Il coinvolgimento della Corte di Giustizia, nella vicenda delle limitazioni quantitative previste per il subappalto, rappresenta il naturale epilogo di un dibattito apertosi dopo la promulgazione nel 2016 del nuovo Codice dei Contratti pubblici e tutt’ora in corso. Ricordiamo che già il previgente Codice dei contratti pubblici di cui al D. Lgs. n. 163/2006, all’art. 118, aveva previsto una soglia limite al subappalto dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, pari al 30% della categoria prevalente per i lavori, al 30% dell’importo complessivo del contratto per i servizi e le forniture.
La Commissione Speciale del Consiglio di Stato, chiamata nel 2016 a rendere il parere sullo schema del nuovo Decreto legislativo recante “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione” (Parere n. 855/2016), ha evidenziato come il Parlamento italiano, nel conferire la delega al Governo per l’adozione del nuovo Codice, abbia al tempo stesso imposto – da un parte – il divieto di gold plating ed il recepimento degli strumenti di flessibilità previsti dalle direttive europee, dall’altra parte previsto l’adozione di criteri di scelta dei contraenti ben più rigorosi di quelli previsti in sede comunitaria. Tale scelta politica del Parlamento, apparentemente contraddittoria, secondo i Giudici di Palazzo Spada “non si espone ad alcun rilievo”. E’ stato, infatti, elogiato – nel citato parere – l’impegno del legislatore delegante a garantire, senza inutili compromissioni del sistema di concorrenza e libera circolazione comunitari, la salvaguardia di interessi di rango primario quali la prevenzione della corruzione, la lotta alla mafia (rectius alle mafie), la trasparenza, i valori ambientali e sociali.
L’addentellato normativo per giustificare il limite quantitativo del 30% nel subappalto, limite elogiato dal Consiglio di Stato, è stato rinvenuto nella norma di cui all’art. 36 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, là dove si consentono deroghe al principio di libera circolazione delle merci dettate da “giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale”.
L’iniziale benedizione del Consiglio di Stato non ha convinto, però, l’Associazione Nazionale dei Costruttori Edili, che ha presentato un esposto alla Commissione Europea per chiedere di avviare la procedura di infrazione contro il nostro Paese, reo di aver previsto nel nuovo Codice – in contrasto con i principi sanciti dalla Direttiva Europea n. 2014/24/UE – limiti stringenti al subappalto sia sul piano quantitativo, sia sul piano delle libertà – per le stazioni appaltanti – di scelta in merito alla possibilità di subappalto ed alla indicazione preventiva dei subappaltatori. Nello spiegare le ragioni della protesta, il Vicepresidente dell’ANCE ha chiarito che l’esposto non intendeva auspicare la possibilità di subappaltare nei contratti pubblici la totalità dei lavori, bensì di ottenere una limitazione nelle scelte discrezionali delle stazioni appaltanti in tema di subappalto.
L’esposto dell’ANCE ha determinato la trasmissione nel marzo del 2017, da parte della Commissione Europea al Ministero per le Infrastrutture tramite l’Ambasciatore italiano presso l’UE, di una lettera in cui si invitava il nostro Paese ad utilizzare l’occasione del Decreto correttivo del Codice per rivedere il limite di cui all’art. 105 in tema di subappalto. Le perplessità sollevate dalla Commissione riguardano soprattutto l’incompatibilità di un divieto assoluto del subappalto – in termini percentuali – con i principi di libera circolazione delle merci, nonché con le direttive e la giurisprudenza comunitaria degli ultimi anni.
Il Consiglio di Stato, chiamato a rendere un parere in merito al citato Decreto correttivo del D. Lgs. n. 50/2016 (Parere n. 782/2017), ha però confermato la posizione assunta nel precedente parere del 2016. Nell’esprimere il favore per una possibile correzione che limitasse il divieto di subappalto (oltre il 30%) ai soli lavori pubblici della categoria prevalente, i Giudici di Palazzo Spada hanno infatti richiamato la giurisprudenza comunitaria recente in tema di subappalto, ma solo per evidenziare che i casi esaminati dalla CGUE fino ad allora erano relativi alla vigenza della Direttiva UE n. 2004/18. La nuova Direttiva 2014/24, secondo i massimi giudici amministrativi, “consente agli Stati membri di dettare una più restrittiva disciplina del subappalto, rispetto alla maggiore libertà del subappalto nella previgente direttiva”.
Nel richiamare ancora una volta, come nel precedente parere, quei valori superiori dell’ordine, sicurezza e sostenibilità sociale che consentono di prevedere restrizioni della libera concorrenza e del mercato, il Consiglio di Stato è giunto a suggerire al Governo italiano di “scegliere “l’opzione zero” ossia di non intervenire sulla scelta di fondo già operata dal codice, difendendo la scelta italiana in sede di eventuale procedura di infrazione (ove essa venisse avviata dalla Commissione europea, a seguito della denuncia formalizzata da ANCE), e se del caso modificando in un secondo momento la norma de quo, a seguito di una eventuale condanna in sede comunitaria.”.
Quella che il Consiglio di Stato ha definito “eventuale condanna in sede comunitaria” è, a parere di chi scrive, ormai alle porte, avendo il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia – con l’ordinanza di rimessione – chiesto alla CGUE di rispondere al quesito con la procedura accelerata di cui all’art. 105 paragrafo 1 del Regolamento procedurale.
La possibile risposta della Corte di Giustizia sembra, infatti, già scritta in una recente sentenza, emessa il 5 aprile 2017 nella causa C-298/15, espressamente e ripetutamente richiamata dal Tribunale milanese nell’ordinanza di cui sopra.
Nella citata sentenza, adottata per rispondere alla compatibilità di una norma statale lituana con i principi sanciti dalla Direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, la Corte lussemburghese ha infatti travalicato i limiti del quesito per affermare un principio generale, fondato non sulla (ormai superata) Direttiva del 2004 ma sulle norme del TFUE. E’ stato chiarito, in via preliminare, che al caso sottoposto all’attenzione della Corte non poteva applicarsi né la Direttiva 2014/25, entrata in vigore dopo la pubblicazione della gara d’appalto di cui all’ordinanza di rimessione, né la direttiva 2004/17, poiché l’appalto sotto osservazione presentava un importo inferiore alla soglia prevista. Ciò nonostante, i Giudici comunitari hanno ritenuto di poter statuire sulle questioni sottoposte all’attenzione della Corte, sia perché l’appalto de quo presenta – per l’importo cospicuo – un interesse transfrontaliero certo, sia perché “la Corte, al fine di fornire una risposta utile al giudice del rinvio, può essere indotta a prendere in considerazione le norme fondamentali e i principi generali del Trattato FUE, in particolare gli articoli 49 e 56 di questo e i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l’obbligo di trasparenza che ne derivano”.
Partendo dai citati principi, che ovviamente valgono per tutti gli appalti pubblici che presentino un interesse transfrontaliero certo ed a prescindere dall’adeguamento dei singoli Stati alle direttive comunitarie, la Corte di Giustizia ha affermato che “Per quanto riguarda gli appalti pubblici, è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile…il ricorso al subappalto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo”. Nell’articolata motivazione viene, poi, chiarito che le limitazioni poste dal legislatore statale (quello lituano, nel caso oggetto della rimessione) al subappalto, sebbene giustificate da ragioni di pubblico interesse, non possono esorbitare dallo stretto necessario per assicurare il perseguimento dello scopo. E’ stato, di conseguenza, dichiarato che gli articoli 49 e 56 TFUE ostano ad una disposizione di una normativa nazionale che, pur consentendo il ricorso al subappalto nell’esecuzione di lavori pubblici, imponga all’aggiudicatario di eseguire l’opera principale.
Possiamo prevedere, al termine di questa breve riflessione, che l’attuale formulazione dell’art. 105 comma secondo del D. Lgs. n. 50/2016, ove è statuito per il subappalto dei contratti pubblici il limite “del 30% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture”, non riuscirà ad uscire indenne dall’esame della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Auspichiamo, però, che il legislatore italiano riesca a correggere il tiro senza rinunziare a quei controlli necessari ad evitare che le grandi imprese si trasformino, da esecutori dei contratti, a scatole vuote impegnate a fungere da novelle stazioni appaltanti, con conseguenze nefaste sia sul piano del moltiplicarsi dei fenomeni corruttivi ,sia sul piano della lotta alle organizzazioni criminali sempre più impegnate ad infiltrarsi nel mondo degli appalti pubblici, sia infine sul piano della qualità delle opere e servizi pubblici.
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