- L’amministrazione pre – giolittiana.
Il primo periodo di vita dello stato unitario italiano si caratterizza per la sua “piemontesizzazione”. Piemontesi erano, infatti, lo schema organizzativo dell’amministrazione, la prassi del lavoro pubblico e i componenti la burocrazia stessa. La nuova amministrazione, così differente da quelle settecentesche, era nata in Piemonte con la legge Cavour del 1853 e rappresentò il modello da estendere a tutto il territorio del nuovo Stato unitario. Due i principi cardine del nuovo ordinamento: a) responsabilità ministeriale e b) uniformità amministrativa.
In realtà, al momento dell’unificazione nazionale, il sistema si rivelò poco burocratizzato dal punto di vista delle funzioni e molto burocratizzato nelle scelte organizzative, basato, come era, sul modello gerarchico – piramidale di derivazione napoleonica, con struttura ministeriale (nel 1861 i Ministeri erano otto). Ogni Ministero aveva un’uniforme scala gerarchica: direttore generale, capo divisione, capo di sezione, segretario (di diverse classi), applicato (di diverse classi) e volontario (il volontariato rappresentava un periodo di tirocinio gratuito presso l’amministrazione, requisito fondamentale per l’accesso al concorso pubblico). L’organizzazione del lavoro, invece, si caratterizzava per un’eccessiva frammentazione e parcellizzazione delle funzioni amministrative.
Comunque, in tutta la fase che va dal 1861 al 1880, il sistema amministrativo mantenne alcune caratteristiche dominanti: a) le dimensioni contenute; b) le funzioni ancora ridotte, tipiche di uno “Stato leggero”; c) la relativa mobilità interna (passaggi frequenti da un’amministrazione da un’altra) e l’accentuato scambio di esperienze professionali; d) un reticolo di regole interne non codificate e, spesso, lasciate alla discrezionale interpretazione dei capi degli uffici; e) l’osmosi tra politica e amministrazione, essendoci un’identità di fatto tra vertici politici e amministrativi, caratterizzati dalla stessa estrazione geografica, sociale, culturale e politica, tanto da essere spesso fungibili tra loro nei due diversi ruoli.
Il quadro dell’amministrazione italiana comincia a cambiare nei primi anni Ottanta, soprattutto con il venir meno dell’osmosi tra politica e amministrazione (nel 1876 la Sinistra storica era andata al governo; nel 1882 si era allargata la base elettorale). Ciò comporta una maggiore rilevanza della formazione del burocrate. Cessò la possibilità di percorrere la carriera amministrativa dal basso verso l’alto senza soluzione di continuità e si inserirono cesure orizzontali legate al titolo di studio. Si creavano, così, nel corpo della burocrazia, tre grandi fasce, corrispondenti a funzioni diverse (di concetto, di ordine e esecutive). Inoltre, accanto alla tradizionale burocrazia amministrativa, si sviluppa la burocrazia tecnica, sorta nell’ambito delle nuove funzioni legate all’espansione dello Stato ordinatore e organizzatore della società.
Con Crispi si assistette all’emergere della seconda generazione burocratica e al riassestamento del modello amministrativo postunitario. Le garanzie di legalità si traducono in regole di funzionamento dell’apparato; i controlli si irrigidiscono e le procedure interne si cominciano ad appesantire e ad allungare. Del resto la normativa Crispina, che fu prevalentemente amministrativa (è del 1889, ad esempio, la creazione della IV sezione del Consiglio di stato e l’introduzione della giurisdizione amministrativa), accrebbe enormemente i compiti dell’apparato esecutivo. Il rimedio fu trovato, oltre che nell’intensificazione del lavoro ordinario, nelle cd. assunzioni straordinarie. La crescita delle attività impose, anche, una standardizzazione dei comportamenti amministrativi. La pratica amministrativa veniva, ora, strutturata secondo moduli ripetitivi, simili in tutte le amministrazioni per tipi analoghi di attività. Nonostante l’ingente carico di lavoro, la macchina amministrativa, ancora negli anni Novanta rispondeva all’input ricevuto. Del resto, l’apparato crispino restava ancora contenuto nelle dimensioni, sebbene strutturato sulle direzioni generali istituite presso i Ministeri, in luogo dei precedenti segretari generali; il collegamento tra centro e periferia funzionava con una certa immediatezza; qualità dei burocrati e idoneità delle regole interne consentivano di fronteggiare i compiti inediti di uno Stato di fine secolo.
- 2. L’amministrazione giolittiana (1900 – 1914)
A differenza di altri paesi europei, in cui lo sviluppo dell’amministrazione coincide con l’unificazione politica, in Italia si assiste al cd. “decollo amministrativo” soltanto nel primo quindicennio del Novecento, periodo che si caratterizza per l’azione di governo di Giovanni Giolitti. Infatti, salvo la breve parentesi del governo Zanardelli (febbraio 1901 – novembre 1903), in cui, comunque, Giolitti occupava il posto di Ministro dell’Interno, il periodo 1901 – 1914 conobbe tre sole interruzioni al predominio giolittiano: a) la prima (fittizia) dal marzo 1905 al febbraio 1906, quando il luogotenente giolittiano Fortis assunse la presidenza, grazie al “passaggio di mano” del suo leader; b) la seconda, politicamente più rilevante, con il governo Sonnino (dall’8 febbraio 1906 al 29 maggio 1906); c) la terza rappresentata dal secondo ministero Sonnino (11 dicembre 1909 – 31 marzo 1910) e dal successivo governo Luzzatti (31 marzo 1910 – 30 marzo 1911).
Dopo la crisi economico – sociale, ma soprattutto politico – istituzionale di fine secolo, nei quindici anni di governo, Giolitti attua la sua opera di riforma non caratterizzandola con l’introduzione di imponenti leggi di mutamento dell’ordinamento precedente (come era accaduto nell’epoca crispina), ma incentratandola sulla cd. “administrative revolution”.
Così, nel periodo giolittiano emergono sei nuovi fenomeni, destinati a mutare la fisionomia dell’amministrazione italiana:
– Crescita delle dimensioni dell’Amministrazione (126.000 dipendenti pubblici nel 1891, 377.000 nel 1910: sarebbero stati 509.000 nel 1923). L’avvento di nuove politiche sociali da parte dei poteri pubblici, dapprima a carico soprattutto dei poteri locali (legge sulle municipalizzazioni del 1903) e poi direttamente ad opera dei ministeri, fu la causa scatenante della crescita amministrativa. Basti pensare a due momenti cruciali del nuovo interventismo statale: a) la legislazione per il mezzogiorno (con l’introduzione di amministrazioni speciali per la sua gestione) e b) l’assunzione da parte dello Stato di grandi servizi pubblici, precedentemente in regime di concessione ai privati (nazionalizzazione delle ferrovie, 1905) o il potenziamento e la modernizzazione di servizi già statali (le poste e i telegrafi). L’aumento delle funzioni dell’Amministrazione e, conseguentemente, la crescita delle sue dimensioni comportarono anche la crescita della spesa statale in rapporto al prodotto interno lordo (nel 1913 sarebbe stato del 14%, superando i dati dell’Inghilterra, della Francia e della Germania);
– “Meridionalizzazione” dell’amministrazione. L’amministrazione cambia nelle dimensioni, ma anche nella sua composizione. La burocrazia non proviene più dal Nord, come in precedenza, ma, quasi esclusivamente, dal Sud. Infatti, mentre nell’Italia settentrionale i giovani trovano sempre più sbocchi alternativi nelle attività legate al commercio e alla produzione, sviluppando le nuove professioni legate allo sviluppo economico, nell’Italia meridionale, la piccola e media borghesia, in prevalenza laureata in giurisprudenza, confluisce nelle carriere dello Stato, come sbocco professionale prescelto. Da un punto di vista sociologico, tale fenomeno comportò che la burocrazia espressa dalle regioni produttivamente più arretrate del paese si insediava nell’amministrazione, con la conseguenza che il sistema economico parlò i linguaggi del Settentrione, il sistema istituzionale quelli del Mezzogiorno;
– Modificazione delle funzioni. A differenza dell’amministrazione ottocentesca, che aveva garantito le funzioni essenziali (ordine pubblico, istruzione, difesa, rappresentanza all’estero, amministrazione della giustizia, opere pubbliche), l’amministrazione comincia ad esercitare funzioni sociali (si pensi ad esempio, la prima legislazione speciale per le aree depresse del Sud). La principale conseguenza di questa trasformazione fu che lo Stato dovette ripensare le modalità autoritative con cui sino ad allora aveva gestito le proprie funzioni, in quanto tali schemi non consentivano più di rispondere con efficienza di risultati alla nuova domanda sociale di servizi;
– Accentuazione del ruolo di mediazione sociale. L’amministrazione accentuò la sua caratteristica di “luogo di mediazione sociale” o “camera di compensazione degli interessi”, interponendosi nel conflitto tra gli interessi come filtro di composizione e selezione delle spinte contraddittorie dei vari gruppi sociali ed economici. Ovviamente il fenomeno era più vistoso nell’amministrazione economica, anche per le nuove “funzioni cd. industriali” attribuite allo Stato. In tali amministrazioni, infatti, si sviluppa la cd. “amministrazione per collegi”: come ausilio al Ministro nascono una serie di consigli e commissioni miste di funzionari ed esponenti dei vari interessi economici coinvolti nella decisione amministrativa. Questo nuovo ruolo dell’amministrazione, però, originò due conseguenze negative: a) il procedimento amministrativo si complicò ulteriormente per dar voce a tutti gli interessi; b) l’azione amministrativa si rallentò, per effetto di quella complicazione. In questo nuovo ruolo, comunque, l’amministrazione si erge a protagonista nella soluzione di conflitti tra interessi, in particolare nel suo potere di veto, cioè nella possibilità di intervenire sui processi decisionali al momento dell’applicazione della legge (è un nuovo atteggiamento amministrativo che porterà nei decenni successivi alla trasformazione da amministrazione “del fare” e della gestione ad amministrazione “del controllare” e della mediazione);
– Nuovo rapporto con la politica. La nuova relazione che si instaura tra politica e amministrazione è ben riassunta nella definizione che è stata data del giolittismo dagli storici come “progetto burocratico di governo”: Politica e amministrazione si incontrarono in età giolittiana in sedi riservate: le commissioni miste che vagliarono e spesso elaborarono le nuove legislazioni speciali (tutte le leggi giolittiane per il Mezzogiorno, ad esempio) ; la complessa realtà dell’amministrazione consultiva, e non solo nel Ministero dell’agricoltura, industria e commercio; gli uffici speciali che proliferarono accanto alle strutture tradizionali dei ministeri; le nuove personalità di vertice dell’amministrazione preposte ad uffici di diretta collaborazione dei Ministri (i gabinetti dei ministri e dei sottosegretari). L’aumento di potere dell’alta dirigenza amministrativa rappresentò in realtà il fenomeno più caratteristico dell’età di Giolitti. L’alta dirigenza ottenne nel corso dell’intero periodo un’ampia delega dalla classe politica nella gestione interna dell’amministrazione, traendo dal solido rapporto instaurato con la politica il doppio vantaggio di una crescita di influenza (con possibilità di avviarsi alla carriera politica) e di una significativa elevazione delle proprie retribuzioni. Del resto, questa “alta burocrazia”, dotata di eccezionale professionalità (forse la migliore che l’Italia abbia avuto in tutta la storia unitaria), dimostrò di sapersi inserire con grande competenza nei nuovi spazi che la legislazione di inizio secolo apriva alla discrezionalità amministrativa e nei nuovi determinanti ruoli di partecipazione all’esercizio della funzione di governo;
– nascita di un accentuato pluralismo amministrativo. Nel complesso, la struttura dell’amministrazione tradizionale rimase, nei primi anni del Novecento, apparentemente identica a quella del 1861. Il numero dei Ministeri era lievemente cresciuto: dalla scissione di quello dei lavori pubblici era nato il ministero delle Poste e telegrafi; il Tesoro si era distaccato dalle Finanze; era nato nel 1912-13 il nuovo ministero delle colonie; si era consolidato, dopo le oscillazioni iniziali, il grande Ministero economico dello stato liberale, l’agricoltura, industria e commercio. In realtà, il disegno organizzativo dell’amministrazione subisce mutamenti profondi, dovuti anche alla già accennata moltiplicazione delle funzioni. Nacquero allora le prime “amministrazioni parallele”: uffici speciali dotati di relativi margini di autonomia gestionale e finanziaria, creati via via per rispondere alle nuove esigenze “industriali” di cui si fa carico lo Stato o per coordinare politiche pubbliche di settore previste dalla nuova legislazione; aziende autonome sul modello delle Ferrovie (modello del 1905, soprattutto dopo la legge organica del 1907: un consiglio di amministrazione comprensivo di tecnici, ma presieduto dal Ministro; un direttore generale dotato di larghi poteri; una certa autonomia di gestione, sia pure nell’ambito di un bilancio presentato al Parlamento; controlli a consuntivo). Tali amministrazioni rappresentarono il rovescio della medaglia della burocrazia giolittiana, sempre più chiusa nel fiorente “formalismo giuridico”. Infatti, potendo contare sulla già accennata autonomia e sull’apporto di dirigenti di estrazione non burocratica, talvolta provenienti dall’impresa privata, le “amministrazioni parallele” sviluppano una cultura dell’efficienza amministrativa, dando vita ad una tendenza correttiva rispetto ai processi di burocratizzazione dell’età giolittiana. Nasce, perciò, un modello alternativo di amministrazione: amministrazione secondo lo scopo, di piccole dimensioni, caratterizzata da controlli ridotti al minimo e ispirata a “criteri industriali”.
Il “decollo amministrativo”, nelle sue componenti già evidenziate, provoca nel primo quindicennio del Novecento conseguenze dal punto di vista sociologico, istituzionale e dell’organizzazione dell’amministrazione.
Dal punto di vista sociologico, la principale conseguenza dei fenomeni descritti è l’acquisizione di consapevolezza da parte della burocrazia statale (il ceto degli impiegati) di essere la reale protagonista sociale del quindicennio, in quanto partecipante in via diretta allo sviluppo economico-sociale del paese (mentre era stata in una posizione secondaria nel processo di unificazione nazionale). Scomparsa la figura ottocentesca dell’impiegato ministeriale modesto e mediocre, rassegnato all’angusta dimensione della vita di ufficio, malpagato e poco considerato a livello sociale, il burocrate dell’età giolittiana si trovò a far parte dell’ascendente classe media urbana. Sintomatico l’emergere in quegli anni di questioni sociali legate alla nuova classe sociali, come, ad esempio, il problema della “casa agli impiegati”. Così, a partire dal 1907, nacquero a Roma, e in altre città, i primi quartieri burocratici, cioè intere aree fabbricabili destinate dalle nuove leggi sull’edilizia pubblica a divenire zone residenziali del nuovo ceto medio.
Dal punto di vista istituzionale, mutano gli equilibri tra le istituzioni.
Ruolo del Consiglio di Stato. – Nel “progetto burocratico di governo” giolittiano, il Consiglio di Stato ebbe un ruolo fondamentale. Infatti, dopo un difficile periodo di rodaggio a seguito della riforma del 1889, il massimo consesso amministrativo vide nel 1907 definitivamente perfezionate le sue funzioni. L’autorevolezza, insita già nel ruolo del Consiglio di Stato, fu rafforzata all’inizio secolo dalla presenza al suo interno di un numero sempre maggiore di anziani esponenti dell’eccellenza delle carriere burocratiche e da professori universitari di discipline giuridiche. Esempio di tale autorevolezza è rappresentato dalla giurisprudenza di quegli anni in materia di pubblico impiego, che, dando vita ai criteri ai quali il potere pubblico avrebbe dovuto attenersi perché la sua azione fosse considerata conforme al diritto, esercitò, seppure in via indiretta, una discreta attività di indirizzo sulle scelte dell’amministrazione.
Ruolo della Corte dei Conti. – Nel periodo giolittiano la Corte dei Conti accrebbe notevolmente la propria sfera di intervento, con un notevole incremento dei carichi di lavoro, sia per la competenza in materia di riscontro preventivo che consuntivo.
Da un punto di vista dell’organizzazione del lavoro nell’ambito del pubblico impiego, il decollo amministrativo comporta l’affermazione di tre distinti fenomeni conseguenziali:
predominanza degli amministrativi sui tecnici – Come già visto, la maggior parte della burocrazia italiana di inizio secolo proviene dal meridione e si caratterizza per una professionalità giuridico – amministrativa. Ciò comportò che gli studi di giurisprudenza divennero la base comune dell’alfabetizzazione burocratica. Così in tutti i Ministeri, nel quindicennio giolittiano, si assiste all’emarginazione delle carriere tecniche, anche attraverso norme che imponevano come requisito fondamentale per accedere ai massimi livelli dell’amministrazione proprio la laurea in giurisprudenza. Di tale emarginazione risentirono gli stessi corpi tecnici dello Stato (ad esempio, il Genio Civile), che videro ridimensionate le proprie funzioni e la propria professionalità tecnica dalle norme che impedivano ai tecnici di raggiungere il vertice delle direzioni generali, riservando le funzioni direttive supreme agli amministrativi;
nascita di un primo sindacalismo del pubblico impiego – Nonostante che all’inizio del Novecento la burocrazia statale italiana si presentasse ancora come un corpo fortemente compatto, anche da un punto di vista sociale, come già evidenziato, l’avvento del primo sindacalismo del pubblico impiego si struttura in una miriade di forme organizzative e associazioni (società, mutue, microsindacati). Le forme più diffuse per i dipendenti delle amministrazioni centrali erano le “associazioni dei centralisti”, ma soprattutto le “federazioni nazionali”. Queste organizzazioni, simili per struttura e finalità alle federazioni operaie di mestiere, in una prima fase, fecero proprie anche tematiche di carattere generale come la deburocratizzazione dello Stato, l’efficienza dell’amministrazione, l’adozione di nuovi moduli organizzativi. Successivamente ebbero per obiettivi i miglioramenti retributivi, la tutela dei dipendenti dagli arbitri gerarchici e la riforma degli organici. Il giolittismo seppe misurarsi con il fenomeno sindacale accettandone gli aspetti di riscatto economico e ammettendo di fatto anche la presenza di nuovi moduli organizzativi negli uffici, ma contemporaneamente contrastandone con forza gli aspetti di più diretta rivendicazione di potere;
nuova legge per gli impiegati. – Emblematica del doppio atteggiamento del giolittismo nei confronti delle rivendicazioni sindacali nel pubblico impiego è la legge 25 giugno 1908, n. 290 o legge Giolitti – Orlando (l’allora Ministro di Grazia e Giustizia), che fu accolta dall’opinione pubblica come una legge liberale, che, finalmente, interveniva a dettare regole certe sui diritti e i doveri dei dipendenti pubblici, e che, invece, fu definita dalle associazioni sindacali come “legge capestro”. Comunque, per la prima volta il rapporto di impiego con lo Stato trovava una sua fonte unitaria di regolazione, che, del resto, coronava, a suo modo, l’evoluzione che il rapporto di pubblico impiego aveva subito nei primi cinquanta anni dello Stato unitario. Da una parte ne uscivano confermati i tratti gerarchici della struttura amministrativa (punto sul quale Giolitti non aveva voluto cedere); dall’altra, però, si introducono i primi elementi di garanzia per il dipendente: 1) regole certe circa il reclutamento (di norma, per concorso pubblico); 2) modalità dell’avanzamento basate su un criterio misto (per anzianità e per merito); 3) enunciazione dei diritti degli impiegati (compreso quello di associazione).
- Dal periodo giolittiano al fascismo
Tra il 1915 e il 1918, durante la prima guerra mondiale, l’amministrazione italiana, proprio causa dell’eccezionalità gli eventi bellici, attraversò un periodo d’intensa trasformazione, sotto diversi aspetti:
– il passaggio dalle dimensioni di un apparato di proporzioni ancora ridotte a quelle di una grande burocrazia in espansione;
– il passaggio da un apparato che, comunque, era fortemente “governato” dalla politica ad amministrazione responsabile in proprio, chiamata a scelte pratiche sostanzialmente autonome (anche in virtù del conferimento dei pieni poteri nel proprio ambito, causato dagli eventi bellici cui si stava assistendo);
– il mutamento da una struttura tutto sommato uniforme e coerente ad un assetto organizzativo molto più variegato : si pensi, da un lato, all’esperienza dei Ministeri bellici (caratterizzati dalle dimensioni ridotte e dall’esistenza di campi di azione estremamente circoscritti), e, dall’altro, all’esperienza dei commissariati o degli uffici speciali (proliferati ovunque si imponesse l’esigenza di una maggiore efficienza di risultati);
– il rafforzamento del rapporto apparati burocratici ed economia, che già si era cominciato a sviluppare in alcuni settori dell’amministrazione giolittiana, e che comportò il proliferare dei modelli organizzativi alternativi, anch’essi apparsi timidamente già nel primo quindicennio;
– la rinascita delle elites tecniche (la cd. seconda burocrazia), sostanzialmente al riparo sia dalla politica sia dei controlli della burocrazia amministrativa e della Corte dei Conti.
Le principali conseguenze di questo mutamento e dell’epilogo del conflitto bellico furono un enorme incremento della spesa pubblica e una non prevista pervasività della legislazione di guerra, che, pur nascendo come legislazione di emergenza, aveva introdotto nell’ordinamento istituti, procedure e prassi che vi sarebbero rimaste ben oltre la conclusione del conflitto.
Nei concitati anni del dopoguerra, F. S. Nitti fu il primo politico a capire che bisognava mettere a frutto l’esperienza della guerra per organizzare l’economia e l’amministrazione in tempo di pace. Mentre sul piano economico egli mirava ad una forte modernizzazione del Paese al traino di interessi capitalistici forti, come, ad esempio, quelli dell’industria elettrica, sul piano della questione amministrativa, Nitti puntava ad un processo di deburocratizzazione del Paese (sua la formula “pochi e ben pagati”). Tuttavia, il nittismo fu sconfitto per la sua debolezza politica e i suddetti obiettivi non furono realizzati, eccezion fatta, per quanto attiene all’amministrazione, per la nascita dei nuovi enti economico – finanziari, caratterizzati per la presenza di un modello alternativo di organizzazione, per una personalità giuridica propria, per gli ampi margini di decisione riservati agli organi di direzione interna, per il numero ridotto di personale e la prevalente cultura tecnico – specialistica del personale.
- La burocrazia durante il fascismo.
Il fascismo, giunto la potere con un programma di radicali semplificazioni ereditato dal programma di Nitti, mise in cantiere tra il 1923 e il 1924, una serie di riforme (la cd. riforma De Stefani, dal nome del Ministro delle Finanze che la ideò) volte soprattutto a ridurre la spesa pubblica (principale obiettivo del primo governo Mussolini), rinunciando, invece, al progetto di politicizzare la burocrazia (“mettere il burocrate in camicia nera”) e limitandosi a ristabilire la disciplina gerarchica, alla quale la burocrazia sembrava completamente sfuggita negli anni del dopoguerra.
I capisaldi del progetto di De Stefani si possono così riassumere:
Accorpamento di alcuni Ministeri, attraverso le cd. “fusioni”: i dicasteri economici furono ridotti al solo Ministero dell’Economia nazionale; i due dicasteri finanziari furono riassunti nel solo Ministero delle Finanze; infine le Poste e i Telegrafi, il Commissariato per la marina mercantile e il Commissariato straordinario per le ferrovie furono raccolti nel nuovo Ministero delle Comunicazioni;
Eliminazione delle cd. “bardature di guerra” e, in particolare, soppressione dei ministeri minori nati durante il conflitto mondiale;
“Smobilitazione amministrativa”, cioè epurazione del personale esorbitante, seguita nel 1926 dal blocco totale delle assunzioni;
Creazione di un vero e proprio circuito tra le ragionerie centrali dei ministeri (la cd. “burocrazia della cifra”), poste per la prima volta sotto il controllo della Ragioneria generale dello Stato. Ciò contribuì a irrigidire la catena dei controlli, con ovvie conseguenze di rallentamento sul fluire dell’attività amministrativa;
Privatizzazione di alcuni servizi pubblici (ad esempio, i telefoni nazionali) e abrogazione del monopolio delle assicurazioni ramo vita previsto nella legge istitutiva dell’Ina del 1912 , nonché abrogazione della legge giolittiana che aveva previsto la nominatività dei titoli azionari;
riforma dell’ordinamento gerarchico delle amministrazioni, che veniva modellato sempre più sul modello militare;
nuova legge sullo stato giuridico dei dipendenti, per respingere definitivamente i primi timidi accenni di privatizzazione del pubblico impiego che si erano affacciati nel dopoguerra. Infatti, lo stato giuridico del 1928 (legge 17 maggio 1928, n. 1094) non si discostò dalla traccia delineata dallo stato giuridico giolittiano del 1907, ma, anzi, ne rafforzò i tratti autoritari dell’ordinamento. La manovra fu completata da un irrigidimento delle carriere con l’introduzione di tre gruppi A, B e C e l’istituzione di 13 gradi gerarchici.
Nel complesso la riforma De Stefani rinvigorì la burocrazia più tradizionale; infatti, basti pensare che, mentre i nuovi organismi nati per fusione faticavano ad accorpare le nuove e le vecchie funzioni, le vecchie direzioni generali, a seguito di una concorrenza sfrenata nell’accaparramento di competenze, assunsero dimensioni macroscopiche e notevole potere, contraddicendo vistosamente l’intento della riforma.
Del resto, i risultati della riforma apparvero contradditori già nel corso della sua realizzazione. Soprattutto nei mesi successivi alla crisi Matteotti e nel clima di rivincita estremista coincidente con la segreteria Farinacci, nel 1925, il fascismo più intransigente propose con forza il tema del giudizio sull’operato politico di De Stefani, collegandolo agli obiettivi mancati di fascistizzazione dello Stato e alla pretesa della Ragioneria di affermarsi come burocrazia guida, spodestando l’egemonia storica della burocrazia del Ministero dell’Interno (la burocrazia dei Prefetti).
Dagli esiti contradditori della riforma De Stefani e dalle reazioni fasciste successive si generarono una serie di conseguenze:
l’escalation della burocrazia della cifra aveva provocato una serie di tensioni interne agli stessi Ministeri, accelerando quel fenomeno che caratterizza l’ultima parte del regime fascista : la cd. “fuga dai Ministeri”;
il blocco delle assunzioni nel 1926 e la lunga stasi conseguente causarono da un lato un rapido invecchiamento della burocrazia e dall’altro il mancato rinnovamento politico e morale del pubblico impiego, per cui la cultura del personale restò quella dell’età liberale, facendo fallire, quindi, il proposito di creare una “burocrazia con la camicia nera;
nonostante la non “fascistizzazione” della burocrazia, tuttavia, il graduale inserimento del partito nello Stato si servì ugualmente del dipendente pubblico come strumento catalizzatore e conservatore del consenso; infatti, è vero che la piccola borghesia burocratica italiana rimase sostanzialmente estranea al processo di politicizzazione globale, ma è ugualmente innegabile che vi fu, in forme più o meno sincere, un’adesione dei pubblici dipendenti al fascismo, come sbocco naturale dei valori tradizionali di questo ceto medio;
Nel corso degli anni Trenta, non si registra alcun tentativo di riforma generale della pubblica amministrazione. Ci si limita a riformare taluni Ministeri e a crearne di nuovi (come, ad esempio, il Ministero dell’Educazione nazionale, il Ministero delle Corporazioni, il Ministero della cultura popolare, il Ministero dell’Africa italiana). La stessa legislazione sul pubblico impiego si caratterizza per interventi frammentari e di ridotta ambizione; la maggior parte, comunque, indirizzati ad una fascistizzazione obbligata, ma solo esteriore dei dipendenti (ad esempio, il passaggio delle associazioni dei dipendenti sotto il controllo del Partito nazionale fascista nel 1931; il requisito della tessera del Partito nazionale fascista per l’ammissione agli impieghi pubblici nel 1938; l’imposizione dell’uniforme agli impiegati nel 1938) oppure agli obiettivi della campagna demografica (ad esempio, nel 1937, il congedo straordinario per matrimonio e l’aumento di stipendio per la nascita del primo figlio). Pertanto, il pubblico impiego, oggetto nel decennio precedente di misure legislative autoritative, ma ambiziose (seppure spesso poco incisive), sembrava rientrare, negli anni Trenta, nei confini di una gestione ordinaria del quotidiano.
In questo clima di ordinaria gestione del settore amministrativo, tre fenomeni appaiono, invece, degni di nota, anche per le ripercussioni che presenteranno nella successiva evoluzione della storia amministrativa:
1) La nuova collocazione delle donne impiegate. – La legislazione degli anni Trenta inibì alle donne definitivamente e tassativamente gli impieghi implicanti esercizio di poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti o potestà politiche o che attenessero alla difesa dello Stato, dando, inoltre, alle amministrazioni la possibilità di stabilire nei bandi di concorso l’esclusione del personale femminile o i limiti entro i quali contenerne l’assunzione. Quindi, nel 1938 un decreto disciplinò l’assunzione di personale femminile negli impieghi pubblici e privati in senso ulteriormente restrittivo, fissando in un massimo del 10% rispetto agli organici la percentuale eventualmente disponibile per le donne;
2) Il governo dei direttori generali. – Dato che la legislazione degli anni Trenta dimostra che la politica non ha più velleità di invasione del settore amministrativo, il governo della burocrazia rimane delegato esclusivamente alle gerarchie amministrative, cui già era stato consegnato dalla mancata realizzazione della riforma De Stefani. In corrispondenza a ciò, i direttori generali, in cambio della rituale adesione al regime, assumevano un ruolo sempre più incisivo nel modello di governo di Mussolini, tanto da divenire una sorta di consiglieri del dittatore, partecipando spesso ad incontri e riunioni.
3) L’amministrazione per enti. – Mentre l’amministrazione dei Ministeri si irrigidiva nella staticità già descritta, la “fuga dall’amministrazione”, iniziata durante l’età giolittiana con le prime amministrazioni parallele, si approfondisce e approda a nuovi modelli di organizzazione del potere pubblico. Così, attraverso la gestione sapiente di un’elite di tecnocrati, si ottenne un importante effetto di indirizzo delle risorse e di sostegno all’economia. Tuttavia, il grande sviluppo dell’amministrazione parallela si ebbe dopo la crisi degli anni Trenta, quando la formula organizzativa dell’ente pubblico economico fu estesa, grazie soprattutto all’opera di Beneduce, anche alla gestione industriale, con la creazione dell’Imi nel 1931 e, soprattutto, dell’Iris nel 1933, configurando un nuovo modello di intervento economico con finalità pubbliche, ma con forme privatistiche. Il processo di entificazione riguardò, poi, altri settori (dalla previdenza e assistenza al credito, al turismo, allo spettacolo ecc.). pertanto, sotto lo Stato – monumento del regime, apparentemente monolitico e assoluto monopolista del potere, si assiste alla nascita di istituzioni minori, ognuna preposta ad una sua area di competenza, autonoma e dotata di capacità di autorganizzazione. Data l’importanza ricoperta da tali enti, si comprende il motivo per cui spesso gli storici hanno sostenuto che i vertici amministrativi degli enti furono per molti versi la vera burocrazia del fascismo.
- La “questione amministrativa” dagli anni ’50 alle riforme Cassese.
Gli anni ‘50 costituiscono una sorta di spartiacque per la politica della riforma amministrativa, che riceve una consacrazione ufficiale. Nel gennaio 1950 viene, infatti, costituito un apposito ufficio presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (affidato alla responsabilità di un Ministro senza portafoglio), poi denominato Ufficio per la riforma dell’amministrazione, antesignano dell’odierno Dipartimento della funzione pubblica.
Il nuovo organismo si sarebbe presto identificato con la figura del sottosegretario che ne ebbe dal 1951 al 1955 la responsabilità, Roberto Lucifredi. Accanto a lui ruotava un gruppo forte di una ventina di giovani funzionari. Questo pool cercò di trapiantare nell’amministrazione tecniche organizzative e metodi di lavoro della moderna scienza dell’organizzazione di matrice anglosassone: uffici di studio e di propulsione, analisi di costi e dei tempi di esecuzione amministrativa, corsi di formazione del personale, razionalizzazione delle tecniche di lavoro, ecc.
I temi erano già stati oggetto di isolati tentativi di taylorismo amministrativo negli anni ’20. Ora però venivano sviluppati con maggiore sistematicità, seppur in una sede in qualche misura “esterna” rispetto all’attività quotidiana dei ministeri. L’ufficio ebbe indubbiamente un ruolo importante, ma più sotto il profilo della elaborazione che non di quello delle realizzazioni, dove finì per soccombere di fronte alle forti resistenze. Lo stesso ruolo di spinta e coordinamento che una rinnovata Presidenza del Consiglio avrebbe dovuto assumere cozzava contro il processo di inarrestabile “feudalizzazione” dei ministeri, che una classe politica arrembante andava realizzando. Lucifredi era, comunque, riuscito a cogliere il nesso tra l’efficienza del settore pubblico e quella del settore privato, quali realtà confluenti nella sintesi del “sistema paese”. La sua opera mirava, però, a razionalizzare gli uffici in modo da rendere la loro attività semplice e rapida, ma sempre all’interno di un sistema rigido ed accentrato. I canoni della uniformità organizzativa e della gerarchia erano coerenti sia con il tipo di cultura personale di Lucifredi che con le scelte della classe dirigente dell’epoca. La stessa legge delega per l’emanazione delle norme relative al nuovo stato giuridico dei dipendenti statali risultò contraddittoria. Il successivo T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, fu assai meno incisivo di quanto si aspettassero i riformatori dello staff di Lucifredi, limitandosi a disegnare 4 carriere (direttiva, di concetto, esecutiva e ausiliaria), senza accogliere la proposta di introduzione del “grado funzionale”. Anche la prima parziale deconcentrazione di competenze dal centro alla periferia (l. n. 150/1953) fu operate senza alcun significativo trasferimento di funzioni agli enti locali.
Negli anni sessanta, il tema della riforma amministrativa si legò con quello della programmazione economica (cfr. le ipotesi elaborate dalla Commissione Medici), senza, tuttavia, approdare a risultati significativi. Il decennio successivo fu dominato dalla regionalizzazione e dall’avvento della dirigenza (d.P.R. n. 748/1972). Contestualmente, si affacciano nuovi modelli di amministrazione: quello del sistema nazionale (sperimentato per la Sanità), modello adespota che non vede al centro una struttura pubblica, creata per rendere un servizio, ma la funzione, intorno alla quale ruotano i diversi “livelli di governo”; quello della partecipazione, modello ispiratore della riforma degli organi collegiali della scuola.
Rinnovati studi furono avviati con le commissioni Giannini (1979-1981). Questa stagione vede il suo punto più alto nel “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato”, che evidenziava la necessità della convergenza sulla riforma di “politici, funzionari e sindacalisti”. Vi sono, sì, riforme parziali, accorpamenti e nuove istituzioni di Ministeri e aziende, una legge di soppressione degli enti inutili (la l. n. 70/1975), e una sull’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio (la l. n. 400/1988), ma il risultato è una pubblica amministrazione comunque sempre meno coerente ed efficiente, una “amministrazione in briciole”.
Negli anni ’80 si verifica la prima inversione della tradizionale tendenza all’espansione del sistema pubblico, con l’inizio del processo di privatizzazione dei grandi servizi a rete e delle aziende industriali in mano pubblica. Parallelamente, viene consacrata l’introduzione di meccanismi negoziali nel pubblico impiego (legge quadro sul pubblico impiego del 1983), primo passo verso la “privatizzazione” del rapporto alle dipendenze delle P.A.. Seguono le prime manifestazioni di quella crisi fiscale che porrà le premesse per le riforme Cassese.
- Le riforme del Ministro Cassese
Il primo programma generale di riforme amministrative della storia repubblicana è progettato, ma solo in parte eseguito, nel biennio 1993-1994 dai Governi Amato e Ciampi, con la regia e il fondamentale apporto del Ministro della funzione pubblica Sabino Cassese. Dopo le due grandi leggi amministrative del 1990 (la 142 sull’ordinamento delle autonomie locali e la 241 sul procedimento amministrativo), la razionalizzazione del settore pubblico avviene sotto l’incalzare dei gravissimi problemi originati dall’esplosione del debito pubblico, che rendono pericolosa qualsiasi dilazione nello sforzo di riequilibrio dei conti pubblici. Non a caso le norme varate con la l. n. 537/1993 – contenente una delega al governo di ampiezza inusitata – si iscrivono nel novero dei provvedimenti atti a riequilibrare la finanza pubblica.
L’azione governativa si sviluppa su tre “fronti”: impostazione di linee generali di razionalizzazione; aggiustamenti parziali in settori specifici, coerenti con il disegno generale; semplificazione di procedimenti tramite delegificazione. Le linee guida approntate possono essere sintetizzate in sette “slogan”:
amministrazioni più vicine ai cittadini;
decentramento;
amministrazioni con strutture più snelle;
amministrazioni meno costose e più comprensibili;
amministrazioni più efficienti;
controlli più efficaci;
amministrazioni più europee.
Il risultato più importante resta, però, quello della riforma del pubblico impiego e della dirigenza pubblica operato con il D.Lgs. n. 29/1993, testo che le riforme Cassese toccano soltanto per alcuni interventi correttivi. Nel nuovo impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni la contrattualizzazione del rapporto di impiego e la affermazione del principio di distinzione politica/amministrazione appaiono elementi essenziali per il conseguimento di decisivi recuperi di efficienza.
Il carattere tecnico dei Governi impegnati nell’opera di riforma non consentirà il necessario respiro alle iniziative intraprese nel biennio in esame. I risultati portati in porto saranno, comunque, non indifferenti, andando dall’introduzione delle carte dei servizi alla prima realizzazione di uffici di controllo interno, dai codici di stile e di comportamento per i pubblici dipendenti al riordino degli organismi collegiali, ecc. Soltanto il secondo tentativo degli anni novanta avrà il tempo di svilupparsi compiutamente, attraverso le cd. riforme “Bassanini”.
- Le riforme del Ministro Bassanini
Negli ultimi anni del ventesimo secolo, l’amministrazione pubblica italiana è investita da un processo riformatore di grande portata. Numerosi interventi legislativi — la legge delega 59/1997 (meglio conosciuta come «Bassanini»), le leggi 127/1997 e 191/1998 (dette Bassanini bis e ter), seguite dalle prime due leggi annuali di semplificazione (la n. 50/1999 e la n. 340/2000) e dal complesso dei conseguenti provvedimenti di attuazione — hanno realizzato un esteso conferimento di funzioni amministrative in favore delle Regioni e degli enti locali. La realizzazione del cd. federalismo amministrativo, ovvero federalismo «a Costituzione invariata» ha, conseguentemente, reso necessario un ampio riordino dell’organizzazione dell’amministrazione statale, accompagnato da una considerevole semplificazione dei procedimenti amministrativi e dalla complessiva riforma del sistema della regolazione.
Decentramento e semplificazione sono i temi più evidenti delle riforme.
Il ruolo stesso dello Stato, nel rapporto con le autonomie, è decisamente mutato. L’amministrazione diretta ha ceduto il passo alla funzione di indirizzo e coordinamento. Le relazioni con le Regioni e gli enti locali sono improntate non più alla direttiva quanto, piuttosto, alla cooperazione attraverso la negoziazione. La modernizzazione passa per la trasformazione dell’amministrazione dello Stato in un’amministrazione leggera, di “core business“. La concentrazione delle risorse dello Stato sulle funzioni essenziali si sviluppa secondo due processi.
Il primo, sotto il nomen di sussidiarietà orizzontale, opera, a sua volta, su due direzioni:
– attraverso la rinuncia a produrre direttamente utilità e beni pubblici quando ciò possa essere svolto dal mercato in maniera più conveniente;
– attraverso il particolare favor riconosciuto a famiglie, associazioni e altre formazioni di base per l’assolvimento di funzioni e compiti di rilevanza sociale.
Ai pubblici poteri resta il compito di dettare regole e standard (rafforzamento dello Stato regolatore rispetto allo Stato gestore).
Il secondo processo, sintetizzato dalla formula della sussidiarietà verticale, si concretizza, invece, nel principio che, a parità di condizioni di adeguatezza amministrativa, la responsabilità di una prestazione ricada sull’ente più vicino al cittadino. L’introduzione di tale principio nell’ordinamento italiano è strettamente connesso con il capovolgimento della regola per la quale agli enti «minori» spettano le competenze loro riservate dalla legge. Il principio è adesso l’inverso: è allo Stato che spettano solo le materie che la legge gli riserva; tutte le altre spettano alle Regioni ed agli enti locali.
Alla delega al Governo per il riordino della struttura amministrativa statale e degli enti pubblici nazionali è seguita la più grande riforma amministrativa del dopoguerra, paragonabile per entità soltanto alla «riforma De Stefani» del 1927, ma ad essa superiore se si considera che il riordino dei ministeri adottato è la prima legge organica sulla materia dopo la legge Cavour del 1853 (l. n. 1843/1853).
I decreti delegati hanno razionalizzato l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri (D.Lgs n. 303/1999); hanno riordinato i Ministeri (D.Lgs. n. 300/1999), riducendone il numero e generalizzando un modello organizzativo basato su dipartimenti e agenzie (strutture, queste ultime, a loro volta deputate a garantire peculiari ambiti di autonomia per lo svolgimento di compiti tecnico-operativi); riorganizzato, fuso o soppresso le amministrazioni centrali ad ordinamento autonomo, le aziende di Stato e gli enti pubblici nazionali; riformato i meccanismi di controllo, puntando sulla verifica dei risultati (D.Lgs. n. 286/1999); riorganizzato gli organi periferici delle amministrazioni centrali, trasformando le Prefetture in Uffici Territoriali del Governo; realizzato la “seconda privatizzazione” del pubblico impiego, a completamento dell’opera di omogenizzazione del lavoro pubblico con quello privato.
Con la l. n. 59/1997 viene, inoltre, sancito di avvalersi, per conseguire generali obiettivi di semplificazione, di un apposito strumento legislativo a cadenza annuale, superando così la prassi delle delegificazioni disposte “a grappolo” da leggi di carattere intersettoriale (cfr., ad es., la l. n. 537/1993) ovvero da leggi di riforma di singoli settori. La legge 8 marzo 1999, n. 50, prima legge annuale di semplificazione, istituzionalizza anzi il rilievo del tema della regolazione di qualità (“better regulation”), attraverso una maggiore stabilità e “visibilità” dei processi di attuazione della relativa politica governativa (la semplificazione assurge, così, al rango di vera e propria strategia complessiva di governo della regolazione). Le nuove soluzioni corrispondono ad alcune delle principali raccomandazioni dell’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (cfr. la Recommendation on Improving the Quality of Government Regulation del 1995, l’OECD Report on Regulatory Reform del 1997 e la Review cui si è sottoposto recentemente il nostro paese), ed inseriscono l’Italia a pieno titolo nello sforzo internazionale verso una regolazione di qualità.
- Le riforme della giustizia amministrativa.
La struttura fondamentale del sistema italiano di giustizia amministrativa è stata delineata da due leggi della seconda metà dell’ottocento, la n. 2248/1865 (all. E) e la n. 5922/1889.
La prima abolì il sistema del contenzioso amministrativo (di stampo francese) e, in conformità al principio liberale di separazione dei poteri, istituì una giurisdizione unica per le controversie con la pubblica amministrazione relative a diritti soggettivi, devoluta al giudice ordinario. Al contempo, venivano tracciati i limiti di tale giurisdizione nei confronti degli atti della P.A., precludendo al giudice ordinario l’annullamento o la modifica degli atti amministrativi lesivi di diritti.
Con la seconda legge fu, invece, istituita la IV sezione del Consiglio di Stato, fino ad allora organo prevalentemente consultivo. Al nuovo giudice amministrativo fu attribuita una giurisdizione di legittimità per l’annullamento di atti amministrativi viziati da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, lesivi di “interessi di individui o di enti morali e giuridici”, di seguito definiti interessi legittimi.
Successivamente, la legge n. 62/1907 estese, per un numero limitato di materie, la cognizione dei giudici amministrativi anche al merito. Il r.d. n. 2840/1923 introdusse, poi, la giurisdizione esclusiva: in deroga al criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla natura della posizione soggettiva (diritto soggettivo o interesse legittimo), furono devolute alla cognizione del giudice amministrativo intere materie, tassativamente indicate, prima fra tutte quella del pubblico impiego.
La Costituzione repubblicana ha recepito la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi (artt. 24 e 103); ha lasciato al legislatore la scelta degli organi giurisdizionali competenti ad annullare gli atti amministrativi (art. 113); ha previsto l’istituzione di organi giurisdizionali amministrativi di primo grado in ogni regione (art. 125). Questi ultimi sono stati istituiti solo nel 1971 con la legge n. 1034. La legge n. 186/1982 ha, invece, dato vita al Consiglio di presidenza della magistratura amministrativa, organo a garanzia dell’indipendenza dei giudici amministrativi. Il costante apporto della giurisprudenza e della dottrina si è, parallelamente, rivelato essenziale nell’adeguare i principi legislativi in materia di giustizia amministrativa alle trasformazioni ed evoluzioni della pubblica amministrazione del nuovo stato democratico, limitando, in particolare, forme di tutela privilegiata dell’amministrazione e favorendo strumenti e regole che garantissero una protezione effettiva agli interessi degli amministrati.
La maggior offerta di giustizia decentrata, conseguente alla istituzione dei Tribunali amministrativi regionali, ha agito da volano dell’aumento del numero di ricorsi, cresciuti già di otto volte nel giro dei primi sette anni di funzionamento dei Tar. Fattori concorrenti ad innescare la crisi della giustizia amministrativa si sono, altresì, rivelati il generale peggioramento dell’azione amministrativa e la accresciuta litigiosità dei cittadini, non compensati da proporzionali aumenti del numero dei giudici. I tempi delle sentenze di merito dei Tar e del Consiglio di Stato hanno cominciato a contarsi, di norma, ad anni. Nel 1998 si è giunti a sfiorare gli 890.000 ricorsi pendenti, mentre le cause decise in primo grado sono state 52.000 e 11.629 in secondo grado, numeri lontani da qualsivoglia media europea.
Una riforma del processo amministrativo, ormai improcrastinabile, è stata, alfine, realizzata dalla legge n. 205/2000, che conferma, razionalizza e stabilizza una serie di innovazioni introdotte negli ultimi anni, aprendo prospettive di sviluppo del processo amministrativo nella direzione di una effettività più piena e di una paritarietà delle tecniche di tutela impiegate dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario rispetto a situazioni giuridiche soggettive di consistenza identica.
La l. n. 205/2000 ha così consacrato e dato definitiva sistemazione a due importanti novità legislative e giurisprudenziali già emerse, e cioè:
il D.Lgs n. 80/1998, che, dopo aver sgravato il giudice amministrativo di gran parte del contenzioso del pubblico impiego (concretizzando la devoluzione al giudice ordinario di cui al D.Lgs. n. 29/1993), ha introdotto una nuova disciplina del processo in materia di servizi pubblici, urbanistica e edilizia (artt. 33 e ss.), disciplina che va ben oltre la semplice previsione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva. Il D.Lgs. n. 80 si è spinto, infatti, a delineare una competenza di giurisdizione piena, comprensiva anche del profilo attinente al risarcimento del danno, tradizionalmente riservato al giudice ordinario. La nuova disciplina della giurisdizione in materia di pubblici servizi è, però, stata oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale (la n. 292/2000), che ne ha dichiarato l’incostituzionalità per eccesso di delega. Nel novellare gli artt. 33, 34 e 35 del D.Lgs n. 80, la legge n. 205/200 ha, così, offerto la copertura legislativa necessaria a prevenire una falla del sistema;
La sentenza delle sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500/1999, che, da un lato, ha travolto il muro della irrisarcibilità del danno da lesione degli interessi legittimi; dall’altro ha inciso sulla cd. pregiudizialità necessaria, prospettando la tesi che l’azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi possa essere esperita direttamente innanzi al giudice ordinario, che può conoscere in via incidentale e disapplicare il provvedimento illegittimo, rendendo così superfluo in molti casi l’annullamento del provvedimento. La legge n. 205 ha offerto anche qui una base legislativa alla svolta operata nel diritto vivente sugli interessi legittimi, chiarendo che il giudice amministrativo “nell’ambito della sua giurisdizione [senza distinguere tra competenza esclusiva e competenza generale di legittimità] conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e altri diritti conseguenziali” (art. 7, comma 4).
Sulla scia del D.Lgs n. 80/1998, la legge 205/200 ha confermato la tendenza verso l’ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e la sua trasformazione in una giurisdizione non già per sommatoria (tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi) bensì piena o per materia (che appare il vero criterio emergente di riparto con il giudice ordinario). Il principio di concentrazione della tutela (che consente al ricorrente di proporre innanzi ad un unico giudice tutte le azioni necessarie per garantire una tutela completa delle situazioni giuridiche fatte valere) viene, anzi, attuato anche rispetto alla tradizionale giurisdizione di legittimità, grazie alla possibilità di far valere dinanzi allo stesso giudice l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo e quella di risarcimento della lesione dell’interesse legittimo.
Coerentemente con tale complessiva impostazione la legge n. 205 realizza, fra l’altro:
– in sede di giurisdizione esclusiva, l’ampliamento dei mezzi istruttori e l’estensione della cognizione ai comportamenti e alle prestazioni della P.A.;
– il potere del giudice amministrativo di disporre la consulenza tecnica anche nell’ambito della generale giurisdizione di legittimità;
– un rafforzamento delle misure cautelari;
– misure di semplificazione e accelerazione dei tempi.
La legge di riforma contiene anche disposizioni organizzative, in particolare sull’autonomia finanziaria di Consiglio di Stato e Tar, e sul Consiglio di presidenza, la cui composizione vede la presenza anche da membri “laici” eletti dalle due camere del Parlamento.
Indicazioni bibliografiche
AA.VV., La riforma dell’amministrazione dello Stato, Napoli, 2000;
- CASSESE – C. FRANCHINI,L’amministrazione pubblica italiana, Bologna, 1994;
- CASSESE – G. MELIS,Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880 – 1920), inRivista trimestrale di diritto pubblico, 1990, 333;
- CLARICH,La riforma del processo amministrativo, inGiornale di diritto amministrativo, n. 11/2000, 1069;
- DENTE,Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, Rimini 1989;
- MELIS,Storia dell’amministrazione italiana 1861 – 1993, Bologna, 1996;
- SEPE,Amministrazione e riforme, Roma, 1999;
- TARADEL,Gli organici delle amministrazioni centrali dal 1904 al 1914, inQuaderni storici, VI, 1971, 885.
[1] Stante il necessario coordinamento C. Silvestro è autore dei paragrafi 5- 8; S. Bono dei paragrafi 1- 4.
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