Stalking: la prova del danno psicologico secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione con recenti pronunce ha chiarito quali sono gli elementi grazie ai quali può essere provata la sussistenza di un danno psicologico in capo alla vittima di stalking.

Per approfondimenti si consiglia: Il reato di stalking

Indice

1. Il reato di stalking

Il reato di stalking (atti persecutori) è previsto dall’art. 612-bis c.p. (introdotto con d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 convertito in l. 23 aprile 2009 n. 38) il quale, al comma 1, dispone che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita“.
Si tratta di un reato abituale, procedibile a querela con un termine di proposizione della stessa di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale e questa è irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce gravi reiterate.
La reiterazione non deve avere un intervallo di tempo predefinito, ma sussiste anche quando le condotte “siano intervallate da un prolungato lasso temporale” (Cass. sent. n. 30525/2021) e “l’evento tipico della alterazione o cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa può essere anche transitorio, ma non occasionale” (Cass. sent. n. 17552/2021).
Come sopra enunciato, è necessario che vi sia, oltre alla reiterazione delle condotte: un perdurante e grave stato di ansia o paura della vittima; il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto; la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita.
Questi elementi non devono necessariamente coesistere ma, naturalmente, dovranno essere accertati.

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2. Le pronunce della Cassazione

L’ultima delle tante decisioni al riguardo della Suprema Corte (sentenza n. 36994 dep. 8 settembre 2023) è scaturita in seguito al caso di un soggetto che, secondo il capo di imputazione, con condotte reiterate, consistenti nel ricorso sistematico e strumentale a incessanti e infondate azioni giudiziarie proposte sia in sede civilistica che penalistica nei confronti di quattro persone, arrecava molestia alle stesse, costringendole a modificare le loro abitudini di vita, esponendole a continue spese processuali e a gravi ricadute sul piano dell’immagine personale e professionale, creando, in questo modo, un vero e proprio accanimento giudiziario.
Pur essendo stato assolto in primo e secondo grado, il Procuratore Generale ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che la Corte d’appello avesse commesso l’errore di accertare il danno psicologico delle persone offese attraverso un certificato medico, pur essendo il cambiamento delle abitudini di vita e lo stato d’ansia delle stesse ampiamente dimostrati anche attraverso diverse testimonianze.
La Cassazione ha sancito, riprendendo altri recenti orientamenti, che i certificati medici non sono l’unica prova dello stato di ansia e di turbamento, in quanto questa deve essere ancorata ad elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (cfr. Cass. sent. n. 6232/2023 – sent. n. 17795/2017).
Inoltre, “ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente” e, soprattutto, “non si richiede l’accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.) il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Cass. sent. n. 839/2021 – sent. n. 16864/2011).
Anche ai fini dell’individuazione del cambiamento delle abitudini di vita, la Cassazione ha sancito che “occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate” (Cass. sent. n. 10111/2018).
La giurisprudenza, dunque, è stata costante nel ritenere che non è necessaria una prova che accerti la sussistenza di un’alterazione psicologica (disturbi d’ansia, attacchi di panico, disturbo paranoide, etc.) in capo alla vittima di atti persecutori, ma è sufficiente accertare che la condotta dell’agente possa essere astrattamente idonea a causare questo tipo di danno.

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Riccardo Polito

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