La Sesta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione (sent. 23 ottobre/13 novembre 2013 n. 1544 riv. 45622/13) ritorna sul tema della coltivazione e risolve il sempre attuale e travagliato quesito, relativo alla punibilità di questa condotta, nel senso di ritenere la stessa sempre e comunque illecita, pervenendo a tale risultato attraverso un giudizio che delega il giudice alla soluzione del paradigma dell’offensività della azione posta in essere.
Sostiene, infatti, testualmente il Collegio di legittimità che “spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta, ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”.
Da questa chiara premessa metodologica la Corte afferma che l’”offensività va ricercata ed individuata nella idoneità del bene a produrre la sostanza per il consumo, considerata in materia la formulazione delle norme e la <<ratio>> della disciplina anche comunitaria”.
I Supremi giudici, proseguono, escludendo che possa assumere rilievo, a fini decisori, “la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza” ed attribuiscono, così, invece, fondamento solamente alla “conformità della pianta al tipo botanico previsto ed alla sua attitudine …….a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente”.
La posizione assunta con la pronunzia in commento suscita non poche perplessità e critiche.
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Se, infatti, appare del tutto naturale che il concetto di offensività assuma carattere di paradigma fondamentale e centrale per valutare il livello di illiceità della condotta coltivativa, non si può essere affatto d’accordo in ordine al contenuto ed al significato che i giudici di legittimità riconnettono all’istituto in esame.
Appare, infatti, evidente la intrinseca ed irreversibile contraddizione in cui incorre la Corte.
I supremi giudici, infatti, operano una ingiustificata deviazione dalle premesse ermeneutiche evocate, (che presuppongono una verifica “in concreto l’offensività della condotta”) posto che, per converso e sorprendentemente, la sentenza circoscrive e riconnette l’attitudine funzionale a risolvere il problema dell’offensività, al solo esame della “conformità della pianta al tipo botanico previsto ed alla sua attitudine …….a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente”.
Appare dato assolutamente inoppugnabile che il giudizio in ordine alla configurabilità del concetto di offensività, riferito ad una particolare fattispecie, non possa venire ancorato solamente ad un parametro di carattere potenziale ed ipotetico.
Sarebbe questo, infatti, un modo di precedere che si pone all’esatto opposto di quel carattere di concretezza, evocato dai giudici di legittimità nella loro premessa.
In realtà, si deve ritenere che per configurare una situazione di offensività, sia necessario che “l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”, debba essere concreta ed attuale.
Vale a dire, quindi, che può rientrare nel segmento di offensività, evocato dalla Corte e collegato alla natura della pianta messa a dimora, solo una condotta coltivativa che, al momento in cui viene essa rilevata e verificata, si sostanzi in una crescita e maturazione della pianta, tale da potere derivare principio attivo.
La Corte, invece, adotta, nella fattispecie, un’interpretazione fortemente ed ingiustificatamente restrittiva.
Viene, così, anticipata, ingiustificatamente, la soglia temporale di perfezionamento della condotta coltivativa – penalmente punibile – già allo spuntare della pianta, senza che venga operato alcun tipo di verifica sulla reale, concreta e materiale capacità della stessa di produrre principio attivo drogante.
L’indirizzo riportato in sentenza privilegia, poi, inopinatamente, aspetti puramente potenziali (“conformità della pianta al tipo botanico previsto ed alla sua attitudine …….a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente”), che – contrariamente a quanto sostengono i Supremi giudici – risultano del tutto ipotetici ed introducono illegittimamente – a loro volta – una “aprioristica” presunzione di offensività penale di una condotta, pur in assenza, allo stato, di una prova dell’ipotizzato illecito.
In buona sostanza, la sentenza in commento sancisce la punibilità di un comportamento, utilizzando un criterio di pericolo puramente presunto, canone che apre prospettive giuridicamente inquietanti, posto che, ad avviso di taluno interprete, parrebbe sufficiente – per ritenere perfezionata la coltivazione – che dal seme piantato spunti un arbusto di minime dimensioni.
A tacere, inoltre, del fatto che qualche isolata pronunzia ha ritenuto, addirittura, perfezionato il reato in questione, già solo con l’atto di semina nel terreno del seme di cannabis.
Appare di tutta evidenza, che questo orientamento giurisprudenziale si pone in contrasto con quella comune esperienza logico-scientifica, che impone che un procedimento di maturazione vegetale, per potere sortire effetti di sorta o per potere permettere una vera produzione di un raccolto, debba pervenire a concreta conclusione del proprio ciclo, con la germinazione, non essendo ammissibile una valutazione meramente potenziale ed astratta.
L’indirizzo della Corte, siccome ispirato dichiaratamente e geneticamente al criterio della concreta “…offensività della condotta, ovvero (dell’) idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”, avrebbe, quindi, dovuto tenere in conto la, tutt’altro che remota, possibilità che ciascuna pianta ben possa – per i più svariati motivi (ad esempio difetti di coltivazione, condizioni climatiche avverse etc.) – non concludere il proprio processo di maturazione e, quindi, possa non dare concretezza a quella ritenuta idoneità a produrre principio attivo – peraltro, in pratica, meramente potenziale -.
Non persuade, quindi, un giudizio che si risolve in una valutazione che si proietta apoditticamente nel futuro (per cosiddire “ora per allora”).
E’ paradossale, infatti, che, proprio per evitare quella che viene definita (pg. 3 della sentenza) “evidente aprioristica negazione del criterio dell’offensività”, la Corte adotti un criterio speculare a quello che si intende eludere, informato alla aprioristica e presuntiva affermazione del criterio dell’offensività, incorrendo in un errore prospettivo di segno esattamente opposto.
Vi è, inoltre, da dire che ulteriore fonte di contraddizione si ricava dalla circostanza che i giudici di legittimità individuano come archetipi per il giudizio di idoneità del bene a produrre la sostanza per il consumo, “la formulazione delle norme e la <<ratio>> della disciplina anche comunitaria”.
Va, infatti, osservato a confutazione dell’assunto riportato in sentenza, che :
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da un lato, la norma di diritto interno (art. 73 comma 1 dpr 309/90) appare concepita in guisa da lasciare spazio ad un’interpretazione flessibile del concetto di coltivazione sanzionabile.
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Non è, infatti, causale che, sin dal 2009, con la nota sentenza del GUP di Milano, la giurisprudenza di merito1 ha assunto una posizione di totale contrasto con l’arresto di SS.UU. dell’aprile 2008, ammettendo, così, la reale possibilità di addivenire ad una equiparazione – anche sul piano della scriminabilità degli effetti penali – della coltivazione con la detenzione ad uso esclusivamente personale;
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da altro canto, la disciplina comunitaria, esattamente all’opposto di quanto sostenuto dalla Corte Suprema, con la decisione UE 2004/757/GAI ed all’art. 2 comma 1 lett. b), ha precisato che la coltivazione di piante dalle quali estrarre oppio, coca o derivati della cannabis venga sanzionata (ove di per sé non autorizzata), ove esse risultino essere in nesso di strumentalità rispetto ad una delle attività descritte alla lett. a) del medesimo comma 1.
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Appare, quindi, del tutto evidente che la modalità sistematica di possibile inserimento della coltivazione nel novero dei comportamenti illeciti, attuata esclusivamente con il disposto della lett. b), si accredita come chiaro esempio di deroga alla valutazione di irrilevanza penale, che caratterizza – pare indubitabilmente – la condotta in esame.
Il tenore letterale dell’articolo 2, infatti, non pare lasciare dubbi, in ordine al tipo di concezione al quale pare essersi ispirato il legislatore comunitario.
Egli, inequivocabilmente, ha sottoposto la sanzionabilità di tutte le condotte, ricomprese nel disposto del comma 1, alla sola ed unica condizione dell’esistenza di un nesso eziologico (o finalistico) che vincoli direttamente le condotte in esame ad altre già di per sé qualificate come illecite.
Non è, dunque, casuale che la struttura dell’art. 2 della decisione 2004/757/GAI dimostri di essere fortemente condizionata dal ruolo di centralità che riveste il consumo personale di stupefacenti, quale scopo successivo rispetto alla attività coltivativa.
Diviene, quindi, decisivo, per confutare efficacemente il ragionamento della Corte, richiamare il testo del comma 2° dell’art. 2, il quale contiene il principio che il fine del consumo personale di sostanze stupefacenti (nelle forme previste dalle legislazioni interne) assume un valore di causa di giustificazione rispetto alle condotte valutate come illecite ed indicate al comma 12.
Un serio tentativo di interpretazione testuale permette, invece, di sostenere che non solo le condotte di cui alla lett. a) [che effettivamente possono rientrare nella configurazione dell’esimente in parola] sono quelle, che, effettivamente ed unicamente, possono porsi in connessione finalistica con l’uso personale di stupefacenti (dunque, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l’importazione o l’esportazione di stupefacenti)].
Alle medesime sopra elencate condizioni si deve, infatti, aggiungere anche la attività di coltivazione, la quale può e deve rientrare nel contesto operativo dell’esimente ed acquisire, così, valore di non illiceità penale.
Si tratta di conclusioni di particolare rilevanza, in quanto le relative conseguenze non vengono circoscritte a mere petizioni di principio, ma sono destinate a produrre effetti, in ordine al sistema sanzionatorio, anche nei sistemi di diritto interno.
Ecco, quindi, smentita per tabulas la considerazione svolta dalla Corte.
Vi è, però, da aggiungere un ulteriore considerazione che involge il tema dell’offensività.
Reputa chi scrive, che circoscrivere e comprimere l’ambito di operatività del principio di offensività, esclusivamente alla “idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”, significhi conferire allo stesso una valenza assai limitata
Il principio di offensività trova, infatti, sua espressione nel brocardo nullum crimen sine iniuria e presuppone che non può “esservi reato in assenza di una lesione del bene giuridico che la norma tende a tutelare, con la conseguenza che il fatto materiale deve ledere o porre in pericolo il bene protetto”3.
In buona sostanza, questa concezione dinamica dell’offensività del reato, si oppone ad altra, la quale definisce il reato quale manifestazione di inosservanza dei profili precettivi contenuti nella norma penale.
In forza di una visione costituzionalmente orientata ed ispirata all’art. 25 Cost., (che regola anche il principio di stretta legalità) si deve, pertanto, privilegiare l’indirizzo che pone l’offensività sul medesimo piano di quei requisiti che costituiscono l’essenza del reato (condotta, evento e nesso eziologico).
Aderendo a questa impostazione, deriva, dunque, in punto di diritto, la conclusione che, in assenza di una vera e propria offesa al bene oggetto di protezione e tutela giuridica, si verifica l’inesistenza del reato per carenza di un requisito strutturale dello stesso.
E’ bene sottolineare che il bene giuridico presidiato dal T.U.Stup. 309/90 va pacificamente rinvenuto, in sintesi, sia nella nella difesa della salute dei cittadini, che assolve ad una funzione preventiva, sia nel contrasto con la diffusione della sostanze stupefacenti e psicotrope, che risponde ad una funzione eminentemente repressiva.
Calando tali premesse nella realtà governata dalla presente pronunzia, si percepisce, ictu oculi, l’angusto limite ermeneutico della posizione assunta dalla Corte di Cassazione, la quale, quindi, sembra omettere di considerare la vera funzione svolta dal principio di offensività.
Esso, infatti, “….svolge, all’interno del principio di legalità, una funzione garantista, facendo sì che l’offesa non coincida con la realizzazione del fatto tipico ma consenta di salvaguardare la realtà dell’oggetto giuridico e della sua offesa”4.
Prendendo la felice locuzione che precede come la linea guida, che permette di identificare la effettiva portata del principio di offensività, si deve osservare, in relazione alla fattispecie in esame, che il giudizio cui pervengono, in primo luogo i giudici di merito ed indi i giudici di legittimità, appare caratterizzato da un palese contrasto con il principio nullum crimen sine iniuria.
La Corte, in effetti, reputa che la semplice condotta di coltivazione di piante, da cui derivare sostanze stupefacenti, si configuri – già di per sé sola – come reato, siccome manifestazione della violazione formale del precetto normativo contenuto nell’art. 73 comma 1 dpr 309/90 (in relazione agli artt. 17 e 26).
Il Collegio di legittimità, quindi, disapplica e si pone in contraddizione, in maniera inopinata ed ingiustificata, rispetto all’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale prevalente, (ricordato in tema di offensività) e che richiede una vera e propria offesa al bene giuridico tutelato, il quale appare di indubbia estrazione costituzionale.
Volendo (e forse dovendo), invece, ispirare l’indagine in ordine alla effettiva struttura del principio della offensività a quella visione che, fra le due prima richiamate, affronta la questione in termini di maggiore completezza, si dovrebbe necessariamente considerare che una condotta di coltivazione, del genere di quella al centro della presente vicenda penale (dunque estremamente limitata e di carattere prettamente “domestico”), se sia provato che essa venga finalizzata alla produzione di sostanze destinate ad un consumo esclusivamente personale dell’agente :
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non attenta al bene giuridico della diffusività dello stupefacente, in quanto il prodotto ottenuto rimane nella sfera di utilizzo del singolo coltivatore-assuntore e da tale ambito strettamente privatistico non esula.
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Ci si trova dinanzi, quindi, ad un comportamento che si pone all’esatto opposto del metus che la legge intende prevenire.
Va tenuto – altresì – conto, che la scelta della autoproduzione a mezzo coltivazione, attesta la volontà dell’agente di sottrarre risorse economico-finanziarie al mercato criminale.
Chi coltiva, infatti, manifesta la volontà di non acquistare da coloro che operano illecitamente e diffondono deliberatamente ed illegalmente lo stupefacente a terzi;
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non attenta, inoltre, al bene giuridico della tutela della salute del cittadino per due motivi.
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Il primo motivo si rinviene nel principio per cui il singolo individuo può certamente autodeterminarsi e, dunque, disporre liberamente di sé (fumare, assumere alcol o seguire altri conclamati stili di vita negativi, costituiscono condotte insuscettibili di sanzioni).
Il secondo è, invece, dato dalla circostanza che lo stesso legislatore ha stabilito di non sanzionare penalmente il possesso a fine di consumo personale di sostanza drogante, con la espressa disposizione di cui al comma 1 bis dell’art. 73 dpr 309/90.
In coerenza con tali capisaldi, si impone, quindi, una rivisitazione critica e meditata di quell’impostazione, ormai superata, ed accolta da SS.UU. 28 aprile 2008, che ha negato che esistesse nella condotta coltivativa – a differenza della detenzione -, un rapporto di interazione diretta fra coltivatore e pianta (e/o prodotto), sostenendo una tesi che non trova riscontro alcuno nella quotidianità e che ha destato perplessità, peraltro, ignorate giurisprudenzialmente.
Si deve, pertanto, ritenere che l’offensività che caratterizza la condotta coltivativa, la quale determina – a cascata – la rilevanza penale dell’azione, richieda che :
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effettivamente, ciascuna pianta appaia idonea, non solo potenzialmente, ma anche anche concretamente, a produrre principio attivo in misura tale da suscitare un reale effetto drogante (si dovrà dunque tenere in debito conto l’effettivo stato di maturazione cui i vegetali sono giunti al momento dell’accertamento);
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la condotta del coltivatore si manifesti attraverso un numero elevato di piante poste a dimora, così chè risulti logico pensare che la funzione dell’attività – per le dimensioni ampie della coltivazione, che esorbiti il carattere domestico – non sia quella di soddisfare i bisogni di consumo del coltivatore stesso.
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A contrario, invece, un numero assai limitato di piante (anche per l’ipotesi che ciascuna di esse sia in grado di produrre THC) milita nel senso di apparire compatibile con un’originaria destinazione ad un consumo personale del prodotto ricavato;
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la modalità della condotta coltivativa siano assistite dall’utilizzo di particolari e sofisticati strumenti tecnologici, e non appaiano, invece, caratterizzate da quei profili rudimentali ed elementari che usualmente connotano la coltivazione domestica (invasamento della pianta, suo annaffiamento)
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i luoghi, ove la coltura della pianta avviene, non siano ubicati all’interno dell’abitazione od in pertinenze della stessa, cui abbia accesso solo il coltivatore, con preclusione all’ingresso di terzi, ma siano compatibili con un a tipologia di coltivazione su larga scala di carattere industriale od agricolo;
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il coltivatore non offra la dimostrazione di essere un assuntore di carattere non occasionale di derivati della cannabis.
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Ovviamente, non appare condizione obbligatoria che tutti gli indicatori sopra elencati convergano in senso sfavorevole, potendo apparire sufficiente che i più significativi di essi risultino orientati negativamente.
1E più recentemente il GUP di Udine ed il Tribunale di Ferrara
2La norma può sollevare alcuni dubbi metodologici, posto che
1. riunisce tout-court nell’ambito di applicazione della esimente anche attività (quali la fabbricazione, l’offerta, la commercializzazione, la distribuzione, la vendita, la consegna a qualsiasi condizione, la mediazione), le quali appaiono all’evidenza incompatibili con l’uso esclusivamente personale,
2. rinvia, inoltre, utilizzando una formula (“…consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali”), che appare piuttosto equivoca e che non tiene conto di realtà nazionali (ad esempio Grecia,Finlandia e Svezia) che, invece, puniscono anche la detenzione a fine di uso personale,
3. si rivolge – ed è ciò che maggiormente interessa ai fini della presente eccezione, anche a tutte le attività di coltura di piante da cui ricavare stupefacente, operando, così, una indebita ed illogica omologazione fra oppio,coca e cannabis.
3Cfr. Il principio di offensività tra contrasti interpretativi e progetti di riforma Articolo 7 febbraio .2008 (Luciano Moccia, Fabrizio Pensa) in www.altalex. Com
4Cfr. Il principio di offensività cit.(L.Moccia, F.Pensa) in www.altalex.com
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