ABSTRACT
Per quanto, finalmente, il Parlamento abbia messo mano sul Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali c’è da rilevare che ciò è avvenuto, con la creazione di un testo che non è indenne da critiche e commenti.
Vero è, che l’esigenza di emanare testi legislativi che tengano conto delle continue e repentine modificazioni, non solo delle leggi complementari ma, della stessa Costituzione e, non da meno, delle direttive e regolamenti comunitari, pone il legislatore nella non facile condizione di dover fare un grosso sforzo di coordinamento normativo.
Ciò che semmai stupisce, è la posizione assunta dall’ANCI (1), rispetto ad una novella giuridica effettivamente poco felice; sì da far cadere la “spada di Damocle”, sulla testa, già malconcia, degli operatori degli enti locali.
Per essere più chiaro, questa posizione isola dal contesto nel quale è collocato, il nuovo art. 7-bis del T.U. approvato con d. Lgs. 267/2000 arrivando così ad affermare, che due anni di accertamenti e, ciò che più conta, di introiti sanzionatori, sono destinati a disperdersi nell’oblio amministrativo.
Senza nulla togliere al valore di una simile interpretazione, vorrei proporne un’altra, personale, che tende a recuperare quante più risorse possibili, tenendo peraltro conto di un principio giuridico importante, quale che è quello della conservazione dell’atto amministrativo (2).
1. PREMESSA
Probabilmente, una prima considerazione da fare, riguardo all’argomento che vogliamo trattare, è di ordine etico. Mio malgrado, difficilmente riesco a sollevare questioni di diritto, se non passando per la porta stretta dell’etica giuridica, ovverosia del dovere del rispetto delle norme giuridica, in ragione di valori preesistenti le norme stesse. In fondo, a pensarci bene, l’effettività della norma è tanto più sentita quanto più prossima ai valori dell’etica è l’espressione giuridica della norma medesima.
Dunque, se è corretto affermare che è tramite lo Stato e le sue risorse (patrimonio pubblico), che si può ottenere il bene pubblico ovverosia quello che ogni cittadino tenta di raggiungere; è altrettanto corretto ritenere, che tra un interesse che porta vantaggio al singolo ed un interesse più ampio, che porta vantaggio all’intera comunità, è prevalente il secondo sul primo.
Già quando, vigenti gli artt. 106 ss. del T.U. 383/34 e con riferimento ai principi stabiliti dalla l. 689/81, la Cassazione ebbe modo di ritenere applicabile quello non derivante direttamente dall’art. 16 della l. 689 cit., quanto piuttosto quello che avrebbe evitato di «svuotare di efficacia dissuasiva la sanzione attraverso pagamenti ridotti in misura meramente simbolica» (Cass. Civ. 10128/2000) (3).
Altra questione su cui riflettere, è riconducibile alla effettiva portata dell’eventuale mancato introito dei proventi sanzionatori, derivanti dalle sanzioni pecuniarie applicate in vigenza dell’attuale T.U. n. 267, come prospettato dall’ANCI.
Quale addetto ai lavori di un piccolo (ma importante) comune rivierasco, sarei portato a credere che, in fondo, non hanno poi molto da perdere i comuni italiani, in conseguenza di un mancato introito di tali proventi. Del resto, buona parte delle regole locali – un tempo, completo appannaggio delle singole amministrazioni comunali, tanto che si trovavano in commercio regolamenti di polizia urbana tuttaltro che legati al singolo ente, quanto, piuttosto, alla geografia nazionale – sono oggi disciplinate dalla legislazione regionale o nazionale.
In certo qual modo, qualche amministratore locale, potrebbe avere interesse a far credere ai popri elettori, di capire fino in fondo le condizioni dell’elettorato locale e la “inefficienza” del sistema statuale, tanto da addivenire ad un “coraggioso condono”.
Ciò detto, noi non vogliamo fornire alcuna interpretazione speculativa o di comodo quanto piuttosto trovare una chiave di lettura che non vada nella direzione di sanare dei comportamenti che – non dobbiamo mai dimenticarlo – sono stati posti in essere, con l’evidente scopo di ottenere il vantaggio personale a danno di quello sociale.
2. CIÒ CH’È STATO È STATO…
…scordamoci u passato…
Un modo tutto italiano e non solo partenopeo di vivere la storia d’Italia, induce noi cittadini a superare gli eventi di ieri, dimenticandoli, quasi non sono mai esistiti.
I latini, invece, ci ricordavano che la storia è maestra di vita.
Se questo era vero per la storia delle “genti”, è senz’altro ancor più vero per il diritto: in certo qual modo, questo è il linguaggio della storia della società civile e giuridica.
Già di recente, ho avuto modo di sottoporre all’attenzione dei lettori, un breve excursus normativo relativo alle modificazioni apportate al R.D. 383/34 (4).
Qui, brevemente, vorrei riproporre, in forma schematica, quanto di più saliente ritengo essere avvenuto prima della recente aggiunta dell’art. 7-bis, nel corpo del testo unico n. 267 più volte citato.
Dunque:
– il sistema sanzionatorio previsto dal R.D. 383/34, trova fondamento negli artt. 106 ss. che prevedono, da un lato, la possibilità di stabilire delle sanzioni in misura fissa, da parte delle singole amministrazioni; dall’altro, la possibilità, per queste ultime, di irrogare, caso per caso, una specifica sanzione, che trova l’unico limite nel massimo prestabilito dalla legge (manca, quindi, il c.d. minimo edittale);
– l’entrata in vigore della l. 689/81, pone delle questioni di coordinamento tra norma previgente e norma vigente, il cui contemperamento determina la possibilità, per il trasgressore, di addivenire al pagamento in misura ridotta, secondo le modalità stabilite dall’art. 16 della legge citata ovvero il pagamento in misura fissa, per quelle ipotesi che le singole amministrazioni individuano specificatamente;
– l’entrata in vigore della l. 142/90 e le modificazioni apportate a questa dalla l. 265/99, non incidono in alcun modo sul sistema sanzionatorio del ’34. Ancora, la legge-delega n. 265, all’art. 31, comma 3, lett. a), indica, quale obiettivo programmatico del Governo, l’emanazione di un testo unico in materia di ordinamento degli enti locali, che tenga conto, del R.D. del ’34;
– il testo unico è approvato con d. Lgs. 267/2000 e, ciò che più conta, per quanto qui interessa, è che all’art. 274, comma 1, lett. a) è stabilito che sono o restano abrogate anche le disposizioni di cui al regio decreto 3 marzo 1934, n. 383.
3. INTERPRETAZIONI A CONFRONTO
Appare ora evidente che, se nella delega indicata nella legge n. 265, si fa’ riferimento ad un testo unico che deve tenere conto del R.D. n. 383; nel T.U. approvato con il decreto n. 267, si giunge addirittura alla sua abrogazione espressa. Volendo chiosare, è il caso di far notare che il legislatore delegato, nell’emanare la formula abrogatrice non dispone, in modo esplicito, l’abrogazione del R.D. 383/34, ma fa preciso riferimento alle sue norme, che “sono o restano abrogate”.
Ciò non è fatto di poca rilevanza, laddove si volesse (come in fondo si dovrebbe) leggere il contenuto di questo testo, coordinandolo e valutandolo in ragione della delega legislativa contenuta nella legge 265, dal quale deriva. Legge, quest’ultima, che va sì a riconfermare le abrogazioni di quelle norme già indicate dalla l. 142/90, ma a salvaguardia di quelle norme speciali che garantiscono efficacia alle disposizioni contenute nei singoli regolamenti dell’ente, ovvero, quelle che impongono ai cittadini locali di seguire specifiche condotte di interesse locale: del resto, la mancanza della sanzione, priva di efficacia qualsivoglia norma giuridica.
Come dire, una chiave di lettura assai più blanda, potrebbe far presupporre, da un lato l’abrogazione espressa del T.U. del ‘34 ma, dall’altro, la tacita vigenza delle norme relative all’applicazione ed alla entità delle sanzioni.
Considerazione, questa, assai marginale, che scaturisce da una lettura attuale, finalizzata ad un recupero delle sanzioni, nei termini precedentemente detti.
Ma altre considerazioni sono state fatte e, di queste, si deve tenere conto, prima di giungere ad ogni altra conclusione.
Considerazione comune a queste (che sono poi, per così dire, quelle più accreditate) è l’abrogazione anche degli artt. 106 ss. del T.U. n. 383. Dunque, che cosa applicare?
Una di tali scelte, ricade direttamente sulla l. 689/81 ovverosia, sulle sanzioni edittali generali, stabilite dall’art. 10. Ciò in ragione del fatto che, a rigore di quanto previsto dall’art. 1 della l. 689 cit. (c.d. principio di legalità), “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”. Dunque, non è il comune che può stabilire la misura della sanzione edittale, ma si deve far riferimento alla legge dello Stato che, non esistendo, è da ricondurre alla legge generale sulle sanzioni amministrative.
Il Min. Interno, con una propria risoluzione del 7 marzo 2001, ha stabilito che rientra nella generale autonomia relativa normativa dell’ente anche il potere sanzionatorio e, quindi, la possibilità di stabilire direttamente le sanzioni da applicare al caso concreto.
La conclusione del Dicastero appare, per certi versi, criticabile, se non altro perché sprovvista di una vera e propria esegesi normativa e, in certo qual modo, perché poco rispettosa della capacità autonomistica ed autarchica dell’Ente. Infatti, questo potere – secondo la citata risoluzione ministeriale – è ricondotto anche all’Ente locale in ragione del fatto che «le ipotesi da disciplinare sono, in molti casi, già regolate dalla legislazione speciale di settore (sic!)».
Venendo poi all’ultima delle autorevoli conclusioni, non possiamo non citare il Consiglio di Stato (5). Il massimo organo della giustizia amministrativa, in relazione ad un quesito formulato proprio dal Ministero dell’Interno, ha ritenuto di non accogliere l’ipotesi prospettata dal predetto organo esecutivo nella relativa nota interpretativa (6). Tutto ciò, senza però andare a pregiudicare l’attività della pubblica amministrazione e, quindi, punendo, in via residuale (ex art. 650 c.p.), ogni comportamento che abbia costituito, in concreto, violazione delle norme regolamentari dell’ente locale.
4. CONCLUSIONI
In conclusione, in tutta l’attività dei vari interpreti, organi del potere esecutivo e giudiziario, si riconosce un’evidente comunanza di intenti: quella di salvaguardare l’attività della pubblica amministrazione, in termini di accertamento degli illeciti e relativo procedimento sanzionatorio.
Del resto, “l’annullamento d’ufficio di un atto amministrativo, è atto discrezionale, non obbligatorio, il quale non consegue alla mera riconosciuta illegittimità dell’atto amministrativo, ma implica una comparazione tra l’intensità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo e quella dell’interesse pubblico alla conservazione dell’atto stesso, nonostante la sua riconosciuta illegittimità, al fine di evitare la turbativa di situazioni acquisite; tale valutazione va effettuata con riferimento al momento in cui si decide per l’annullamento, tenendo altresì conto dell’influenza che altri atti anteriori o posteriori a quello da annullare abbiano prodotto sui rapporti sui quali va ad incidere l’annullamento” (7).
L’esigenza di garantire in ogni modo la conservazione dell’atto e, dunque, di sottoporre a sanzione il trasgressore, è tanto sentita dal Consiglio di Stato, quanto la scelta di politica criminale da questi indicata è, evidentemente, contrastante con quella adottata dal legislatore (criminalizzazione di illeciti locali, a fronte di una generalizzata e generalizzante depenalizzazione dei crimini minori).
Ma del resto, lo abbiamo già detto, il legislatore delegante ha chiaramente indicato al legislatore delegato l’esigenza di dare garanzia all’applicazione delle sanzioni già previste nel T.U. del ’34: se dunque il delegato, nel dare corpo alla legge delegata, non ha espresso palesemente quella volontà, questa resta immanente nell’ambito del contesto normativo di riferimento, quale obbligo che non consente alcuna deroga legislativa.
Dunque, le conclusioni tratte dalla nota dell’ANCI non ci convincono pienamente (8), ed in ragione di ciò, proponiamo una lettura diversa dell’iter giuridico sin qui analizzato, nei termini che adesso andiamo ad indicare.
4.1 Ordinanze e regolamenti comunali
Quale che sia l’evoluzione d’ordine gerarchico dei regolamenti comunali nell’ambito dell’ordinamento giuridico dello Stato, resta fermo il fatto che nel linguaggio storico-giuridico, il termine ordinanza, indicava, in passato, atti di diversa natura ed efficacia ed aveva un significato generico ed imprecisato. Solo più tardi, molti di quegli atti che ricadevano nel termine omnicomprensivo d’ordinanza, sono stati individuati tecnicamente con un loro nome specifico: tra questi, i regolamenti, quali atti normativi di secondo grado (9).
Ne deriva che gli attuali regolamenti altro non sono che ordinanze in senso tecnico, la cui emanazione non appartiene all’organo monocratico dell’ente quanto, piuttosto, ad uno degli organi collegiali individuati dalla legge o dallo statuto dell’ente medesimo.
Dunque, mantenendo una nostra terminologia tecnica, si può affermare che, mentre il regolamento disciplina, in astratto, una data materia, ovvero individua un comportamento generico, l’ordinanza dà esecuzione concreta a questa regola, imponendo un obbligo specifico ad un determinato soggetto. In definitiva, l’ordinanza è lo strumento amministrativo mediante il quale è data esecuzione alla legge od al regolamento.
Certamente l’art. 7-bis del d. Lgs. 267/2000, come introdotto dall’art. 16 della l. n. 3/2003, nell’indicare la misura edittale della somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa indica, quale riferimento concreto, le violazioni delle disposizioni regolamenti comunali. Non si richiama il generico contenuto dei regolamenti, quanto piuttosto, e più specificatamente, le singole disposizioni in essi contenute, ovvero le norme che si debbono applicare in concreto.
Dunque, inevitabilmente, l’inosservanza di una ordinanza normale dell’Ente, riverbera nella violazione di una norma regolamentare dal quale il potere d’ordinanza promana.
Certamente è auspicabile una maggiore chiarezza normativa o, quanto meno, un’opportuna precisazione nel regolamento dell’ente, circa l’assoggettabilità alla sanzione prevista dall’art. 7-bis del decreto n. 267 citato, per la violazione alle ordinanze comunali. Solo una lettura tautologica, a parere di chi scrive, può portare l’interprete a proporre una diversa conclusione, se non addirittura, ad affermare l’inapplicabilità della disposizione citata, laddove il Parlamento o il Consiglio Comunale, non disponga diversamente.
4.2 VERBALIZZAZIONE PREGRESSA
Altra questione, attiene alla riscossione dei proventi sanzionatori.
Si pone un distinguo tra atto di accertamento in itinere e “verbale divenuto esecutivo”.
Sul piano dello stretto diritto, la distinzione suddetta potrebbe avere un senso compiuto. Al fine, però, di stabilire se e quando l’obbligazione derivante dall’accertamento della violazione è esigibile da parte dell’Ente, chi scrive non ha grosse perplessità al riguardo.
Infatti, quando il titolo è divenuto ormai esecutivo, senza che nulla sia stato opposto da parte di chi abbia interesse, il soggetto passivo è tenuto ad adempiere all’obbligazione del pagamento della sanzione prevista.
Se il verbale non è ancora divenuto titolo esecutivo o, per meglio dire, niente è stato opposto, da parte di chi abbia titolo (ex art. 18, l. 689/81) e non sia stata ancora emessa la relativa ordinanza-ingiunzione, quest’ultima può essere emessa, in conformità a quanto previsto dall’ordinamento vigente all’epoca dell’accertamento; se è già stata emessa ma, non ancora notificata, tale provvedimento potrà essere convertito in un altro conforme.
Se, infine, gli atti di accertamento sono ancora in itinere, è ben ovvio che il relativo verbale di accertamento sarà notificato, quanto all’entità della somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria, nei termini già detti. Se il verbale predetto è stato invece già notificato, sarà rinotificato un secondo verbale, in sostituzione di quello precedente.
Infatti, nell’applicazione delle sanzioni amministrative, non si applica la norma del favor rei prevista dall’art. 2, comma terzo del c.p., ma quella che resta soggetta al principio di legalità stabilito dall’art. 1, comma secondo della l. 689/81.
Il vero e proprio “oggetto del contendere”, verte piuttosto sulla (corretta o meno che sia) applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria esistente all’epoca del fatto e, dunque, è rimessa alla valutazione dell’eventuale organo giudicante adito.
A parere di chi scrive, quindi, ciò non giustifica, né può giustificare, un annullamento d’ufficio degli atti del procedimento sanzionatorio – esecutivi o meno che sono – da parte della competente amministrazione, potendo rilevare, tale circostanza, anche ai fini del giudizio della Corte dei Conti.
In definitiva, si può condividere l’opinione espressa nella nota dell’ANCI, laddove si afferma che «se il verbale è già divenuto definitivo, la sanzione dovrà essere pagata dall’interessato; diversamente, nel caso contrario, dovrà essere emesso un provvedimento di archiviazione degli atti». Sono invece convinto che giusta e legittima è la pretesa della pubblica amministrazione a sanzionare comportamenti ritenuti non conformi a quanto stabilito dal regolamento e dalle ordinanze che danno esecuzione a tali norme regolamentari. Si tratta piuttosto di stabilire, in relazione al momento dell’accertamento dell’illecito e della contestazione o notificazione degli estremi della violazione, quale tipo di sanzione andava applicata all’epoca del fatto e se e quando l’eventuale ricorrente abbia ragione di ritenere illegittima l’applicazione della sanzione medesima: ma tale valutazione, a parere di chi scrive, sfugge ad un provvedimento di archiviazione emesso per autotutela.
Note a margine:
(*)Ufficiale della Polizia Municipale del Comune di Forte dei Marmi (LU)
(1) Cfr. A. Ciccia, Due anni di sanzioni nel cestino, in “Diritto & Fisco” di Italia Oggi n. 25, del 11 marzo 2003. In modo più tecnico ma, sostanzialmente conforme all’indirizzo giornalistico, è la nota di indirizzo ANCI (pubblicata su Polizia Locale News n. 10 del 13 marzo 2003).
(2) L’amministrazione non perde il potere di ratificare un provvedimento qualora questo abbia già prodotto in tutto o in parte i suoi effetti, essendo prevalente l’interesse pubblico alla conservazione dell’atto. Consiglio Stato, sez. IV, 6 aprile 1999, n. 534 (DVD Juris Data di Giuffé, 1/2003).
(3) Diversamente, ogni violazione ai regolamenti comunali o alle ordinanze del sindaco, sarebbe stata punita con una sanzione amministrativa pecuniaria, pari a Lit. 8.000!
(4) Cfr. G. Fontana, Potere sanzionatorio dell’ente locale e sua evoluzione nella legislazione e nella giurisprudenza, in L’Amministrazione Italiana, n. 6/2002, pagg. 879 ss.
(5) Adunanza del Cons. St., sez. I^ del 17 ottobre 2001, n. 885/2001.
(6) Nota interpretativa n° 263/1-bis/11/l.142 del 7 marzo 2001
(7) T.A.R. Lombardia, 18 marzo 2981, n. 350 (DVD Juris Data di Giuffré, 1/2003)
(8) La nota ANCI citata in nota iniziale, conclude con i seguenti punti:
1) ORDINANZE SINDACALI: sarà necessaria l’approvazione, da parte del Consiglio Comunale, di un Regolamento per le Ordinanze sindacali” che stabilisca che la sanzione prevista dal nuovo art. 7 bis D.L.vo 267/2000, da euro 25,00 a euro 500, si applica anche alle violazioni delle ordinanze stesse;
2) VERBALIZZAZIONE PREGRESSA: se il verbale è già divenuto definitivo la sanzione dovrà essere pagata dall’interessato; diversamente, nel caso contrario, dovrà essere emesso un provvedimento di archiviazione degli atti;
3) COMPETENZA DEL DIRIGENTE: il Dirigente, a norma dell’art.107 del D.L.vo 267/2000, è competente in materia di provvedimenti amministrativi ex L. 689/81;
4) REGOLAMENTO SULLE SANZIONI: non potrà graduare l’importo che l’interessato avrà la facoltà di pagare in misura ridotta (sempre euro 50.00 entro 60 giorni dalla contestazione o dalla notificazione del verbale), ma potrà fornire indicazioni vincolanti (e quindi, anche, graduate nell’importo) al Dirigente per la somma da individuare in sede di ordinanza-ingiunzione.
(9) Cfr. M. Aimonetto, Le ordinanze del sindaco, MAGGIOLI EDITORE RIMINI, III Ed., pag. 21
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