Strumenti finanziari derivati, speculativi e di hedging: quali i limiti funzionali all’attività contrattuale degli Enti locali?

Sommario: 1. Considerazioni preliminari. Gli strumenti finanziari derivati: un dialogo a mezza via tra il diritto comune e la disciplina di settore 2. La parabola normativa dei derivati stipulati dagli Enti pubblici territoriali 2.1. In materia di contenimento dell’uso degli strumenti derivati e di riduzione dell’indebitamento: legge 27 dicembre 2013 n. 147 3. Il fenomeno degli Interest rate swaps 4. La quaestio iuris degli IRS sottoscritti dal Comune: la parola alle Sezioni Unite 5. Lo swap con clausola di up-front quale operazione che genera indebitamento per l’ente locale? Storia di un “camuffamento” (smascherato) 6. Sui limiti funzionali all’esercizio del potere contrattuale della P.A. in relazione ai derivati di hedging 7. Gli IRS come spesa che impegna il bilancio comunale per gli esercizi successivi e la competenza a deliberare in ordine agli stessi 8. Misurabilità del Mark to market: riflessioni conclusive intorno al revirement operato dalle SS.UU. a proposito dell’oggetto del contratto derivato 9. Riferimenti bibliografici

1. Considerazioni preliminari. Gli strumenti finanziari derivati: un dialogo a mezza via tra il diritto comune e la disciplina di settore

Nel ripercorrere la trama motivazionale seguita dai giudici di legittimità nella recente pronuncia della Cassazione, SS.UU., n. 8770 del 12 maggio 2020, il presente lavoro tenta di approfondire – a parere di chi scrive – uno tra i più tribolati comparti di studio nell’area dei mercati finanziari, relativo all’impiego di strumenti derivati da parte delle Amministrazioni locali quale veicolo gestorio del debito pubblico.

Anzitutto, è importante chiarire, sin d’ora, che l’anzidetta decisione reca con sé l’indiscutibile pregio di suggellare la prospettiva da cui muove la Corte d’Appello di Bologna (sent. 11 marzo 2014, n. 734), portando a compimento il “naturale processo di osmosi” tra diritto amministrativo e civile e aderendo ad una visione unitaria dell’ordinamento giuridico. Difatti, difformemente da quanto espresso dal giudice di prime cure, la Cassazione ha reputato non sussistere «incompatibilità alcuna, nè astratta nè concreta, fra le norme civilistiche ed amministrative» regolanti i contratti derivati, compresi quelli stipulati dagli Enti pubblici, secondo la logica c.d. dei vasi comunicanti.

A ciò aggiungasi che la materia dei derivati trae origine dalla prassi finanziaria, dappoi recepita, in qualche misura, dalla regolazione del sistema giuridico. Mutuando le parole proprie del Giudice delle Leggi, la disciplina legislativa de qua si colloca «alla confluenza di un insieme di materie, quelle relative ai “mercati finanziari”, all’”ordinamento civile” ed al “coordinamento della finanza pubblica”» (cfr. C. Cost. sent. 18 febbraio 2010, n. 52).

Siffatte riflessioni, dense di implicazioni sul piano giuridico, in quanto sollecitano considerazioni di più ampio respiro in merito ai limiti funzionali dell’autonomia negoziale della Pubblica Amministrazione, rendono imprescindibile sotto il profilo sistematico un approccio di studio polifronte.

Ciò posto, nelle pagine che seguono, si cercherà di chiarire quali sono le principali problematiche sottese alla disciplina di settore ed afferenti dette operazioni economiche, senza con ciò trascurare le categorie generali del diritto civile ed i più elementari principi che presiedono all’azione amministrativa.

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2. La parabola normativa dei derivati stipulati dagli Enti pubblici territoriali

Giova premettere che il fenomeno della negoziazione di schemi contrattuali astrattamente riconducibili agli odiernamente noti “derivati” affonda le proprie radici già nella prima metà dell’ottocento e vede nel Chicago Board of Trade il mercato antesignano dello scambio dei future finanziari. Assumono invece connotazione relativamente più recente le operazioni ascrivibili all’attività contrattuale della P.A..

A questo proposito, le Amministrazioni centrali (in particolar modo, il Ministero dell’Economia e delle finanze o MEF) hanno fatto largo impiego delle operazioni in derivati, a cominciare dalla fine degli anni ottanta, ovverosia in un periodo contrassegnato da ampie fluttuazioni della lira, allo scopo di contrastare il rischio di cambio. L’operatività in derivati ha poi visto protagonisti anche gli Enti decentrati (Regioni, Province e Comuni) a partire dalla seconda metà degli anni novanta, in un contesto ancora scevro di qualsivoglia impalcatura normativa. A tal riguardo, l’ingresso sul mercato mobiliare dei nuovi players periferici testé menzionati è coinciso con l’assunzione di politiche di riduzione della spesa pubblica e con il contestuale decentramento in capo ad essi dei compiti tradizionalmente ascrivibili al welfare State. Da qui, la necessità degli enti locali di sopperire al ridimensionamento del credito erogato dall’ente centrale tramite ricorso ad operazioni derivate per il finanziamento degli investimenti (deliberando l’emissione di prestiti obbligazionari) e per la ristrutturazione del debito pubblico (garantendo tutti i prestiti in valuta estera attraverso speculari operazioni di swap, di cui si dirà più avanti, a copertura del rischio di cambio). Cionondimeno, la complessità di detti strumenti e l’incapacità di comprendere in maniera esauriente i rischi ad essi associati, nonché la riduzione della trasparenza dei conti pubblici, sono valsi a fondare – a decorrere dal 2001 – una prima serie di interventi legislativi intesi perlopiù a regolamentare tali attività contrattuali, riconducendole entro il perimetro delle finalità istituzionali imposte dal principio di legalità, che pervade l’intero raggio dell’agire amministrativo.

2.1. In materia di contenimento dell’uso degli strumenti derivati e di riduzione dell’indebitamento: legge 27 dicembre 2013 n. 147

La disciplina regolamentare di cui sopra è poi, da ultimo, culminata nella legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014) che ha confermato in via permanente il divieto (già previsto nel 2008, seppur in via transitoria, ossia fino al riordino della materia) indirizzato alle (sole) Regioni ed agli Enti locali circa la stipula di contratti di finanza derivata, a pena di nullità, fatte salve alcune eccezioni volte perlopiù a risolvere situazioni contrattuali pendenti. Come pure ricordato dagli ermellini nella pronuncia in commento, tale conclusione rinviene il proprio logico fondamento nell’esigenza di contenimento dell’esposizione delle Regioni e degli altri enti locali territoriali rispetto a indebitamenti che, per il rischio che comportano, possono «esporre le rispettive finanze ad accollarsi oneri impropri e non prevedibili all’atto della stipulazione dei relativi contratti aventi ad oggetto i cosiddetti derivati finanziari» (punto 7.2.1. della sentenza). Del resto, il divieto di concludere contratti speculativi ben si attaglia alla spiccata aleatorietà delle negoziazioni de quibus, caratterizzate da variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa che deve essere assicurata da parte delle Pubbliche Amministrazioni, in spregio ai più basilari insegnamenti in materia di contabilità pubblica ricavabili dalla stessa Carta Costituzionale, là dove enuncia il vincolo dell’equilibrio finanziario ed il principio della necessaria finalizzazione dell’indebitamento a spese di investimento (art. 119 Cost., commi 4 e 6). In altri termini, la tendenza diffusa tra gli enti pubblici territoriali – in ispecie nel periodo del passaggio al nuovo millennio – a far ricorso agli strumenti finanziari derivati in una prospettiva di immediato soddisfacimento delle esigenze di cassa si è ben presto scontrata con l’inconsapevole assunzione di perdite future, ciò rendendo inadeguati ex art. 29 Regolamento Consob – secondo la disciplina di settore – i contratti di investimento e, di conseguenza, immeritevoli di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c., secondo il diritto comune.

Da siffatte doverose premesse si ricava che la regula iuris espressa dalle Sezioni Unite n. 8770/2020 è giocoforza limitata ratione temporis, coprendo esclusivamente gli adempimenti connessi con le posizioni finanziarie esistenti prima del 2008.

3. Il fenomeno degli Interest rate swaps

Prima di addentrarsi nell’analisi della sentenza in parola vale a chiarire ulteriormente la portata del ragionamento seguito dai giudici di Cassazione una descrizione dei tratti essenziali degli strumenti finanziari derivati, con particolare attenzione al contratto di interest rate swap, dalla cui stipulazione originano le questioni formanti oggetto dell’ordinanza di rimessione.

Anzitutto, una definizione, per quanto possibile, omnicomprensiva di “derivato” è coniata dalla Banca d’Italia che suole ricondurre al fenomeno in questione tutti quei contratti il cui valore dipende dall’andamento e dalla performance di una variabile o altro indice, sottostanti ed esterni (c.d. underlying asset). Il “sottostante”, dall’evoluzione del cui valore traggono fondamento le diverse aspettative dei contraenti – a sua volta – può assumere natura finanziaria (titoli o quotazioni azionarie, tassi di interessi e di cambio, indici di mercato, etc.) o reale (prezzi di merci, variabili climatiche). Inoltre, è d’uso nella prassi corrente raggruppare separatamente detti prodotti a seconda che gli stessi assumano la forma di contratti a termine (futures e forward), di swap (su tassi di interesse o di cambio, sui crediti o credit default) o di opzioni. A ben vedere, però, una siffatta schematizzazione concettuale pare oggi eccessivamente riduttiva e semplicistica, sia sul piano definitorio che sistematico, al cospetto della moltitudine di fattispecie che concorrono a formare la categoria dei derivati, rendendo pressoché impossibile a chi scrive darne una nozione unitaria. Né tantomeno, in quest’operazione di reductio ad unum, viene in soccorso al giurista il decreto legislativo 28 febbraio 1998, n. 58 (articolo 1, commi 2 e 3), recante il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (T.U.F.), che si limita a proporre una mera elencazione (non esaustiva) delle forme in cui possono presentarsi tali strumenti.

Sempre sul piano classificatorio, è d’uopo svolgere un’ulteriore distinzione in rapporto alla tipologia e al livello di standardizzazione dei derivati, i quali – come noto – possono essere negoziati sui mercati regolamentati o (come nella maggior parte dei casi) scambiati singolarmente al di fuori di questi tra le due controparti e perciò qualificati come “over the counter” (OTC).

Invece, in relazione alle finalità (da individuarsi esaminando il caso concreto), tali prodotti configurano dei negozi a causa variabile, in quanto suscettibili di rispondere ora ad una: a. funzione di copertura o hedging, per minimizzare il rischio finanziario di un portafoglio; b. ora ad una finalità speculativa, consistente nell’assumere esposizioni al rischio per conseguire un profitto; c. ora ad una finalità di arbitraggio, che consiste nel conseguire un profitto privo di rischio, attraverso transazioni combinate sul derivato e sul sottostante tali da cogliere eventuali differenze di valorizzazione. Ciò posto, rientrano nella categoria degli “strumenti finanziari derivati OTC” gli swaps (espressamente richiamati nell’allegato I, sez. C, T.U.F.) di derivazione anglosassone e fulcro dell’indagine che ha occupato la Cassazione nel caso di specie. Attraverso i predetti strumenti, due parti convengono di scambiarsi reciprocamente (“to swap”, per l’appunto), secondo un programma di date prefissate, obbligazioni pecuniarie future, calcolate applicando due parametri differenti (ad esempio tassi di interesse o tassi di cambio) ad un capitale sottostante (c.d. nozionale). Lo strumento maggiormente diffuso nella gestione finanziaria degli Enti Locali è stato, sino al 2008, lo swap finalizzato a coprire il rischio di tasso di interesse, ossia il c.d. Interest Rate Swap, altrimenti IRS, da cui deriva l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro. Al riguardo, gli IRS – come poc’anzi accennato, in rapporto di species a genus rispetto ai derivati “over the counter” – difettano delle caratteristiche intrinseche degli strumenti finanziari e perciò presentano: i. un contenuto non etero regolamentato, bensì elaborato in funzione delle specifiche esigenze del cliente (“bespoke”); ii. né standardizzato, e come tale non destinato alla circolazione (negoziabilità) e rispetto ad essi iii. l’intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente.

4. La quaestio iuris degli IRS sottoscritti dal Comune: la parola alle Sezioni Unite

La vicenda sottoposta all’attenzione del Collegio riunito nella sua più autorevole composizione ha riguardato taluni contratti di interest rate swaps stipulati tra il Comune di Cattolica e un istituto di credito.

Nello specifico, gli accordi de quibus prevedevano, al momento della loro conclusione, il versamento all’ente di una somma (premio) poi attualizzata sui vari tassi regolanti il successivo rapporto (c.d. up front payment). Quelle di up-front sono clausole invalse nella prassi contrattuale allo scopo di riequilibrare il valore di partenza dello strumento finanziario quando esso non è pari a zero (c.d. contratti non par). Invero, in questi casi l’investitore acquista una posizione contrattuale avente un valore di mercato già negativa, sicché la corresponsione (anticipata) dell’up-front vale compensare la parte che accetta pattuizioni deteriori al momento della stipula del contratto.

Orbene, dette clausole – di per sé non inficianti la validità del derivato – si caricano di una singolare valenza in riferimento agli enti pubblici, atteso che le stesse potrebbero assumere le “sembianze” di un vero e proprio finanziamento disposto dalla banca, così finendo per tradursi in una forma indiretta di “indebitamento” da parte del soggetto pubblico periferico ed alterando la stessa struttura del contratto di IRS, con rilevanti conseguenze anche in ordine alla disciplina ad esso applicabile.

Sulla scorta di siffatte considerazioni, la 1ª sezione civile della Corte – dato atto della problematica suesposta e rilevato che i derivati dedotti in giudizio risultano essere stati sottoscritti prima che il legislatore intervenisse esplicitamente definendo l’up-front come una forma di indebitamento – con ordinanza n. 493 del 10 gennaio 2019, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, in relazione alle seguenti “questioni di massima importanza” (anche da un punto di vista delle finanze pubbliche): «a) “se lo swap, in particolare quello che preveda un upfront … costituisca per l’ente locale un’operazione che generi un indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, a norma della L. n. 289 del 2002, art. 30,comma 15″; b) “se la stipula del relativo contratto rientri nella competenza riservata al Consiglio comunale, implicando una Delibera di spesa che impegni i bilanci per gli esercizi successivi, giusta l’art. 42, comma 2, lett. i), T.u.e.l.”» (punto 4.2. della sentenza). Il comune motivo di fondo che alimenta siffatte richieste è chiaramente rintracciabile nell’obbligo da parte dell’intermediario di servire al meglio l’interesse del cliente ex art. 21 T.U.F. e nella valutazione di adeguatezza e appropriatezza dello strumento finanziario prescelto rispetto alle finalità istituzionali connaturate alle funzioni degli enti pubblici.

5. Lo swap con clausola di up-front quale operazione che genera indebitamento per l’ente locale? Storia di un “camuffamento” (smascherato)

In ordine al primo problema portato all’esame delle Sezioni Unite, ovverosia in ordine alla possibilità di qualificare la stipula del contratto di interest rate swap non par, corredato da una clausola c.d. di up front, alla stregua di una forma atipica di indebitamento da parte delle Amministrazioni decentrate, va dato atto che, fino alla storica pronuncia della Cassazione, non si sono registrati responsi e soluzioni univoche nella giurisprudenza ordinaria, contabile e amministrativa sul concetto di “indebitamento” (frutto dell’elaborazione della scienza delle finanze e non desumibile dal Codice civile, nel quale riveste tutt’altro significato) e su quello di “up front”. In quest’indagine, gli ermellini ravvisano un indefettibile punto fermo nell’assunto in base a cui – in tema di legittimazione dell’Amministrazione a concludere contratti derivati – pur sulla base della disciplina vigente prima del 2013 (quando poi la L. n. 147 ne ha escluso la possibilità) e vista la già consolidata distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, «solamente nel primo caso l’ente locale (può) dirsi legittimato a procedere alla loro stipula» (punto 8.3. della sentenza). Difatti, il Supremo Collegio fa constare come il divieto per l’ente comunale di sottoscrivere contratti derivati a causa speculativa sussisteva anche prima dell’avvento della finanziaria per l’anno 2014, traendo implicitamente fondamento dai generali principi enunciati nel richiamato art. 119 Cost., commi 4 e 6.

Ciò assodato, assumono un rilievo significativo due indirizzi interpretativi contrapposti: A) il primo di essi rinviene il proprio capostipite in una Circolare del giugno 2007 del MEF – al quale orientamento si rifà lo stesso giudice di prime cure, nel caso in esame – che considera lo swap quale «strumento di gestione del debito e non come indebitamento», alla luce del fatto che, peraltro, in nessuna delle disposizioni regolatrici della materia (che tra le operazioni de quibus annoveravano invece solamente «i mutui e le aperture di credito, le emissioni di prestiti obbligazionari, le cartolarizzazioni di flussi futuri di entrata…») si fa menzione degli strumenti derivati. In tal senso, non avrebbe lo scopo di produrre debito neppure la previsione di un up front, che varrebbe quale semplice anticipazione di denaro e non già di credito (rectius, quale entrata straordinaria) impiegata per far fronte a spese correnti; B) di diverso avviso è apparsa la giurisprudenza contabile, secondo impostazione condivisa dalla medesima citata pronuncia della Corte di Appello di Bologna, nella quale si legge che «il contratto di swap (in concreto saremmo di fronte ad Interest rate swaps), e in particolare – ma si aggiunge qui, non solo – quello che prevede una clausola di iniziale upfront costituisce, proprio per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l’ente pubblico, attuale o potenziale. Se infatti la natura dello swap … è costituita da una lecita scommessa bilaterale su tassi futuri … è evidente che ognuno degli stessi contraenti deve mettere in conto al momento della stipulazione non solo il proprio guadagno, ma, come in ogni gioco d’azzardo, anche di perdere, e quindi di dover pagare – ossia divenire debitore di – una certa somma nei confronti della controparte… in concreto fu poi prevista una clausola di upfront, che non può essere definita solo una somma immediatamente riconosciuta al cliente quale anticipazione sui differenziali futuri attesi». Da ciò ricavano i giudici di merito che – se non costituisce il corrispettivo di una passività di uno swap non par – l’upfront deve necessariamente assumere i caratteri di una commissione o costo (implicito) e, come tale, generare una passività. Ragionevolmente osservano che, pertanto, l’anzidetta passività – insita potenzialmente in ogni contratto di swap e che trova un’evidenza concreta nella medesima clausola di upfront (id est, nel pagamento del premio a favore dell’ente) – finisce per riverberarsi sulla causa del negozio, connotandolo in termini di scommessa, seppur lecita e autorizzata, per effetto della quale il cliente si ripromette di conseguire vantaggi aleatori, collegati alla creazione artificiale di un rischio. Tuttavia, per espressa previsione contenuta all’art 23, comma 5, T.U.F., gli strumenti finanziari derivati, in generale, si differenziano dalle altre scommesse tollerate (gioco e scommessa), in quanto i primi si sottraggono alla regola di cui al 1933 c.c. (c.d. soluti retentio). In definitiva, ciò che rende lo swap una scommessa “legalmente autorizzata” sta proprio nell’interesse economico sotteso alla sua stipulazione e consistente nella cennata funzione di copertura del sottostante indebitamento.

Tale ultima premessa metodologica concorre a definire l’esito qualificatorio cui addivengono le Sezioni Unite. Queste mostrano di condividere infatti il secondo orientamento – che qualifica le somme ricevute a titolo di upfront come indebitamento ai fini della normativa di contabilità pubblica – sul presupposto che già in corso di causa era intervenuto l’art. 62 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, modificato in sede di conversione dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi successivamente sostituito dall’art. 3 della Finanziaria per il 2009, il cui comma 9 aveva chiarito che «sulla base dei criteri definiti in sede Europea dall’Ufficio statistico delle Comunità Europee (EUROSTAT), l’eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate costituisce indebitamento dell’Ente» (punto 10.1.3. della sentenza), di talché la normativa del 2008 si sarebbe limitata a recepire un assetto già enucleabile dal precedente sistema senza realmente innovare l’ordinamento giuridico.

Tuttavia, aggiunge il Supremo Collegio, «se il denaro ottenuto con l’upfront è da considerare indebitamento, lo stesso non può dirsi degli IRS conclusi dagli enti pubblici, i quali, eventualmente, possono presupporre un indebitamento». In altri termini, i giudici di legittimità – in presenza degli interest rate swaps – mostrano di prediligere un approccio concreto, orientato ad un esame da condursi «caso per caso», tenendo conto delle peculiarità e della natura del singolo derivato e rifuggendo da una lettura aprioristica dello swap in termini di indebitamento. Ciò in quanto, secondo tale argomento, il derivato non può, di per sé, considerarsi speculativo o conservativo, potendo i contraenti, nella gestione del rischio, perseguire in concreto i più svariati fini individuali. Si legge nella sentenza che «l’operazione di swap va (sempre) guardata nel complesso, perché il suo effetto può, sostanzialmente, consistere in un indebitamento, com’è dimostrato da quegli enti locali che sono stati capaci di utilizzare gli IRS alla stregua di mutui e, tramite essi, in concreto, modificare e gestire il livello dell’indebitamento» (punto 10.1.4. della sentenza). In definitiva, configurano “indebitamento” dell’Ente pubblico le attività di reperimento di risorse finanziarie suscettive di tradursi anche solo potenzialmente in un disavanzo.

6. Sui limiti funzionali all’esercizio del potere contrattuale della P.A. in relazione ai derivati di hedging

Quanto esposto non esaurisce la portata della questione sottoposta alla Corte. In particolare, le Sezioni Unite si spingono oltre e chiariscono come – pur nell’ambito del percorso astrattamente ammissibile (rappresentato dalla stipula dei derivati di copertura) – il potere negoziale della P.A. si imbatta in taluni limiti di liceità aventi l’effetto di circoscrivere il ricorso a detti tipi contrattuali. Invero, i giudici di legittimità spiegano che la facoltà di ricorrere alla stipula di strumenti finanziari di hedging con qualificati intermediari finanziari, accolta in linea teorica, trovi utile ed efficace attuazione sul piano pratico soltanto in presenza di una «precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto» (punto 9.8. della sentenza). In particolare, il MTM – che già in passato un’attenta e condivisibile giurisprudenza di merito aveva qualificato come elemento essenziale integrativo della causa tipica degli strumenti di finanza derivata – corrisponderebbe ad una grandezza monetaria calcolata su base del valore teorico di mercato del contratto per l’ipotesi di sua risoluzione anticipata (i.e. prima del suo termine naturale). Orbene, la specificazione dei predetti parametri di calcolo riveste un’importanza decisiva in ragione della circostanza che soltanto tramite gli stessi può realizzarsi la funzione di gestione e copertura del rischio finanziario derivante da un sottostante debito. Sempre per dirla con le parole degli ermellini, ciò che invero induce il legislatore ad autorizzare questo genere di “scommesse razionali”, «intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità», è proprio la loro utilità sociale. Per tale ragione, ai fini della liceità dei contratti sottoscritti dagli enti locali, «appare necessario verificare se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi» (punto 6.2. della sentenza), pena l’indeterminatezza dell’oggetto e la conseguente nullità del contratto derivato ex art. 1346 c.c. (di fatto comminata nel caso di specie). In tal modo, la Corte ha operato una commistione – come già si accennava in premessa – tra il piano della disciplina “comune” e quello della regolazione dei mercati finanziari andando a colmare, tramite la norma civilistica, la lacuna lasciata aperta dalle regole di contabilità pubblica in relazione ai derivati di hedging.

7. Gli IRS come spesa che impegna il bilancio comunale per gli esercizi successivi e la competenza a deliberare in ordine agli stessi

Si pone in rapporto di stretta interconnessione con il primo tema, la seconda questione sollevata dal giudice remittente e concernente l’individuazione dell’organo comunale competente a deliberare la contrattazione in materia di IRS. Pur se trattasi di rilievo assorbito dalla riconosciuta invalidità del contratto derivato, i Giudici di Piazza Cavour considerano questo motivo di legittimità meritevole di trattazione in quanto offre preziosi spunti di riflessione in merito all’assetto di competenze istituzionali all’interno dell’Ente. Nel caso di specie, era in dubbio la legittimazione del ragioniere comunale a concludere derivati per conto del Comune, sulla base di una delibera contenente una “mera” linea di indirizzo. Secondo il Supremo Collegio, «l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000 … non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, stesso Testo Unico» (punto 10.8. della sentenza). A tali conclusioni le SS.UU. addivengono traendo spunto dalla previsione contenuta nel richiamato art. 42, comma 2, lett. i) del t.u.e.l., che prevede tra gli “atti fondamentali” del Consiglio le spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi”. Orbene, al di là del dato testuale, depone in favore della scelta consiliare anche la necessità di assicurare il coinvolgimento degli schieramenti assembleari di minoranza, chiamati ad esercitare un controllo sull’operazione finanziaria, atteso che quest’ultima è suscettiva di ripercuotersi in termini di ricadute negative sui bilanci dell’Ente anche per lunghi anni. Tuttavia, la competenza del predetto organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo del Comune non si arresta alla generica fase di valutazione della convenienza economica dell’affare. Invero, il Consiglio non deve limitarsi a fornire una mera “linea di indirizzo” alla Giunta o ai Dirigenti circa l’apposizione di vincoli all’utilizzo di risorse future, ma deve ponderare tutte le componenti essenziali dell’operazione di ristrutturazione del debito, individuarne le principali caratteristiche e modalità attuative, selezionare con una gara la migliore offerta in relazione agli scopi e modalità che vuole seguire, in ossequio ai principi di economicità, imparzialità e buon andamento.

  1. Misurabilità del Mark to market: riflessioni conclusive intorno al revirement operato dalle SS.UU. a proposito dell’oggetto del contratto derivato

Giunti a questo punto della trattazione, appare utile fare una breve chiosa finale a proposito dell’argomento delle patologie contrattuali dei derivati, sub specie di indeterminatezza o indeterminabilità del criterio del mark to market, alla luce dell’analisi condotta dal giudice nomifilattico. A ben vedere infatti, la cennata ricostruzione si attesta su posizioni manifestamente antitetiche (e dirompenti) rispetto a quelle fatte proprie dell’orientamento sino ad allora maggioritario, che identificava invece l’oggetto del contratto in questione nel mero programma astratto di scambio dei differenziali alle scadenze prestabilite. Così opinando, si argomentava che la mancata indicazione degli scenari probabilistici e della formula di calcolo del MTM potesse, al più, rilevare quale fatto generatore di responsabilità dell’intermediario, dando luogo unicamente al vizio di volontà del contraente impossibilitato a calcolare l’alea dello swap. Nel filone maggioritario sembra inquadrarsi anche la successiva giurisprudenza di merito. Da ultimo, si veda Corte d’Appello Milano Sez. I, Sent., 28-07-2020, n. 2003, nella quale si legge: «il cd. mark to market non è l’oggetto del contratto di Interest Rate Swap, posto che, palesemente, oggetto del contratto sono le reciproche obbligazioni delle due parti di pagare l’una all’altra, a seconda dei casi, a scadenze prestabilite, il differenziale sussistente tra due somme, calcolate su un medesimo capitale di riferimento, con applicazione di due determinati parametri differenti per le due parti … è invece il valore che, in ciascun momento della sua esistenza, assume il contratto di IRS, inteso quale costo che un terzo estraneo al contratto è disposto a pagare o chiede di ricevere, a seconda dei casi, per subentrare nel contratto, ovvero quale costo che una delle due parti è tenuta a pagare all’altra o pretende di ricevere da questa per chiudere anticipatamente il contratto … tale valore può essere calcolato, in qualunque momento, determinando l’ammontare attualizzato dei flussi monetari». A conclusioni non dissimili era giunto qualche tempo prima anche l’Arbitro per le Controversie Finanziarie (breviter, ACF), con la Decisione n. 2678 del 16 giugno 2020. Ad avviso del Collegio arbitrale deve ritenersi infondata la tesi secondo cui la mancata indicazione del Mark to Market e degli scenari probabilistici sia suscettiva di cagionare la nullità del derivato. L’ACF ha così preso le distanze dalle SS.UU. dell’8 maggio 2020 le quali, in conclusione, avrebbero dettato una regula iuris obiettivamente circoscritta ad un problema specifico: ossia, quello di stabilire i limiti entro cui agli Enti locali è possibile stipulare derivati di copertura.

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  1. Riferimenti bibliografici

BARTALENA A., Patologie dei derivati: la causa concreta come strumento di tutela dell’investitore “tradito” in Le Società n.10, 2020.

BEFANI G., Interest rate swap e, operazioni di indebitamento degli enti: per una rilettura dei “derivati pubblici” – alla luce di SS.UU. 12 maggio 2020, n. 8770 in i contratti n. 5, 2020

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Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati – Commissione VI Finanze in https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-direttorio/int-dir-2015/Signorini-150615.pdf

PANCALLO A. M., Dove conduce la ricerca del ‘‘derivato’’? Le evoluzioni della giurisprudenza di merito e di legittimità in Nuova Giur. Civ. n. 2, 2020.

TUCCI A., I contratti derivati degli enti locali dopo le Sezioni unite in Giur. It. n. 11, 2020.

Sentenza collegata

106757-1.pdf 96kB

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Dott. Gianpiero Gaudiosi

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