubblici dipendenti inseriti in una struttura organizzativa di cui sono note le disfunzioni.
In conclusione si può affermare che essendo notevole il rischio di incorrere in errori, al pubblico dipendente possono essere rimproverate solo le manchevolezze particolarmente gravi.
Una volta definito il quadro dottrinale in cui inserire il concetto di colpa grave e della sua individualizzazione è opportuno entrare nel merito circoscrivendone esattamente il contenuto.
Per colpa grave si intende l’evidente e marcata trasgressione di obblighi di servizio o regole di condotta aventi le seguenti connotazioni:
- Sia ex ante ravvisabile nel soggetto che sia da lui medesimo,sempre ex ante, astrattamente riconoscibile per dovere professionale d’ufficio;
- Si concretizzi nell’inosservanza del minimo di diligenza richiesto nel caso concreto o in una marchiana imperizia o in un’irrazionale imprudenza;
- Non sussistano oggettive ed eccezionali difficoltà nello svolgimento dello specifico compito d’ufficio;
- Nel caso di potenziale e particolare pericolosità delle funzioni esercitate dal soggetto, questo non si sia attenuto all’obbligo di osservare il massimo delle cautele e dell’attenzione.
Si vede bene che non tutti i comportamenti censurabili integrano gli estremi della colpa grave, ma soltanto quelli contraddistinti da precisi elementi qualificanti che vanno accertati volta per volta in relazione alle modalità di fatto, all’atteggiamento soggettivo dell’autore, nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l’evento dannoso.
Riassumendo, si può affermare che il prevalente orientamento della giurisprudenza contabile identifica la colpa grave in una “sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa ostensiva attraverso un comportamento improntato a massima negligenza o imprudenza ovvero ad una particolare non curanza degli interessi pubblici”. Indici di riconoscimento di tale grado della colpa sono stati ritenuti la previsione dell’evento dannoso (c.d. colpa cosciente), più in generale la sua prevedibilità, ovvero il superamento apprezzabile dei limiti di comportamento dell’uomo medio, o anche il notevole superamento di detti limiti, per chi riveste una figura professionale alla quale vanno richieste particolari doti di diligenza, prudenza e perizia.
L’utilizzabilità di questi indici non riduce la difficoltà di stabilire la gravità della colpa nei singoli casi concreti, per tale motivo il relativo giudizio deve ispirarsi ad una considerazione globale di tutti gli elementi di fatto e di diritto ricorrenti nelle singole fattispecie concrete, con particolare riferimento all’atteggiamento tenuto dal convenuto in relazione agli obblighi di servizio ed alle regole di condotta relativi allo svolgimento degli specifici compiti di ufficio affidati alla sua responsabilità (Corte dei conti, SS.RR. 7.1.98, n. 1/A).
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RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE E SOLIDARIETÀ
Nell’ottica della distinzione fra responsabilità amministrativa e responsabilità gestionale è intervenuta la sentenza delle SS.RR. della Corte dei conti n. 21 del 15.5.98 in cui si è richiamata la responsabilità degli organi elettivi, non solo nel caso in cui sia venuto meno il dovere di vigilanza sul buon andamento degli uffici e servizi che a essi fanno capo, ma anche quando il danno delle finanze dell’ente sia direttamente riconducibile agli atti di programmazione, di indirizzo o controllo che a loro compete.
Deve, comunque, tenersi presente la necessità di dare conto mediante atti formali, adeguatamente e congruamente motivati dell’impiego delle risorse pubbliche e delle necessità ed esigenze che si vanno a soddisfare. Pertanto la carenza di elementi atti ad individuare la finalità obiettiva delle spese sostenute non può, in assenza di concrete prove ad onere del soggetto ritenuto responsabile, deporre in favore della loro asserita obiettiva utilità (Corte dei conti, Sez. II 9.2.98, n. 36/A).
Relativamente alla solidarietà nella responsabilità per danni questa è stata limitata ai soli concorrenti che abbiano agito con dolo o abbiano conseguito un illecito arricchimento (art.3 – L. n. 639/96).
L’area di applicazione dell’indicata normativa comprende anche l’attività degli organi collegiali, una volta dimostrata l’inesistenza di volontà e comportamenti autonomi nell’adozione dei correlativi atti. (Corte dei conti, SS.RR. 23.9.97, n. 66/A e SS.RR. 10.6.97, n. 56/A).
Sebbene il prevalente orientamento giurisprudenziale esclude la solidarietà tra chi ha adottato atti collegiali illeciti in assenza di dolo o illecito arricchimento (Corte dei conti SS.RR. 20.3.97, n. 33/A e Sez. II 13.5.98, n. 139), vi sono state alcune pronunce che si sono discostate da tale orientamento. Interpretando restrittivamente l’art. 1 comma 1 quinquies L. 14.1.94 n. 20, aggiunto dalla L. n. 639/96, come riferentesi ad una pluralità di azioni o omissioni illecite casualmente legate al verificarsi dell’evento dannoso, si è affermato che nel caso in cui il danno pubblico sia la conseguenza di un atto giuridicamente unitario di atti collegiali illeciti, la responsabilità di chi vi abbia assentito non può essere che a titolo solidale, tenuto anche conto del fatto che il comma 1 quinquies dell’art. 1, L. 20/94 richiama soltanto il comma 1 quater concernente il concorso di responsabilità in generale e non già anche il comma 1 concernente specificatamente la responsabilità derivante da atti collegiali. (Corte dei conti, SS.RR. 7.1.98 n. 1/A; Sez. 1, 1.4.98, n. 105).
Nell’ipotesi di evento dannoso cagionato da concorso di fatti dolosi e colposi addebitati a più soggetti, l’obbligazione accertata e sanzionata nei confronti del responsabile a titolo di dolo ha valenza essenzialmente restitutoria, mentre quella concernente i corresponsabili a titolo di colpa ha valenza più propriamente risarcitoria; per conseguenza, nei confronti del responsabile a titolo di dolo non opera neppure la solidarietà con gli altri corresponsabili, giacché questa comporterebbe comunque una ripartizione dell’obbligazione, sia pure nei rapporti interni. In tal caso il rapporto tra i corresponsabili va individuato ritenendo sussidiaria l’obbligazione risarcitoria dei corresponsabili a titolo di colpa e principale l’obbligazione restitutoria del responsabile per dolo, specie sotto il profilo di difetto di vigilanza sull’altrui attività volontariamente dannosa (Corte dei conti, SS.RR. , 25.2.97, n. 29, Sez. II, 16.2.98, n. 64 e Sez. II, 13.6.97, n. 83/A).
Relativamente al potere riduttivo dell’addebito occorre, infine, osservare che la responsabilità derivante da una dolosa e pervicace condotta è diversa da quella che discende dall’aver omesso una adeguata vigilanza e controllo, pertanto non può esservi riduzione dell’addebito. D’altronde l’uso del potere riduttivo dell’addebito non deve risultare sproporzionato rispetto al rapporto esistente tra cause giustificatrici addotte ed entità del danno accertato, tale da ridurre la condanna a misura quasi simbolica (Corte dei conti, SS.RR., 6.6.97, n. 55/A e SS.RR., 13.5.97, n. 45/A).
Circa la trasmissibilità della responsabilità agli eredi per indebito arricchimento non può essere evitata con la accettazione dell’eredità con beneficio di inventario in quanto la limitazione ha efficacia intra vires, rimanendo la possibilità per il P.M. di dedurre l’arricchimento, ai sensi dell’art. 2729 c.c., in base a presunzioni semplici secondo l’id quod plerunque accidit. Nel caso, poi, di eredi di agenti contabili, l’onere del discarico si riferisce in capo agli eredi stessi che dovranno comunque, anche nel caso di accettazione con beneficio di inventario, fornire elementi di prova atti a dimostrare il non avvenuto “illecito arricchimento” (Corte dei conti, SS.RR., 11.2.96, n. 74/A e Sez. II, 19.2.98, n. 73).
Al contrario dibattuta è in giurisprudenza contabile l’efficacia scriminante della prassi che viene negata in alcune pronunce (Sez. II, 20.6.96, n. 37) e riconosciuta in altre (Sez. II, 14.11.97, n. 215), comunque la colpa grave sembra non sussistere nell’ipotesi in cui a fronte di una prassi illegittima sia stata attivata una procedura di riesame sia pure a rilento e senza una adeguata ponderazione dell’interesse pubblico (Corte dei conti, SS.RR. 27.1.98, n. 5/A).
Sarà, infine opportuno richiamare l’attenzione sul tentativo delle SS.RR. con la pronuncia del 18.9.96 n. 58/A di superare la problematica correlata alla colpa e alla sua gravità rifacendosi al concetto di cosciente e volontario inadempimento di un obbligo di servizio, inteso come violazione di un contratto.
(Estratto dalla relazione dell’Autore per funzionari contabili – Scuola di formazione e aggiornamento del personale dell’amministrazione giudiziaria – Sede di Genova)
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