Sistema di prenotazione delle sessioni di lavoro adottato da Deliveroo Italia: accertata la natura discriminatoria

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Sintesi dei fatti.

FILCAMS CGIL BOLOGNA, NIDL CGIL BOLOGNA e FILT CGIL BOLOGNA, adivano la sezione lavoro del Tribunale di Bologna ex art. 5, co. 2 d.lgs. 216/2003 affinché venisse dichiarata la natura discriminatoria delle condizioni di accesso alle sezioni di lavoro tramite la piattaforma digitale della convenuta, Deliveroo Italia s.r.l..

Instaurata la collaborazione, i lavoratori – c.d. riders – erano tenuti a scaricare un’applicazione per la prenotazione delle sessioni di lavoro caratterizzata da un apposito sistema selettivo, parametrato su due criteri: l’affidabilità e la partecipazione (che determinano il c.d. ranking reputazionale). In particolare, ciascun rider veniva valutato in base a quanto avesse rispettato, nelle ultime 14 giornate lavorative, la prenotazione e la successiva non cancellazione del lavoro nel termine di 24 ore prima dell’inizio dell’effettiva attività lavorativa (c.d. late cancellation). Inoltre, la valutazione del rider avveniva anche in base fatto che, ove non avesse cancellato la prenotazione, avesse, altresì, rispettato l’obbligo di presentarsi entro 15 minuti dall’inizio della prestazione nel perimetro della zona prenotata. In caso contrario, il lavoratore scendeva nella statistica all’uopo realizzata: “perdeva punti”. In effetti, l’aver conquistato un punteggio elevato permetteva al lavoratore di salire in graduatoria e “scegliere” con priorità le sessioni di lavoro, le quali ultime, mano a mano si saturavano, divenendo non disponibili per i riders con ranking reputazionale inferiore.

Su tali premesse, i sindacati lamentavano che dette condizioni di accesso al lavoro finivano per penalizzare tutte le forme lecite di astensione dalla prestazione, in particolare precludevano l’esercizio del diritto di sciopero dei lavoratori, perché, di fatto, determinavano la retrocessione di ogni lavoratore che per qualsiasi causa se ne asteneva, limitando le future occasioni di lavoro.

La società si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso, perché infondato, eccependo preliminarmente la carenza di legittimazione del sindacato; rilevava, inoltre, nelle proprie note del 2.11.2020, che il sistema opzionale di prenotazione sopra descritto non veniva più impiegato dalla società e, pertanto, chiedeva dichiararsi la cessazione della materia del contendere.

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La decisione.

L’organo giudicante accoglieva il ricorso proposto dagli enti motivando come segue.

In via preliminare, si esprimeva in ordine cessazione della materia del contendere, in particolare rilevando che, tra le parti, permaneva il contrasto circa la natura discriminatoria o meno della condotta oggetto di causa. All’uopo evidenziava che le OO.SS non formulavano solo istanze inibitorie, ma anche di accertamento e, per l’effetto, di condanna al risarcimento del danno per tale condotta.

In ordine all’applicabilità del d.lgs. 216/2003 anche ai rides: l’argomentazione muoveva dall’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in atto[1], sempre più allineata nell’equiparare il lavoro svolto dal rider a quello del lavoratore subordinato, un’evoluzione tesa ad estendere al primo anche la disciplina nata per il secondo e volta a tutelare il lavoratore da ogni forma di discriminazione. Il giudice evidenziava inoltre che, in ogni caso, pur volendo prescindere dalla qualificazione del rapporto di lavoro dei riders, è la stessa littera legis che all’art. 47 quinquies del d.lgs 81/2015 espressamente dispone che “ai lavoratori di cui all’articolo 47-bis (lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore) si applicano la disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità del lavoratore previste per i lavoratori subordinati, ivi compreso l’accesso alla piattaforma”. Il giudice, pertanto, affermava l’applicazione della normativa de qua ai riders.

Sempre in via preliminare, l’analisi del giudice proseguiva in ordine all’eccezione di difetto di legittimazione attiva dei sindacati, legittimazione che questi fondavano sull’art. 5 co. 2 d.lgs 216/2003. In effetti, l’attuale formulazione dell’art. 5[2] ha esteso la legittimazione ad agire ad ogni ente sindacale purché rappresentativo del diritto o dell’interesse leso (interesse da intendersi, quindi, come qualificato), in tal modo, togliendo alla maggiore rappresentatività la funzione di parametro per affermare la legittimazione all’azione.

Il giudicante condivideva poi l’analisi sviluppata dalla Suprema Corte[3] che ritiene necessaria la ricorrenza di due requisiti al fine di riconoscere la sussistenza di legittimazione attiva del sindacato ossia a) l’impossibilità di individuare il soggetto o i soggetti singolarmente discriminati, poiché la violazione della parità di trattamento sul lavoro colpisce una categoria indeterminata di soggetti b) la rappresentatività dell’associazione rispetto all’interesse collettivo in questione, da verificare in base allo statuto dell’ente; i.e. deve trattarsi di un interesse proprio dell’associazione, perché in connessione immediata con il fine statutario, in modo tale che la produzione degli effetti del comportamento controverso si risolva in una lesione diretta dello scopo istituzionale dell’ente, il quale contempli e persegua un fine ed un interesse, assunti nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto dell’ente stesso.

Nel caso di specie, il Giudice rilevava che la discriminazione colpiva proprio una categoria indeterminata di soggetti, ossia tutti i rider non solo i partecipanti ma gli intenzionati a partecipare a forme collettive di astensione al lavoro, posto che, nell’espressione “convinzioni personali” tutelate dall’art. 1 d.lgs. 216/2003 rientrano anche i motivi sindacali. A questo, il G.L aggiungeva che gli enti sindacali, come emerge dai rispettivi statuti, si proponevano e a tutt’oggi si propongono di contrastare ogni forma di discriminazione nelle condizioni di lavoro. Il giudicante, inoltre, rilevava che proprio in quanto sindacali, gli enti ricorrenti devono ritenersi in re ipsa forieri di un interesse proprio, ossia quello di agire giudizialmente a tutela del diritto di sciopero: espressione tipica dell’attività sindacale.

La legittimazione attiva, pertanto, nel caso di specie, sussiste e a nulla valgono le censure di controparte secondo cui le OO.SS avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza di riders iscritti alle loro organizzazioni e darne prova. Invero, la giurisprudenza nazionale è granitica nell’affermare che non è necessario che i soggetti portatori degli interessi lesi siano effettivamente parte alle associazioni che agiscono in giudizio. Del resto, l’autonoma fattispecie di legittimazione attiva prevista dal comma 2 dell’art. 5 d.lgs. 216/2003 è applicabile proprio quando è impossibile individuare in maniera diretta e specifica il soggetto o i soggetti portatori dell’interesse leso.

Quanto alla sussistenza o meno della discriminazione.

Secondo la nozione contenuta nell’art. 2 del d.lgs. 216/2003, la discriminazione si divide in diretta ed in indiretta; è diretta quando il comportamento determina ex se disparità di trattamento; la discriminazione indiretta, invece, è il risultato di un comportamento corretto in astratto, ma che determina in concreto una situazione di disparità perché destinato a produrre effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, che costituiscono il fattore di rischio della discriminazione.

Il giudice, inoltre, rammentava che quando si discorre di condotta discriminatoria in ambito lavorativo, deve essere applicata l’agevolazione probatoria prevista dall’art. 4, co. 4 d.lgs. 216/2003, con conseguente spostamento dell’onere probatorio e del rischio di provare l’inesistenza della discriminazione in capo al datore di lavoro. Ne discende che nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio l’attore ha soltanto l’onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione.

Ciò posto, il giudice riteneva che i sindacati avessero assolto tal onere, posta l’emersione in giudizio di elementi idonei a far presumere la discriminatorietà del sistema di accesso alle fasce di prenotazione delle sessioni di lavoro adottato da Deliveroo.

In particolare, in base all’istruttoria espletata, veniva confermato che il rider che avesse deciso di aderire ad uno sciopero, senza quindi cancellare almeno 24 ore prima del suo inizio la sessione prenotata, avrebbe potuto subire un trattamento discriminatorio, ossia avrebbe rischiato di veder peggiorare il suo ranking reputazionale e perdere posizione eventualmente ricoperta nel gruppo prioritario, con i vantaggi ad esso connessi.

Non veniva ritenuto degno di pregio quanto sostenuto dalla società, ossia che il predetto rider, onde evitare gli effetti pregiudizievoli della adesione allo sciopero, avrebbe dovuto solo cancellare con anticipo la sessione prenotata. Cosi opinando, infatti, sarebbe stato sostituito da un altro rider, annichilendo o comunque minimizzando quel danno economico connaturale alla funzione di autotutela coattiva propria dello sciopero[4].

Le medesime considerazioni venivano estese ai casi di mancata partecipazione alla sessione prenotata o di cancellazione tardiva della stessa per le altre cause legittime quali, ad esempio, malattia, handicap, esigenze legate alla cura di figli minori. Anche in queste ipotesi il rider era penalizzato, indipendentemente dalle giustificazioni della sua condotta. La piattaforma, infatti, né conosceva, né voleva conoscere i motivi per cui il rider cancellava la sua prenotazione o non partecipa ad una sessione prenotata e non cancellata, circostanza quest’ultima riconosciuta dalla stessa Deliveroo.

Ed “è proprio in questa “incoscienza” (come definita da Deliveroo) e “cecità” (come definita dalle parti ricorrenti) – argomenta il Tribunale di Bologna – del programma di elaborazione delle statistiche di ciascun rider che alberga la potenzialità discriminatoria dello stesso. Perché il considerare irrilevanti i motivi della mancata partecipazione alla sessione prenotata o della cancellazione tardiva della stessa, sulla base della natura asseritamente autonoma dei lavoratori, implica necessariamente riservare lo stesso trattamento a situazioni diverse, ed è in questo che consiste tipicamente la discriminazione indiretta.

Ma c’è di più.

In effetti, la società riconosceva come meritevoli di tutela (e quindi non incidenti negativamente sul ranking reputazionale del rider) due ipotesi di mancata partecipazione alla sessione prenotata: il caso dell’infortunio su turni consecutivi ed il caso del malfunzionamento del sistema; fattispecie che dimostravano tanto la materiale possibilità, quanto la concreta attuazione di un intervento correttivo sul programma che elaborava le statistiche dei rider; pertanto la mancata adozione, in tutti gli altri casi, dello stesso intervento correttivo era il frutto di una scelta consapevole dell’azienda.

Afferma il giudicante:In sostanza, quando vuole la piattaforma può togliersi la benda che la rende “cieca” o “incosciente” rispetto ai motivi della mancata prestazione lavorativa da parte del rider e, se non lo fa, è perché ha deliberatamente scelto di porre sullo stesso piano tutte le motivazioni – a prescindere dal fatto che siano o meno tutelate dall’ordinamento – diverse dall’infortunio sul lavoro e dalla causa imputabile ad essa datrice di lavoro (quale evidentemente è il malfunzionamento della app, che impedisce il log-in)”.

Tutto quanto sopra portava il giudice ad accertare la condotta discriminatoria della società, sussumendo il contegno descritto nella discriminazione indiretta: “dando applicazione ad una disposizione apparentemente neutra (la normativa contrattuale sulla cancellazione anticipata delle sessioni prenotate) che però mette una determinata categoria di lavoratori (quelli partecipanti ad iniziative sindacali di astensione dal lavoro) in una posizione di potenziale particolare svantaggio”.

Era, infatti, onere della società convenuta provare la finalità legittima della piattaforma, onus probandi che, tuttavia, quest’ultima non assolveva.

Le domande conseguenziali a quelle di accertamento: in particolare sulla domanda risarcitoria delle OO.SS.

Il Giudice, richiamando l’art. 28 d.lgs. 150/2011[5] che, tra gli altri, attribuisce il potere di condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale, insisteva sulla qualificazione della responsabilità civile nel caso di specie. Richiamato all’uopo l’arresto delle Sezioni Unite (Cass. nr. 16601/2017), che descrive con precisione la funzione polifunzionale del risarcimento del danno (dissuasiva o deterrente e sanzionatorio-punitiva accanto alla sua primaria funzione compensativa), segnalava altresì che la stessa Suprema Corte, in un altro precedente arresto, configurava la categoria di danni punitivi quale misura di contrasto della violazione del diritto eurocomunitario (Cass. SS.UU nr. 5072/2016). Nel solco della pronuncia da ultimo citata, il Tribunale di Bologna configurava il danno previsto dall’art. 28 d.lgs. 150/2011 quale danno di natura comunitaria con valenza sanzionatoria.

Si precisa, infatti, che l’art. 28 de quo trova applicazione anche nelle controversie disciplinate dal d.lgs n. 216/2003 – come quella del caso di specie – normativa quest’ultima che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 2000/78/CE.

In ordine all’autonoma azionabilità della domanda risarcitoria da parte dell’ente collettivo, il G.L. specificava, supportato dalla recente e già richiamata giurisprudenza di legittimità[6], che l’azione proposta dal sindacato, perché finalizzata a tutelare l’interesse collettivo proprio dell’ente esponenziale legittimato a farne valere la lesione, è dallo stesso legittimamente esperibile avendo questi la facoltà di chiedere il risarcimento del danno in proprio favore.

Per i motivi di cui sopra, il Giudice del Tribunale di Bologna, sezione lavoro accoglieva il ricorso accertando la natura discriminatoria della condotta di Deliveroo e condannando la società non solo a pubblicare a proprie spese, su un quotidiano prestabilito, la sentenza de qua, ma anche a pagare a favore degli enti sindacali una somma di denaro equitativamente determinata a titolo di risarcimento il danno.

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Note

[1]                    Art. 2. Collaborazioni organizzate dal committente: 1. A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali – comma così modificato dall’ art. 1, comma 1, lett. a), D.L. 3 settembre 2019, n. 101; Cass. Sez. Lav. 1663/2020, che, nel commentare la norma appena riportata, spiega: “Si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea. L’intento protettivo del legislatore appare confermato dalla recente novella cui si è fatto cenno, la quale va certamente nel senso di rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza – per l’applicabilità della norma di prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all’elemento della “etero-organizzazione”, eliminando le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così mostrando chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione”.

[2]                    Precedente formulazione: Art. 5. Legittimazione ad agire: 1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullita’, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui e’ riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio. 2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresi’, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Attuale formulazione: Art. 5. Legittimazione ad agire 1. Le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio (1)(2). 2. I soggetti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (2). (1) Così corretto dall’articolo 2, comma 1, del D.LGS. 2 agosto 2004, n. 256. (2) Comma modificato dall’ articolo 8-septies del D.L. 8 aprile 2008, n. 59.

[3]                    Corte di Cassazione nr.  19443 del 2018;

[4]                    ex multis cfr. Corte Cost. 62/124e Cass. 23552/2004, in relazione alla legittimità dello sciopero improvviso, cioè senza preavviso.

[5]                    Che afferma, in buona sostanza, che le controversie in materia di discriminazione di cui all’articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n.216, quelle di cui all’articolo 3 della legge 1 marzo all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, quelle di cui all’articolo 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67, e quelle di cui all’articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.

 

[6]                    cfr. Cass. nr. 19443/2018.

Sentenza collegata

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Caterina Camposano

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