Con il continuo spostare le udienze da parte della Corte Suprema indiana concernente l’affare dei due fucilieri della Marina Militare Italiana, si assiste a varie reazioni di ogni genere. Credo, da esperto di diritto internazionale e dell’UE, che si può seguire una linea guida sulle possibilità che potrebbero essere utili ai nostri governanti, che da due anni non sono riusciti a risolvere quest’assurda disputa tra due Stati sovrani – l’Italia e l’India –, forse per ragioni di negligenza oppure di scarso interesse nel sostenere la nostra politica estera oppure ci sono questioni commerciali di mezzo tra il nostro Paese e quello indiano.
Partendo dalla prima possibilità, è possibile far restare i due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, all’interno dei locali della sede diplomatica italiana, ubicata nella capitale indiana, Nuova Delhi, in modo che i due militari evitino di presentarsi al rendez-vous settimanale con le autorità di polizia per firmare sul registro, giacché le autorità indiane non hanno alcuna giurisdizione sulla questione e che solo il nostro Paese ha la piena titolarità ovvero la summa potestas (sovranità) sull’ambasciata. Facendo in questo modo, si finirebbe per creare un incidente diplomatico e non credo che le autorità di Nuova Delhi possano avere atteggiamenti come quelli avuti da parte delle autorità iraniane, quando occuparono l’ambasciata e la sezione consolare statunitense nel 1979, di invadere i locali della sede diplomatica italiana.
Si potrebbe giungere all’inasprimento dei rapporti amichevoli fra l’India e l’Italia e, quindi, alla concretizzazione della rottura delle relazioni diplomatiche, con la conseguenza di espellere l’intero corpo diplomatico italiano ad abbandonare il suolo indiano. Contrariamente, i due marò rimarrebbero all’interno dell’ambasciata sino alla soluzione della controversia.
La seconda possibilità consiste nell’attivare il c.d. arbitrato internazionale, strumento di soluzione pacifica delle controversie, che ha per oggetto il regolamento di liti fra Stati per opera di giudici di loro scelta e sulla base del rispetto del diritto e, in aggiunta, implica la volontà di assoggettarsi in buona fede alla pronuncia (Convenzione dell’Aia del 1907). Le condizioni per attuare tale arbitrato sono, in primis, l’esistenza di una disputa internazionale e, in secundis, la volontà di sottoporre la vicenda ad una istanza arbitrale. Quest’ultima può essere resa manifesta prima che della nascita della disputa attraverso una clausola compromissoria o altro mezzo ovvero nella speranza che i due soggetti di diritto internazionale – Italia e India – siano concordi.
Com’è ben noto, le autorità indiane vorrebbero applicare la Legge contro il terrorismo marittimo che contiene una clausola, la quale permette di deferire, a richiesta di parte, ciascuna disputa sull’applicazione oppure interpretazione ad arbitrato o alla Corte Internazionale di Giustizia. Il problema è che l’India, sebbene consentito dalla Convenzione, abbia apportato una riserva e che non è obbligata ad attenersi a tale clausola. Quindi, rimane l’iter procedurale arbitrale, presente nell’Annesso VII alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, del 1982, che è consentito applicare un via unilaterale. Solo che potrebbero manifestarsi alcuni intoppi, come, ad esempio, il fattore tempo, nel senso che, secondo la prassi, sono necessari circa quattro anni per giungere alla conclusione della procedura arbitrale. Sia ben chiaro che l’arbitrato internazionale potrebbe decidere sulla disputa fra India e Italia, il cui oggetto concerne l’esercizio della giurisdizione, ma non può sentenziare sull’eventuale responsabilità sul piano prettamente penale di Girone e Latorre.
Nelle memorie, l’arbitrato internazionale potrebbe, come mezzo temporaneo, disporre il rientro dei due fucilieri italiani in patria oppure affidarli a un terzo Stato. Dopo la confusione sulla licenza elettorale e la non eseguibilità dell’impegno a far rientrare nello Stato indiano il resto del gruppo dei marò, che si trovava a bordo della nave mercantile Enrica-Lexie, la vedo troppo arduo e non credibile.
In base alle motivazioni di merito, il lato saldo della difesa dell’Italia è rappresentato dall’immunità funzionale dei due organi militari e non dal fatto che l’incidente avvenuto nelle acque internazionali. L’arbitro internazionale, dovendo giudicare secondo la Convenzione di Montego Bay del 1982, potrebbe porre a un lato la problematica dell’immunità funzionale che, va menzionato, è una costruzione della dottrina internazionalistica, però non è oggetto di una convenzione internazionale ad hoc.
Chiaro che ci potrebbe essere l’opposizione delle autorità indiane, anche come tattica dilatoria, alla procedura dell’arbitrato, asserendo che non esiste una controversia internazionale e che le autorità italiane non si sono preoccupate di coltivarla, intervenendo nel processo dinanzi alle corti indiane.
La terza possibilità consiste nel difendersi nel processo e non da esso per far presente alle corti indiane che non può essere applicabile la norma antiterrorismo, e che l’India non ha giurisdizione e via discorrendo. Se dovesse essere emessa la condanna, e una volta che la sentenza sia divenuta definitiva, è possibile rendere in essere il Trattato Italia – India sul trasferimento delle persone condannate e chiedere che i marò siano trasferiti in Italia. Tale accordo è stato adottato con la legge n.183 dell’ottobre 2012, con cui il nostro Paese l’ha ratificato e data esecuzione. Tale trattato determina le condizioni per il trasferimento di un individuo condannato in uno dei due Stati per scontare la condanna ricevuta nell’altro Stato. Secondo l’accordo bilaterale italo – indiano, gli organi dello Stato ricevente sono tenuti a eseguire la condanna rispettando la natura e la durata della pena inflitta dalla sentenza dello Stato trasferente. Richiesta che, quindi, non è di automatica esecuzione ma resta soggetta a un accordo ad hoc tra i due Stati.
La quarta possibilità è di un’intensa iniziativa diplomatica, volta a un’efficace opera di supporto dei nostri alleati. È ben chiaro che la vicenda non deve essere impostata come una questione di diritti umani, ma di sovranità e difesa di chi è dedito alle missioni di contrasto alla pirateria. Qualcosa si è mosso in ambito Unione Europea e Nato, anche se con molto ritardo. Si sta valutando la strada di far intervenire il Segretario Generale delle Nazioni Unite, sebbene, ancora oggi, non abbia trovato il riscontro sperato.
La scelta della strada da perseguire è quella politica che dovrà essere messa di nuovo a fuoco dal governo italiano. Per rendere più concreta la propria azione presso le competenti istituzioni internazionali, le autorità italiane potrebbero, nel frattempo, presentare una convenzione internazionale che abbia come fine quella di disciplinare il personale armato (militari e contractor) imbarcati su navi mercantili a difesa degli attacchi compiuti da gruppi di pirati. Tale convenzione dovrebbe determinate che, dinanzi a incidenti in mare, la giurisdizione penale debba spettare unicamente allo Stato della bandiera su cui è imbarcato l’organo militare. La vicenda della nave mercantile italiana Enrica Lexie sarebbe considerata la migliore opportunità per una codificazione sul piano internazionale, come accadde nell’incidente della Lotus – il Lotus, vapore battente bandiera francese, entrò in collisione con un vapore turco, il BozTurk, la notte del 2 agosto del 1926, provocandone l’affondamento e causando la morte di otto persone che non riuscirono a mettersi in salvo – per disciplinare favorevolmente allo Stato della bandiera l’urto tra navi e altri incidenti della navigazione.
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