Successione ereditaria, divisione dei beni e donazioni

Redazione 06/12/17

I poteri del chiamato prima dell’accettazione

Il chiamato che non abbia accettato l’eredità ha alcuni poteri sulla stessa, i quali consistono essenzialmente nella facoltà di amministrare i beni ereditari e compiere tutti quegli atti che possano servire a mantenere integre le sue ragioni sulla stessa, qualora egli decida di accettare. Essi spettano al chiamato indipendentemente dalla circostanza che egli sia o non nel possesso dei beni ereditari.

I poteri previsti nell’art. 460 c.c., però, trovano limite nel divieto di compimento di atti dispositivi, i quali ultimi avrebbero, quale effetto, la decadenza dalla facoltà di rinunziare all’eredità o di accettare con beneficio di inventario.
Inoltre, l’esercizio dei detti poteri è consentito solo qualora non si sia provveduto alla nomina di un curatore dell’eredità a norma dell’art. 528 c.c. In caso di pluralità di chiamati di pari grado, la legittimazione spetta
a ciascuno di essi disgiuntamente dagli altri, non rinvenendosi qui i presupposti del litisconsorzio necessario.

Poiché l’art. 460, comma 1, c.c. autorizza il chiamato all’esercizio delle azioni possessorie, ci si è chiesti in dottrina se egli divenga, per effetto dell’apertura della successione, possessore dei beni ereditari. La dottrina prevalente ha offerto risposta negativa così come la giurisprudenza, dal canto suo, conformemente alla tesi tradizionale, esclude che il chiamato possa essere considerato quale possessore, seppure in virtù di una fictio giuridica, con la conseguenza, tra l’altro, che – ove si sia prescritto il diritto di accettare l’eredità – questi non può invocare la successione nel possesso ex art. 1146 c.c.

La successione ab intestato

Il titolo II del libro II del codice civile, che comprende gli articoli dal 565 al 580 c.c., fa riferimento alla c.d. successione ab intestato, ovvero alla successione che non trova titolo in un atto di volontà privata (testamento), ma nella legge e comprende sia la successione necessaria sia la successione legittima vera e propria. I casi disciplinati in detti articoli sono quelli in cui il testatore non ha disposto, in tutto o in parte, del suo patrimonio, dando luogo all’intervento del legislatore per individuare i successibili.
Sul fondamento e sulla funzione di questo tipo di successione la teoria dottrinaria più seguita guarda a questo intervento del legislatore come volto alla tutela della famiglia come entità sociale o, in mancanza, ad assicurare che un successore (lo Stato) si occupi comunque della liquidazione dei debiti e dei beni del defunto, evitando la vacanza dei patrimoni.

I presupposti, dunque, della successione legittima sono due: mancanza totale o parziale della delazione testamentaria e titolo a succedere. In ordine al primo presupposto, le ipotesi possono essere individuate
nelle seguenti: a) inesistenza del testamento; b) esistenza del testamento riportante solo disposizioni a titolo particolare; c) esistenza del testamento riportante disposizioni a titolo universale, ma che non investano tutto l’asse ereditario; d) esistenza di testamento nullo o annullato, revocato, inefficace per il venir meno della condizione sospensiva o per avveramento della condizione risolutiva; e) risoluzione della disposizione testamentaria provocata dall’inadempimento dell’onere previsto; f) mancata accettazione, rinunzia, prescrizione, decadenza dell’eredità, quando non si sia fatto luogo a sostituzione, rappresentazione o accrescimento; g) pronunzia dell’indegnità dell’erede; h) nascituri non venuti ad esistenza; i) enti non riconosciuti che non abbiano chiesto il riconoscimento nei termini.

L’annullamento del testamento per errore, violenza o dolo

La norma in esame contempla le ipotesi di invalidità delle disposizioni testamentarie diverse dai vizi di forma (art. 606, comma 2, c.c.) o dai casi di incapacità di testare (art. 591 c.c.) disponendo che quando le stesse sono l’effetto di errore, di violenza e il dolo, chiunque ne abbia interesse può impugnarle, nel termine di cinque anni dal momento di in cui si è avuta notizia.
L’errore
Per quanto riguarda questo vizio non è necessario che oltre che essenziale sia anche riconoscibile o scusabile e ciò in quanto il testamento è un negozio unilaterale non recettizio, non trovando applicazione il principio dell’affidamento.
Quanto poi all’errore ostativo sull’identità della persona o della cosa, disciplinato dall’art. 625 c.c., secondo la dottrina preferibile si ritiene che esso comporti la nullità, e non la semplice annullabilità della disposizione, tutte le volte che dal contesto del testamento o altrimenti non risulti in modo non equivoco a quale persona o cosa il testatore intendesse riferirsi, diverse dal vero.
La giurisprudenza ha stabilito che in caso di errore è necessaria la dimostrazione che la volontà del testatore sia stata influenzata in maniera decisiva dalla percezione di fatti come reali.
Il secondo comma dell’art. 624 c.c. contempla poi il caso sull’errore sul motivo di fatto e di diritto, quando esso risulta dal testamento ed è stato l’unico che ha determinato il testatore a disporre, prevedendone
l’annullabilità (50). Secondo un autore (Barcellona, nota a Cass. civ., 20 luglio 1962, n. 1150, in Foro Padano, 1964, I) sarebbe inammissibile eludere la rilevanza del motivo quando la rappresentazione del fatto sia esatta ed erronea sia invece la valutazione a causa di un falso apprezzamento personale del testatore.

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Successione ereditaria, divisione dei beni e donazioni

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