La V^ Sezione penale della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 2299, del 20 gennaio 2016,
afferma che la querela è irrevocabile qualora il reato di “atti persecutori” (comunemente conosciuto come
“stalking”) sia stato realizzato con minacce gravi.
La vicenda riguarda un imputato condannato in primo grado per i reati di cui agli artt. 612 bis c.p. e 609 bis
c.p.; contestualmente il Tribunale dichiarava non doversi procedere per i reati di percosse, minacce e
lesioni, perché estinti per remissione di querela.
I Giudici d’appello, in parziale riforma, assolvevano l’imputato anche dall’accusa di violenza sessuale,
perché il fatto non sussiste, mentre confermavano la penale responsabilità dello stesso, con
rideterminazione della pena, per il reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p., posto in essere con
minacce gravi, che rendono irrevocabile la querela sporta dalla vittima.
Viene proposto ricorso per cassazione per due motivi: 1) violazione di legge sull’omessa declaratoria di
estinzione del reato per intervenuta remissione di querela (oggetto della nostra analisi) ; 2) violazione di
legge sul diniego delle attenuanti generiche.
L’imputato lamenta il fatto che, assolto in appello dal reato di violenza sessuale – per il quale si procede
d’ufficio, che, per connessione, rende procedibile d’ufficio anche il reato di cui all’art. 612 bis c.p. – il giudice
di secondo grado avrebbe dovuto dichiarare estinto anche quest’ultimo reato per effetto della remissione
di querela prodotta in primo grado dalla parte offesa.
Il reo sottolinea che, pur se reiterate, le minacce mai sono state esternate in uno dei modi indicati dall’art.
339 c.p.
Appare opportuno evidenziare che il legislatore ha previsto varie ipotesi di procedibilità del reato di
stalking, calibrate alla gravità della condotta. Detto reato è, di norma, procedibile a querela della persona
offesa e, come tale, rimettibile. La querela, invece, diventa irrevocabile se il fatto è commesso mediante
minacce reiterate nei modi di cui all’art. 612, secondo comma; mentre nella sua forma più grave, cioè
quando il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della
legge 104/92, si procede d’ufficio. Allo stesso modo si procede quando il fatto è connesso con altro delitto
procedibile d’ufficio.
Nel caso in esame, secondo l’imputato, la remissione di querela fatta dalla persona offesa avrebbe dovuto
condurre il Giudice d’appello a dichiarare l’estinzione anche del reato di stalking, essendo esclusa la
applicabilità del principio di irrevocabilità della querela perché la sua condotta, pur se reiterata (sul punto
l’imputato ha fatto piena ammissione), non si è mai manifestata in uno dei modi specificati nell’art. 339 c.p.
(con l’uso delle armi o di oggetti atti ad offendere, il travisamento o la riunione dei soggetti agenti, il ricorso
a scritti anonimi o a mezzi simbolici e l’avvalersi della forza intimidatrice di associazioni segrete, esistenti o
supposte).
Il ricorrente sostiene, ancora, che la sua condotta, pur se reiterata, non rientra neanche nella ipotesi di
minacce gravi di cui all’art. 612 , 2° comma, prima parte, c.p. (che richiede una specifica contestazione) e
che l’unica aggravante espressamente contestata è la relazione affettiva tra la vittima e il reo.
La Suprema Corte è chiamata a definire l’ambito di operatività del rinvio che l’art. 612 bis c.p. fa all’art. 612,
comma 2, c.p., cioè alla forma aggravata del reato di minacce.
E’ indubbio che le condotte che assumono le modalità indicate nell’art. 339 c.p., rientrino nella fattispecie
aggravata delle minacce; ciò vale anche per gli atti persecutori. Più articolata è la verifica della gravità delle
minacce espresse con modalità diverse da quelle sopra indicate e che possano caratterizzare il diverso
reato di atti persecutori.
A differenza che nel reato di cui all’art. 612 c.p., – in cui, con la minaccia di un danno ingiusto, si prospetta
alla vittima la lesione, contra ius, di un interesse giuridicamente rilevante – nel reato di cui all’art. 612 bis
c.p., la minaccia (o la molestia), cagiona alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero
ingenera un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto. Detto risultato, peraltro, è
l’effetto della reiterazione della condotta che deve essere tale da costringere la parte offesa ad alterare le
proprie abitudini di vita.
Costante è l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la gravità del male minacciato va accertata
avendo riguardo a tutte le modalità della condotta e, in particolare, al tenore delle eventuali espressioni
verbali e al contesto nel quale esse si collocano, onde verificare se, ed in quale grado, dette espressioni
abbiano ingenerato timore o turbamento nella persona offesa (tra le ultime Cass. pen., Sez. V, 9 maggio
2014, n. 19203).
In altre parole, dice la Corte di Cassazione, il Giudice di legittimità non deve accertare l’entità delle minacce
ai fini dell’attribuzione della penale responsabilità dell’imputato e della determinazione della pena –
valutazione già compiuta positivamente nei precedenti due gradi di giudizio di merito – ma deve verificare
se le modalità della condotta siano tali da allinearsi alla norma penale in tema di irrevocabilità della
querela.
Evidenzia, la Suprema Corte, che i contenuti della gravità delle minacce profferite, che qui rilevano sotto il
profilo della revocabilità della querela, “sono adeguatamente sottolineati nell’imputazione con riguardo sia
al tenore letterale delle espressioni intimidatorie” (ha più volte minacciato la parte offesa di volerla
uccidere in qualunque luogo essa si trovasse) che “al contesto in cui le frasi venivano formulate” (sia presso
l’abitazione che sul luogo di lavoro), tanto da incidere significativamente sulla libertà morale della vittima.
Invero, è lo stesso legislatore a valutare ex ante la “inopportunità di affidare interamente alle
determinazioni della persona offesa la perseguibilità del reato”.
Infatti, nei reati in cui la vittima può essere incisivamente condizionata da pressioni esterne, lo Stato
assume l’iniziativa penale, in una posizione intermedia tra la querela rimettibile e la procedibilità d’ufficio:
in concreto, una volta presentata la querela, questa non può più essere rimessa.
Inoltre, sostiene il Giudice di legittimità, dal rinvio che il comma 4 dell’art. 612 bis c.p. fa al 2° comma
dell’art. 612 c.p., non affiora alcun dubbio che esso non si limiti alle sole modalità di cui all’art. 339 c.p., ma
anche alle minacce gravi di cui al predetto 2° comma.
D’altra parte, continua la Cassazione, è indubbio che “se il legislatore avesse voluto fare riferimento alle
sole modalità indicate nell’art. 339 c.p., lo avrebbe fatto direttamente, senza un inutile e artificioso sistema
di rinvii”.
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