Riferimenti normativi: artt. 1218, 1223, 2729, 2697, 2043 e 2059 cod. civ.
Precedenti giurisprudenziali: Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017; Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. Sez. 3, ord. 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704.
Fatto
La sentenza in commento trae origine da un ricorso promosso da un odontoiatra, con il quale veniva richiesta la cassazione della decisione di secondo grado della Corte di appello di Venezia, la quale aveva confermato la decisione di primo grado con cui il Tribunale di Venezia aveva condannato il medico a risarcire una paziente per i danni subiti a seguito di un intervento sanitario.
In particolare, la paziente si era rivolta all’odontoiatra per rinnovare un impianto protesico e quest’ultimo, dopo aver effettuato degli accertamenti diagnostici, le aveva fatto presente che sarebbe stato necessario un intervento chirurgico. A seguito dell’informazione ricevuta, però, la paziente rifiutava l’intervento prospettato e conseguentemente l’odontoiatra proponeva un trattamento non chirurgico, attraverso l’installazione di una protesi provvisoria. Acquisito il consenso della paziente, veniva eseguito detto trattamento e la paziente, qualche mese dopo, lamentava del dolore alla arcata superiore della bocca e cefalea. La paziente si rivolgeva quindi ad altri sanitari, senza però riuscire ad individuare la causa delle problematiche lamentate né a dimostrare che le stesse erano conseguenza dell’inserimento della protesi provvisoria. La paziente decideva, poi, di interrompere il trattamento terapeutico con l’odontoiatra, il quale pertanto non poteva procedere alla rimozione dell’impianto provvisorio e alla installazione di un impianto definitivo.
Poco tempo dopo, la paziente promuoveva un’azione giudiziaria nei confronti dell’odontoiatra, chiedendo la risoluzione del contratto per inadempimento di quest’ultimo e la condanna alla restituzione dell’importo di euro 7.274, che la paziente aveva corrisposto all’odontoiatra per le sue prestazioni, nonché il risarcimento dei danni subiti.
Il giudice di primo grado disponeva una consulenza tecnica d’ufficio, dalla quale emergeva che l’odontoiatra avesse svolto la propria prestazione nel rispetto delle leges artis e che non era possibile individuare con certezza la causa dei dolori e delle problematiche di cui la signora era afflitta; infine il consulente d’ufficio evidenziava che l’intervento eseguito dal medico costituiva la seconda miglior terapia per far fronte alle problematiche evidenziate dalla paziente (posto che la prima miglior terapia, cioè l’intervento chirurgico, era stato rifiutato dalla paziente). All’esito di detta consulenza, il tribunale di primo grado riteneva l’odontoiatra responsabile dei danni subiti dalla signora e lo condannava al risarcimento dei medesimi, quantificati in euro 9.504, poiché riteneva che il medico fosse stato imprudente nell’aver accettato la scelta della paziente di rifiutare l’intervento chirurgico (miglior pratica possibile) e di far eseguire il trattamento implantare (seconda miglior pratica) (mentre respingeva la domanda di risoluzione per inadempimento).
La sentenza veniva confermata dalla corte di appello lagunare e pertanto l’odontoiatra, come detto, ricorreva in cassazione, lamentando che i giudici del merito avessero violato le regole relative al riparto dell’onere probatorio nella responsabilità professionale medica.
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La decisione della Corte di Cassazione
La corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso promosso dall’odontoiatra, proprio in considerazione del fatto che i giudici lagunari hanno violato le regole in materia di riparto dell’onere probatorio nelle fattispecie di responsabilità sanitaria, per come costantemente applicate dalla giurisprudenza di cassazione.
Preliminarmente gli ermellini hanno ricordato che è possibile far valere in cassazione il vizio in cui sono caduti i giudici di merito, qualora essi abbiano attribuito l’onere di fornire la prova ad una parte diversa rispetto a quella sulla quale, invece, detto onere gravava effettivamente.
Ciò premesso, i giudici di cassazione hanno evidenziato come la sentenza di merito abbia ritenuto: (i) che l’intervento posto in essere dall’odontoiatra fosse conforme alle leges artis; (ii) che, nonostante la consulenza tecnica d’ufficio non avesse individuato le cause delle problematiche lamentate dalla paziente, ciò non potesse escludere la responsabilità del professionista, in quanto, poiché la terapia aveva avuto un cattivo esito, gravava sull’odontoiatra l’onere di dimostrare che le problematiche lamentate dalla paziente non erano a lui imputabili.
Gli ermellini hanno, poi, ribadito che, secondo pacifica giurisprudenza di cassazione, nei giudizi aventi ad oggetto la responsabilità medica sussiste un doppio nesso causale: uno riguarda l’evento dannoso e l’altro riguarda l’impossibilità per il sanitario di adempiere. A fronte di due distinti nessi causali, l’onere probatorio si ripartisce fra le due parti in causa: l’onere di provare il nesso di causalità tra l’evento dannoso e la prestazione sanitaria deve essere provato dal paziente danneggiato (il quale deve dimostrare che la condotta del medico è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno dal medesimo subito). La impossibilità di adempiere alla prestazione deve, invece, essere provata dal sanitario danneggiante. In altri termini, il paziente deve provare che la condotta del medico ha determinato l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, mentre il sanitario deve provare che si è verificata una causa imprevedibile e inevitabile che ha reso impossibile la sua prestazione.
In considerazione di ciò, gli ermellini hanno ritenuto che la mancata individuazione della causa vada a discapito del paziente nel primo caso e del medico nel secondo caso. In altri termini, qualora non venga individuata la causa del danno, sarà l’attore paziente danneggiato a non aver assolto l’onere della prova sul medesimo gravante; qualora, invece, resti incerta la causa dell’impossibilità ad adempiere alla prestazione, sarà il sanitario convenuto a non aver assolto l’onere della prova sul medesimo gravante.
In considerazione di ciò, la verifica in ordine alla dimostrazione, da parte del sanitario, della impossibilità di adempiere la prestazione medica, assumerà rilievo soltanto nel caso in cui il paziente avrà precedentemente dimostrato l’esistenza di un nesso causale fra il danno subito e la condotta tenuta dal medico. Pertanto, nel caso in cui il paziente non riesca a fornire tale prova e quindi risulti incerta la causa che ha determinato il danno, non sorgerà in capo al medico l’onere di dimostrare che la sua prestazione era impossibile e che quindi l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.
Ebbene, poiché nel giudizio di merito il paziente non è riuscito a provare che le problematiche lamentate fossero dipese dal comportamento posto in essere dal medico (essendo, anzi, le cause di dette problematiche rimaste del tutto incerte), la cassazione ha ritenuto che i giudici lagunari avrebbero dovuto rigettare la domanda di risarcimento della paziente. Conseguentemente gli Ermellini hanno cassato la sentenza impugnata e ritenendo di poter decidere direttamente la domanda della paziente, l’hanno rigettata.
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