Discriminatoria la sospensione da Covid: riconosciuto risarcimento e restituzione della retribuzione

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Nuova sentenza del Tribunale di Firenze, del 20 novembre 2023 a firma della Dott.ssa Zanda, che accoglie il ricorso di un’infermiera: con la sospensione dal lavoro per mancata vaccinazione da COVID19 ha subìto atti di discriminazione.

Tribunale di Firenze – Sez. II Civ. – Sent. del 20/11/2023

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Indice

1. La vicenda

Il Tribunale fiorentino mette a segno un’altra importante decisione.
Con ricorso sommario ex art. 702 bis c.p.c., la dipendente lamenta di essere stata sospesa dall’azienda per mancata vaccinazione da Covid-19 a partire dal 02 settembre 2021. Al contempo, evidenzia, altresì, la violazione dell’obbligo di rèpechage in capo alla datrice di lavoro potendo adibire la lavoratrice anche a mansioni inferiori che non comportino il contatto con il pubblico o anche da remoto; e la mancanza di una forma di sostegno alternativa, dal momento che, dopo trent’anni di servizio, “si è vista all’improvviso privata dell’unica forma di reddito che le consentiva di vivere”.
Fra le doglianze al vaglio del Giudicante, spiccano, dal lato Ricorrente, l’incostituzionalità dell’obbligo vaccinale imposto; la pericolosità del siero vaccinale dimostrata da una lunga serie di articoli allegati alle oltre 50 pagine del ricorso; la normativa antidiscriminatoria sul luogo di lavoro; dal lato Resistente, l’incompetenza del giudice ordinario in luogo di quello del lavoro; l’attuazione della legge dello Stato che imponeva la sospensione dei dipendenti non vaccinati; la mancanza di un dovere verso il “non vaccinato alla creazione di una posizione lavorativa ad hoc con i costi economici che ciò comporta”; l’esclusione da parte della stessa Consulta di un assegno alimentare.

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2. Sospensione da Covid: la decisione

La pronuncia, in un lungo excursus normativo, accoglie la discriminazione sollevata, ritenendo applicabile al caso de quo la normativa sul lavoro di cui alla Direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000, recepita con D. Lgs. n. 216/2003, recante disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età, dalla nazionalità e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, prevedendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione.
Da qui, ne discende anche la propria competenza, per la materia di condotte discriminatorie di cui all’art. 28, comma 2, del D. Lgs. 150/2011 che, “trattandosi di disciplina speciale, posta a tutela di un interesse primario del nostro ordinamento, volto a contrastare gli atti e i comportamenti che impediscono il pieno dispiegarsi della persona umana, prevalente rispetto alle esigenze di carattere organizzativo poste a fondamento dell’accentramento della competenza presso un unico ufficio giudiziario”.
Orbene, per rispondere alla domanda se l’azienda abbia posto in essere condotte discriminatorie, “occorre verificare se le motivazioni del trattamento diseguale riservato alla convenuta rispetto ai colleghi, siano fondate”. Richiamata la documentazione prodotta, il Giudicante non ritiene che sia stata dimostrata “alcuna valida ragione per giustificare il trattamento sperequato”, dal momento che la normativa impositiva dell’obbligo vaccinale e le attestazioni ISS non solo configurano dati autoreferenziali, e dunque non assurgono a rango di prova, ma non dimostrano neppure l’efficacia alla prevenzione da Sars-Covid. In particolare, dalla “copiosa documentazione” si evince che la “vaccinazione anti-Covid non aveva la funzione indicata nel D.L. 44/2021” – da cui ha avuto origine la sospensione – e che “anche i vaccinati potevano trasmettere il contagio”. Nel dettaglio, procedendo ad una breve carrellata, si cita “il report dell’INAIL …. da cui si ricava che proprio i lavoratori della sanità tutti vaccinati, hanno la percentuale più alta di denunce per Covid…. Le denunce di infortunio …. sono il 63,2% del totale”. A ciò si aggiunge “una gran quantità di studi scientifici… danno evidenza di un’alterazione/riduzione della risposta immunitaria nei soggetti vaccinati sia rispetto al Sars Cov 2 che rispetto ad altri agenti patogeni e anche alle cellule tumorali, ciò che spiega il fenomeno del maggior contagio dei vaccinati e dello sviluppo anche della malattia severa della Covid 19 e di altre malattia anche autoimmuni, proprio per la disgregazione del sistema immunitario (v. i molti studi linkati nel ricorso)”. Di conseguenza, “i vaccini anti-covid, non solo non sono anti Sars Cov2 e cioè non impediscono la catena del contagio, ciò che è divenuto ormai un fatto notorio, ma non impediscono nemmeno la malattia severa, le ospedalizzazioni e i ricoveri in terapia intensiva…”.
Segue una lunga disamina dei numerosi studi pubblicati da riviste scientifiche; dei dati del Ministero in cui “non si parla mai della prevenzione dell’infezione da Sars Cov 2 ma della prevenzione della malattia Covid-19”; dei report dell’ISS non verificabili e non conteggiano le morti improvvise e le malattie che si verificano dopo i 14 giorni di osservazione; le dichiarazioni delle stesse case produttrici per cui “non sono stati fatti studi di genetossicità e cancerogenecità”, fino a poi concludere che i molti studi sull’argomento, fra cui quelli pubblicati su riviste autorevoli come Nature, “dimostrano la pericolosità dei vaccini per la salute pubblica… che dà conto di alterazioni del metabolismo glucidico, collegato, di alterazione dell’equilibrio elettrolitico, della funzione renale, e coagulativa, e della complessa alterazione del sistema immunologico con riduzione della risposta dell’interferone”, oltre ad un “serio rischio di cancerogenesi”, a cui vanno sommati quelli sui “danni cardiaci, le morti improvvise da fibrillazione ventricolare, miocarditi, ecc.”.
Alla luce di tali elementi, viene ritenuta pienamente legittima la scelta di autoderminazione in ambito sanitario, in considerazione dell’inefficacia e della pericolosità dei vaccini anti covid, per cui trovano luogo anche le scriminanti della legittima difesa o dello stato di necessità per salvare la propria vita, come riconosciuto in più occasioni da sentenze di merito.

3. Conclusione

L’azione promossa è risultata, pertanto, fondata.
A nulla vale la circostanza che l’Azienda si sia limitata ad applicare una legge dello stato e che “non avesse dolo o colpa; per questo tipo di illecito l’elemento soggettivo è irrilevante, dovendo il giudice accordare la tutela inibitoria immediata e risarcitoria anche se manchi il dolo o la colpa del datore di lavoro.”. Ne discende che, di fronte a condotte che hanno l’effetto di discriminare ed emarginare i lavoratori sulla base di convinzioni personali, orientamenti religiosi, opinioni politiche, tendenze sessuali, malattie o handicap, età, patrimonio, etc., il G.O. appresta la tutela contro la discriminazione in atto e disapplica la normativa.
Viene pertanto riconosciuto, oltre alla corresponsione del danno patrimoniale per la illegittima sospensione da lavoro, che si è rivelata eccezionalmente lunga, indeterminata, sproporzionata e irragionevole, anche il risarcimento del danno non patrimoniale, per aver subìto un trattamento diseguale rispetto ai colleghi, che si è tradotto in una emarginazione sociale e lavorativa, in cui la ricorrente è stata catapultata fuori dalla comunità lavorativa, senza mezzi di sostentamento, “con la pressione psicologica di spingere” la dipendente verso un trattamento non voluto, e ritenuto pericoloso e dannoso per la propria vita e salute.
Il dispositivo reca, pertanto, con una decisione innovativa, la condanna della resistente sia alle retribuzioni maturate a far data dalla sospensione che al risarcimento per il danno non patrimoniale sofferto a causa del comportamento discriminatorio, liquidato in €. 200,00 per ogni giorno di sospensione comminata.

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Cristina Malavolta

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