(Annullamento senza rinvio)
(Normativa di riferimento: Cost. art. 25; Cod. pen. art. 2)
Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Con sentenza deliberata il 28/06/2017, all’esito dell’udienza in camera di consiglio fissata a norma dell’art. 447 cod. proc. pen., il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Prato applicava a F. P. la pena concordata con il pubblico ministero di anni uno di reclusione in relazione al reato di cui all’art. 589-bis cod. pen., perché «cagionava per colpa la morte di B. P.. In particolare, in data 02/01/2016, alla guida dell’autovettura …, non arrestava o comunque rallentava la marcia del veicolo dallo stesso condotto, in prossimità di un attraversamento pedonale, già impegnato dal B., così investendo quest’ultimo; successivamente, in data 28/08/2016, interveniva, a seguito degli esiti del traumatismo conseguenti al sinistro stradale cennato, la morte di B.. In Prato, il 28/08/2016».
La pena finale è stata così determinata: pena base, nel minimo edittale, anni due di reclusione; diminuita per l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche fino ad anni uno e mesi quattro di reclusione; ridotta alla pena indicata per il rito.
Avverso l’indicata sentenza il difensore di F. P., avv. C. M., proponeva ricorso per cassazione, denunciando inosservanza o erronea applicazione della legge penale in quanto la più sfavorevole disciplina dettata dall’art. 589-bis cod. pen. è stata introdotta in epoca successiva alla condotta ascritta all’imputato, mentre all’epoca di tale condotta era in vigore una disciplina più favorevole, in quanto l’art. 589, secondo comma, cod. pen. prevedeva una circostanza aggravante laddove la nuova disposizione prevede un’autonoma fattispecie incriminatrice (oltre all’applicazione obbligatoria e automatica della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida per un periodo minimo di cinque anni); peraltro, rileva il ricorrente, l’applicazione al caso di specie della successiva, più sfavorevole disciplina, contrasta con il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (art. 25 Cost.), oltre che con il divieto di retroattività stabilito dall’art. 7 C.E.D.U., sicché deve essere seguito il c.d. “criterio della condotta” secondo il quale, in caso di successione di leggi penali, è applicabile, se più favorevole, la legge vigente al momento della condotta.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Investita della cognizione del ricorso, la Quarta Sezione penale, con ordinanza del 05/04/2018, lo rimetteva alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione relativa al trattamento sanzionatorio da applicare nel caso di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole.
In premessa, l’ordinanza di rimessione rilevava che, nella formulazione anteriore alla legge 23 marzo 2016, n. 41, il secondo comma dell’art. 589 cod. pen. prevedeva una circostanza aggravante soggetta al giudizio di bilanciamento, mentre il nuovo art. 589-bis cod. pen. integra un’autonoma fattispecie incriminatrice.
A favore della tesi che ritiene applicabile la legge vigente al momento della consumazione del reato e, dunque, al momento dell’evento lesivo, l’ordinanza di rimessione richiamava, in particolare, Sez. 4, n. 22379 del 17/04/2015, omissis, secondo cui, ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 2 cod. pen., il tempus commissi delicti va collocato al momento della consumazione del reato e, trattandosi nella specie di reato a forma libera, tale momento coincide con il verificarsi dell’evento tipico.
A favore dell’opposto “criterio della condotta”, l’ordinanza di rimessione richiamava la Sez. 4, n. 8448, del 05/10/1972, omissis, Rv. 122686, secondo cui, nel caso di successione di leggi penali regolanti la stessa materia, la legge da applicare è quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo e non già quella del momento in cui si è verificato l’evento che determina la consumazione del reato.
In questa ordinanza di rimessione, inoltre, si propendeva per questo secondo indirizzo poiché «il principio di irretroattività della legge penale meno favorevole si pone a garanzia del soggetto attivo, nella considerazione che egli non dev’essere chiamato a soggiacere non solo a previsioni incriminatrici non vigenti al momento del fatto, ma neppure a previsioni sanzionatorie che dopo il fatto sono divenute più gravi» mentre, al contrario, il c.d. criterio dell’evento si pone in contrasto con il principio di uguaglianza (per l’ingiustificata disparità di trattamento che ne deriva tra soggetti autori di una medesima condotta nello stesso momento, sol perché l’evento del reato si verifica in tempi diversi per ragioni a loro non riferibili), con il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (pacificamente riferito non solo alla necessaria conoscibilità del precetto, ma anche alla conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale prevista per la relativa violazione), nonché con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 Cedu (che assicura l’“accessibilità” della norma penale per il destinatario, anche sotto il profilo sanzionatorio, e la “prevedibilità” della conseguenze della sua condotta).
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Le argomentazioni prospettate dalla Procura generale
Fermo restando che, con decreto del 16 maggio 2018, il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, tenuto conto del contrasto giurisprudenziale ravvisato dall’ordinanza di rimessione, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione, con requisitoria scritta datata l’8 giugno 2018, aderendo all’impostazione dell’ordinanza di rimessione, aveva tuttavia osservato che la scissione degli elementi costitutivi del reato (condotta, nesso causale, evento) non è consentita in via interpretativa, concludendo, quindi, per la proposizione della questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 Cost., dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui fa riferimento alla commissione del reato e non del fatto anche con riguardo ai reati di evento qualora quest’ultimo sia differito nel tempo e, dopo la realizzazione della condotta, sopravvenga una disciplina punitiva meno favorevole nonché, in subordine, l’organo requirente chiedeva che venisse confermata la richiesta di rigetto del ricorso già avanzata con la precedente requisitoria.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, in via preliminare, circoscrivevano la questione sottoposto alla loro valutazione giudiziale nei seguenti termini: “se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta ovvero quella vigente al momento dell’evento”.
Posto ciò, sempre in via preliminare, gli ermellini ritenevano all’uopo necessario valutare l’ammissibilità del ricorso sotto il profilo della sua tempestività rilevando, in particolare, di dover confermare l’impostazione che esclude la previsione legale di un termine per il deposito della sentenza di applicazione della pena su richiesta affermando tale principio nei seguenti termini: “La motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta deve essere depositata contestualmente alla pronuncia; qualora la motivazione non sia depositata contestualmente, anche per l’irrituale indicazione in dispositivo di un termine per il deposito, il termine di quindici giorni per l’impugnazione della sentenza pronunciata in camera di consiglio decorre – esclusa qualsiasi nullità della sentenza stessa ed indipendentemente dal fatto che il termine irritualmente indicato dal giudice sia stato o meno osservato – dall’ultima notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito del provvedimento”.
Orbene, declinando tale criterio ermeneutico al caso in questione, i giudici di Piazza Cavour osservavano come la sentenza impugnata fosse stata deliberata all’udienza camerale del 28/06/2017, con l’indicazione in dispositivo del termine di 15 giorni per il deposito della motivazione, deposito intervenuto il 13/07/2017, ossia nel termine fissato dal giudice mentre il ricorso sottoscritto dal difensore avv. C. M. risultava proposto il 07/08/2017.
Pertanto, prosegue la Corte nel suo ragionamento decisorio, escluso che la decorrenza del termine di quindici giorni per l’impugnazione debba coincidere con la scadenza del termine irritualmente fissato per il deposito della motivazione, deve rilevarsi che dall’esame degli atti trasmessi, non risultava che la sentenza fosse stata notificata all’imputato o al suo difensore, sicché il termine per l’impugnazione del difensore – al quale, il 22/07/2017, ossia dopo il deposito della motivazione, l’imputato aveva conferito procura speciale ad hoc per proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata – non era ancora decorso al momento della proposizione del ricorso per cassazione, che era statp dunque tempestivo.
Altra questione procedurale, affrontata sempre in via preliminare, riguardava i limiti in cui errori in diritto nella determinazione della pena “patteggiata” possono dar luogo all’annullamento della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen.: interrogativo, questo, che, come osservato dalla Corte anche alla luce di quanto dedotto nell’ordinanza di rimessione, ruota intorno alla nozione di “pena illegale“.
Al riguardo si metteva in risalto come detta nozione fosse stata valorizzata dalla giurisprudenza di legittimità nella prospettiva di riconoscere alla Corte di Cassazione un potere decisorio, in bonam partem, oltre il devolutum e segnatamente sulla scorta di quell’orientamento nomofilattico in base al quale nell’ipotesi in cui il giudice abbia irrogato una sanzione, che sia superiore ai limiti edittali ovvero in genere o specie più grave di quella prevista in astratto, la Corte di cassazione ha – anche d’ufficio – l’obbligo di annullare la pronuncia, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la medesima (Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, omissis, Rv. 203205; conf., ex plurimis, Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, omissis, Rv. 225693, con riferimento alla mancata applicazione della disciplina sanzionatoria prevista per i reati di competenza del giudice di pace) fermo restando che il carattere derogatorio, rispetto al principio devolutivo, segna anche il limite del potere “correttivo” officioso della pena illegale (nozione, questa, richiamata anche con riguardo alla disciplina della successione di leggi penali) posto che è stato rilevato che, fuori dei casi di «pena illegale, vale a dire di pena diversa per specie da quella che la legge (applicabile nel tempo secondo i dettami dell’art. 2 c.p.) stabilisce per quel determinato reato o di pena inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali», l’intervento officioso dei giudici di legittimità ordinaria non potrebbe giustificarsi «sol perché la pena, legittimamente quantificata nel dispositivo letto in udienza, risulta erroneamente calcolata in motivazione […]: diversamente, qualunque errore di diritto nel computo della pena dovrebbe essere corretto d’ufficio, il che finirebbe con lo snaturare il meccanismo stesso dell’impugnazione, retto dal principio devolutivo» (Sez. 2, n. 12991 del 19/02/2013, omissis, Rv. 255197; conf., Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, omissis, Rv. 260326).
Oltre a ciò, si sottolineava come più di recente, la nozione di “pena illegale” fosse stata al centro di varie pronunce delle Sezioni Unite, sovente collegate a declaratorie di illegittimità costituzionale di norme sostanziali e orientate a valorizzare il ruolo del giudice dell’esecuzione nel “ripristino” della pena costituzionalmente corretta (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014, omissis, Rv. 258651; Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, omissis, Rv. 260696; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, omissis, Rv. 264859); in particolare, per un verso, nella decisione delle Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, omissis, Rv. 265106, veniva chiarito come, nel giudizio di cassazione, l’illegalità della pena non fosse rilevabile d’ufficio in presenza di un ricorso inammissibile perché presentato fuori termine, per altro verso, nella Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, omissis, Rv. 265111, veniva enunciato il principio di diritto in forza del quale, in tema di successione di leggi nel tempo, la Corte di cassazione può, anche d’ufficio, ritenere applicabile il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio per l’imputato, pur in presenza di un ricorso inammissibile; la più recente giurisprudenza di legittimità ha poi ribadito che l’illegalità della pena può essere rilevata d’ufficio dal giudice di legittimità investito di un ricorso che, per cause diverse dalla sua tardività, risulti inammissibile (Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016 – dep. 2017, omissis, Rv. 268593; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 51726 del 12/10/2016, omissis, Rv. 268639): potere officioso, questo, attivabile solo in bonam partem, posto che la pena favorevole all’imputato può essere corretta dalla Corte di cassazione solo in presenza di impugnazione del pubblico ministero, essendo limitato il potere di intervento d’ufficio, in sede di legittimità, ai soli casi nei quali l’errore sia avvenuto in danno dell’imputato (Sez. 5, n. 44897 del 30/09/2015, omissis, Rv. 265529; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013, RL 257672).
Si evidenziava altresì come sempre le Sezioni Unite, inoltre, avessero avuto modo di intervenire in ordine alla definizione del perimetro della nozione di “pena illegale” pronunciandosi, con riferimento a una sentenza di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. concordata sulla base dei parametri edittali dettati per le cosiddette “droghe leggere” dall’art. 73 d.P.R. 09/10/1990 n. 309 nella formulazione oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, omissis, riconduceva, in generale, nel novero della pena illegale la pena che, per specie ovvero per quantità, non corrisponde a «quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale»: la sentenza Jazouli quindi rimarcava come l’ambito dell’illegalità della pena si riferisse anche «ai classici casi di illegalità ab origine, costituiti, ad esempio, dalla determinazione in concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali».
Tal che, muovendo dall’insegnamento della sentenza Jazouli, si ribadiva come non fosse configurabile un’ipotesi di pena illegale ab origine la pena che sia complessivamente legittima, ma determinata secondo un percorso argonnentativo viziato, sicché, in tal caso, la relativa questione non è rilevabile d’ufficio dalla Corte di cassazione in presenza di un ricorso inammissibile (Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, omissis, Rv. 266080): nella prospettiva tracciata dalle Sezioni unite, la giurisprudenza di legittimità, tra l’altro, aveva già affermato la rilevabilità di ufficio da parte della Corte di Cassazione dell’illegalità della pena solo quando la stessa, così come indicata nel dispositivo, non sia per legge irrogabile, ma non anche quando il trattamento sanzionatorio sia di per sé complessivamente legittimo e il vizio attenga al percorso argomentativo attraverso il quale il giudice è giunto alla conclusiva determinazione dell’entità della condanna (Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, omissis, Rv. 255729; conf. Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, Rv. 257010).
Detto questo, gli ermellini, in questa pronuncia, denotavano come alla nozione di “pena illegale” la giurisprudenza di legittimità avesse fatto riferimento anche ai fini della definizione dell’ambito della sindacabilità — in punto determinazione della pena – della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. nel senso che, alla natura negoziale dell’accordo sulla pena e dall’individuazione del relativo oggetto (il “risultato finale”) discende una duplice ricaduta sul piano della sindacabilità, quanto alla determinazione della pena stessa, della sentenza di patteggiamento: per un verso, la generale irrilevanza degli errori relativi ai vari “passaggi” attraverso i quali si giunge al “risultato finale” e, per altro verso, la rilevanza di tali errori quando conducano ad una pena illegale e dunque, non rilevano, se non si traducono in una pena illegale, gli errori relativi ai singoli passaggi interni per la determinazione della pena concordata (Sez. 6, n. 44907 del 30/10/2013, omissis, Rv. 257151; conf., ex plurimis, Sez. 4, n. 1853 del 17/11/2005 – dep. 2006, omissis, cit.; Sez. 4, n. 518 del 28/01/2000, omissis, cit.), tra i quali gli errori compiuti nell’iter di determinazione della pena base (Sez. 5, n. 5047 del 21/10/1999, omissis, Rv. 214602) mentre, si evidenzia sempre in tale sentenza, tra i casi, invece, individuati dalla giurisprudenza di legittimità come integranti ipotesi di pena illegale con riferimento al patteggiamento, possono essere richiamati quelli della pena inferiore al minimo edittale ex art. 23 cod. pen. (Sez. 3, n. 29985 del 03/06/2014, omissis, Rv. 260263; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 4917 del 03/12/2003 – dep. 2004, omissis, Rv. 229995), dell’applicazione di una pena congiunta per una contravvenzione punita con pena alternativa (Sez. 1, n. 17108 del 18/02/2004, omissis, Rv. 228650; Sez. 1, n. 2174 del 14/03/1997, omissis, Rv. 207246; Sez. 1, n. 2322 del 22/05/1992, omissis, Rv. 191362), dell’erronea applicazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria (Sez. 5, n. 5018 del 19/10/1999 – dep. 2000, omissis, Rv. 215673), della mancata applicazione della pena prevista per il reato rientrante nella competenza del giudice di pace (Sez. 5, n. 13589 del 19/02/2015, Rv. 262943).
Da ultimo, una volta rilevato che, da un lato, le Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, avevano affermato che «l’illegalità della pena applicata all’esito del “patteggiamento” rende invalido l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza che l’ha recepito, così reintegrando le parti nella facoltà di rinegoziare l’accordo stesso su basi corrette», per altro verso, come sia in contrasto con il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., un procedimento di commisurazione del giudice del patteggiamento che si sviluppa all’interno di una comminatoria edittale in radice – e in toto – illegale proprio perché lesiva di un principio che dà corpo alla tutela di un «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali» (Corte cost., sent. n. 394 del 2006; sent. n. 236 del 2011), si giungeva alla conclusione secondo la quale l’ipotesi di pena illegale sia denunciabile anche con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta.
Esaurite queste questioni di rito, la Cassazione entrava nel merito della questione proposta al vaglio delle Sezioni Unite,
Nel procedere in tal senso, si reputava opportuno compiere una sia pur sintetica ricognizione della successione di leggi che viene in rilievo nel caso di specie.
A questo proposito si osservava come, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 23 marzo 2016, n. 41 (entrata in vigore il 25/03/2016), l’art. 589, secondo comma, cod. pen. comminava, per il fatto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, la pena della reclusione da 2 a 7 anni: la fattispecie di cui al secondo comma integrava una circostanza aggravante (ex plurimis, Sez. 4, n. 18204 del 15/03/2016, omissis, Rv. 266641; Sez. 4, n. 44811 del 03/10/2014, omissis, Rv. 260643) non soggetta, diversamente da quella di cui all’art. 589, terzo comma, cod. pen. (Sez. 4, n. 33792 del 23/04/2015, Rv. 264331), al regime derogatorio della disciplina relativa al giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee stabilito dall’art. 590-bis cod. pen. (sempre nella formulazione anteriore alla novella del 2016) e, di conseguenza, l’applicazione, come nel caso di specie, delle circostanze attenuanti generiche, poteva condurre all’irrogazione di una pena, nel minimo, di 6 mesi di reclusione, nel caso di giudizio di equivalenza, ovvero di 4 mesi di reclusione, nel caso di giudizio di prevalenza dell’attenuante.
Si faceva però al contempo presente come il quadro sanzionatorio fosse mutato radicalmente con l’avvento della legge n. 41 del 2016, che ha introdotto la fattispecie di omicidio stradale ex art. 589-bis cod. pen. trattandosi di autonoma fattispecie incriminatrice (Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, omissis, Rv. 270918), sicché l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche può condurre all’irrogazione, nel minimo, della pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione: pena, questa, individuata dalla sentenza impugnata prima della riduzione per il rito.
Rilevato ciò, si metteva in risalto come il contrasto nella giurisprudenza di legittimità, compendiato nella questione di diritto sopra richiamata, fosse ben espresso, in particolare, da due pronunce della Quarta Sezione, entrambe relative a fattispecie concrete di omicidio colposo (per inosservanza della normativa antinfortunistica, l’una, e delle norme sulla circolazione stradale, l’altra) ed entrambe caratterizzate da un significativo intervallo di tempo intercorso tra condotta ed evento e dalla sopravvenienza, tra l’uno e l’altra, di una disciplina legislativa più sfavorevole per l’imputato.
Nella prospettiva del primo orientamento, Sez. 4, n. 22379 del 17/04/2015, omissis, osserva la Corte in codesta decisione, era intervenuta in una fattispecie concreta in cui l’evento mortale si era verificato molti anni dopo la condotta e, nell’intervallo di tempo tra l’una e l’altro, erano sopravvenute due modifiche legislative che avevano comportato l’innalzamento dei limiti edittali dell’art. 589 cod. pen. (la legge 21 febbraio 2006, n. 102 e il d. I. 23 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, con legge 24 luglio 2008, n. 125) e, disattendendo i rilievi della difesa volti a censurare l’applicazione della più sfavorevole disciplina vigente al momento dell’evento, questa sentenza aveva ritenuto corretta la decisione del giudice di merito secondo cui per il trattamento sanzionatorio deve aversi riguardo «a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell’evento lesivo», sicché non vi è ragione di evocare l’art. 2, quarto comma, cod. pen. «per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato» e dunque «rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta»; in altri termini, è al momento della consumazione che bisogna avere riguardo per individuare la normativa applicabile e (solo) «rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta»: il che doveva escludersi nel caso in esame.
Sempre in relazione a questo approdo ermeneutico, si citava anche la Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, omissis, Rv. 260003, in ci era stata stimata corretta l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (oggi, art. 416-bis.l. cod. pen.) in relazione ai reati di importazione e conseguente detenzione di armi da guerra, nei confronti di un imputato il quale aveva intrapreso trattative con il venditore prima dell’introduzione della circostanza aggravante, laddove la condotta illecita si era perfezionata, per effetto dell’apporto di altri concorrenti, dopo l’entrata in vigore della nuova norma, ivi osservandosi in particolare, per un verso, che «il tempus commissi delicti è quello in cui si perfeziona la condotta o si verifica l’evento» (argomento, questo, sostanzialmente in linea con il primo orientamento), per altro verso, che l’indirizzo giurisprudenziale in tema di reati permanenti (in particolare, associativi) deve trovare applicazione «anche per i reati non permanenti, quando l’azione abbia avuto durata apprezzabile e si sia, comunque, conclusa (e dunque il reato abbia avuto consumazione) sotto la vigenza della nuova legge».
Tal che si evidenzia che, come osservato dall’ordinanza di rimessione, la sentenza appena citata presenta una duplice peculiarità, in quanto a venire in rilievo è una condotta ad “esecuzione frazionata” e le diverse “frazioni” sono state realizzate da diversi concorrenti: sotto questo secondo profilo, il problema dell’individuazione del tempus commissi delicti si intreccia, nel caso affrontato dalla sentenza in esame (dalla quale, peraltro, non risulta univocamente quale segmento del fatto si sia perfezionato dopo l’introduzione della circostanza aggravante e, in particolare, se si tratti solo dell’evento ovvero anche di una parte della condotta posta in essere dai concorrenti), con le diverse questioni attinenti all’individuazione dei requisiti necessari affinché la singola “frazione” di condotta assuma rilevanza ai fini del concorso di persone nel reato: questioni, afferenti sia al piano dell’elemento materiale, sia a quello dell’elemento soggettivo della fattispecie concorsuale, estranee al tema rimesso all’esame di queste Sezioni unite.
Al secondo orientamento le Sezioni Unite riconducevano la Sez. 4, n. 8448, del 05/10/1972, omissis, Rv. 122686 intervenuta, come si è anticipato, in una fattispecie concreta di omicidio colposo per violazione delle norme sulla circolazione stradale: tra la condotta e l’evento era stata introdotta la legge 11 maggio 1966, n. 296, che prevedeva un più severo trattamento sanzionatorio, applicato dal giudice di appello che, in parte qua, aveva riformato la sentenza di primo grado in quanto, aderendo all’impostazione del giudice di primo grado, detta decisione aveva osservato che, «al fine di stabilire la legge applicabile, non si tratta di individuare il momento della consumazione, ma quello nel quale il reato è stato commesso, come espressamente stabilisce la legge. E se vi sono reati nei quali commissione e consumazione coincidono, ve ne sono altri nel quali il momento della consumazione, col realizzarsi dell’evento, si verifica successivamente o può verificarsi successivamente».
Seguendo la tesi del giudice di appello, osserva ancora tale sentenza, si giungerebbe all’«applicazione retroattiva della legge nel caso di nuove o più gravi statuizioni penali, quando la condotta si sia esaurita sotto l’imperio di una legge che non prevedeva il fatto come reato, o che lo prevedeva meno grave di quanto non sia considerato dalla nuova ed in tal modo il reo verrebbe ad essere punito più gravemente per il fatto puramente casuale che nel periodo di tempo intercorrente tra la sua condotta e l’evento sia sopraggiunta la nuova legge, in tal modo determinandosi quell’incertezza sul grado di illiceità del comportamento umano che è escluso in modo assoluto dal principio dell’irretroattività».
Poiché il legislatore, uniformandosi ai princìpi di irretroattività e di non ultrattività, ha voluto distinguere tra commissione e consumazione del reato, rileva conclusivamente la sentenza da ultimo citata, non è lecito all’interprete identificare i due momenti: «e ciò tanto più appare esatto in quanto il precetto penale, alla cui violazione consegue quella determinata sanzione è rivolto al soggetto condizionandone l’attività psichica, che si estrinseca nella condotta nella misura nella quale tale condotta, in quanto causa di evento penalmente sanzionato, sia considerata illecita».
Orbene, una volta illustrati questi due diversi orientamenti nomofilattici, le Sezioni Unite ritenevano di dover condividere il secondo orientamento alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si evidenziava prima di tutto che le ragioni dell’adesione al secondo orientamento vengono in rilievo, in primo luogo, gli strumenti dell’interpretazione sistematica e la valorizzazione delle indicazioni offerte dai princìpi – innanzitutto costituzionali – che governano la successione di leggi penali atteso che, a fondamento del principio di irretroattività della norma più sfavorevole (che attiene non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle che «incidono sulla qualità e quantità della pena»: Corte cost., sent. n. 306 del 1993); nell’ambito dell’attuazione di questi principi, difatti si pone, essenzialmente, un’istanza di garanzia della persona contro i possibili arbìtri del legislatore, garanzia che l’art. 25, secondo comma, Cost. tutela quale «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali» (Corte cost., sent. n. 394 del 2006; sent. n. 236 del 2011): sotto questo profilo, rileva sempre la Corte, il principio di irretroattività della norma più sfavorevole si differenzia dal principio di retroattività della norma penale più favorevole, che rinviene il proprio fondamento non già nell’art. 25 Cost., ma, in primo luogo, nel principio di uguaglianza, essendo quindi «suscettibile di limitazioni e deroghe», che, tuttavia, «devono giustificarsi in relazione alla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo» (ex plurimis, Corte cost., sent. n. 215 del 2008, sent. n. 394 del 2006), nonché nell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 7 Cedu, parametro che, comunque, non attribuisce al principio di retroattività in mitius carattere assoluto e inderogabile, potendo esso, anche sotto questo profilo, subire «deroghe o limitazioni» (sent. n. 236 del 2011, cit.); invece, per il principio di irretroattività della norma più sfavorevole, viene in rilievo un’istanza di preventiva valutabilità da parte dell’individuo delle conseguenze penali della propria condotta, istanza, a sua volta, funzionale a preservare la libera autodeterminazione della persona (funzione, questa, che il divieto di retroattività condivide con il principio di determinatezza). Univoche, in tal senso, sono le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale: il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, infatti, «si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbìtri del legislatore, espressivo dell’esigenza della “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale» (Corte cost., sent, n. 394 del 2006; conf., ex plurímis, sent. n. 236 del 2011): esigenza, questa, «con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie» (sent. n. 230 del 2012).
Tal che la Cassazione giungeva a postulare che la condotta il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la “calcolabilità” delle conseguenze penali e, con essa, l’autodeterminazione della persona: ed è a tale punto di riferimento temporale che deve essere riconnessa l’operatività del principio di irretroattività ex art. 25 Cost., posto che “spostare in avanti” detta operatività, correlandola all’evento del reato, determinerebbe, qualora alla condotta interamente posta in essere nella vigenza di una legge penale sia sopravvenuta una normativa penale più sfavorevole, la sostanziale retroattività di quest’ultima rispetto al momento in cui è effettivamente possibile per la persona “calcolare” le conseguenze penali del proprio agire; con l’inevitabile svuotamento dell’effettività della garanzia di autodeterminazione della persona e della ratio di tutela del principio costituzionale di irretroattività.
Di conseguenza si giungeva a rilevare come la ratio di garanzia del principio di irretroattività della norma più sfavorevole e il suo necessario riferimento alla valutabilità delle conseguenze penali della condotta dell’uomo fossero decisivi nell’indirizzare la soluzione della questione rimessa alle Sezioni unite verso l’adesione al “criterio della condotta” anche perché si tratta di una ratio di garanzia della persona del tutto coerente con il principio personalista che il Costituente ha posto quale uno dei pilastri fondamentali dell’edificio costituzionale, secondo l’impostazione accolta con l’approvazione del c.d. ordine del giorno Dossetti.
Al riguardo si metteva in risalto come le indicazioni offerte dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente confermassero le ragioni dell’adesione al secondo orientamento dato che la disposizione recepita nel secondo comma dell’art. 25 Cost. è il frutto di un emendamento proposto, tra gli altri, dall’onorevole Giovanni Leone, che intervenne nel dibattito chiarendo il significato del principio di irretroattività, nella formulazione poi approvata, ossia stabilire «in maniera precisa che la norma di legge penale deve preesistere non solo all’evento, ma anche all’azione», poiché è in quest’ultima che «si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge»: una chiara traccia della necessità di correlare, dal punto di vista cronologico, il principio di irretroattività alla condotta dell’agente e non al successivo momento dell’evento così come di segno analogo è l’indicazione offerta dalla decisione delle Sezioni unite di questa Corte intervenuta sulle questioni scaturite dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui ammetteva al giudizio abbreviato l’imputato cui fosse addebitato un reato punibile con l’ergastolo (Corte cost., sent. n. 176 del 1991): muovendo dal rilievo della natura di trattamento penale di favore rivestita dalla riduzione di pena per il giudizio abbreviato, le Sezioni unite avevano infatti affermato che la garanzia dell’art. 25, secondo comma, Cost. deve essere intesa nel senso che se un trattamento penale più favorevole è ricollegato dalla legge ad una condotta «non può un’eventuale pronuncia di incostituzionalità di quella legge comportare un trattamento svantaggioso per chi ha tenuto quella condotta»; di qui la conclusione che la sentenza della Corte costituzionale non poteva determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo che avevano richiesto il giudizio abbreviato prima della dichiarazione dell’illegittimità (Sez. U, n. 2977 del 06/03/1992, omissis, Rv. 189399).
D’altronde, evidenzia sempre la Corte nella pronuncia in commento, la medesima prospettiva – con la sottolineatura del diverso regime cui sono sottoposti, in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma più favorevole, i “fatti pregressi” e i “fatti concomitanti” – è stata valorizzata dalla giurisprudenza di legittimità quando ha affermato che, in tema di successione di leggi nel tempo, la norma incriminatrice più severa, ripristinata per effetto della pronuncia di incostituzionalità di una successiva norma penale di favore, non può essere applicata ai fatti commessi durante la vigenza di quest’ultima, rispetto ai quali «non può avere svolto alcuna funzione di orientamento e di limite delle scelte di comportamento dell’agente», ma opera per tutti quei fatti pregressi commessi nella vigenza della norma non ancora modificata in senso più favorevole dalla disciplina dichiarata incostituzionale, fatti, quelli pregressi, che «dovevano essere “confrontati”, dal proprio autore, con le norme vigenti in quel momento» (Sez. 3, n. 28233 del 03/03/2016, omissis, Rv. 267410; conf., Sez. 3, n. 4185 del 19/10/2016 – dep. 2017, omissis, Rv. 269068; Sez. 4, n. 44808 del 26/09/2014, omissis, Rv. 260735) fermo restando che, anche a livello sovranazionale, in coerenza con la ratio di garanzia del principio di irretroattività, l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, sancisce il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe, in modo da assicurare, come ha chiarito la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale, esisteva una disposizione legale che rendesse l’atto punibile e che la pena imposta non abbia superato i limiti fissati da tale disposizione (Corte Edu, sentenza 22 giugno 2000, Coéme c. Belgio, § 145).
Ad ulteriore sostegno della tesi recepita, si evidenziava oltre tutto come l’identificazione, ai fini della successione di leggi penali, del tempus commissi delicti con quello della condotta tipica trovasse poi decisive conferme di ordine sistematico sul terreno delle funzioni costituzionali della pena dato che, da un lato, alla funzione di prevenzione generale, evocata nell’intervento dell’onorevole Leone sopra richiamato, è nel momento in cui agisce ovvero omette di compiere l’azione doverosa che l’agente si pone in contrasto con la funzione di orientamento della norma penale: ciò conferma che, ai fini della successione di leggi penali, il tempo del commesso reato va individuato nella condotta, ossia nel momento rispetto al quale la funzione di prevenzione generale della norma penale può in concreto esplicarsi, dall’altro, la medesima conclusione vale per la funzione rieducativa, la cui centralità nella definizione del volto costituzionale del sistema penale è stata di recente rimarcata dal giudice delle leggi richiamando il «principio della non sacrificabilità» di tale funzione «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (Corte cost., sent. n. 149 del 2018) in quanto, muovendo dalla lettura congiunta del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte, tra l’altro, dall’art. 25 Cost., la Corte costituzionale ha messo in luce come alla “possibilità di conoscere la norma penale” vada «attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti», in quanto tale possibilità è «presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest’ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato» e dunque, in questa prospettiva, con specifico riferimento al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, era stato sottolineato che, «avuto riguardo anche al fondamentale principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall’art. 27 Cost., ognuno dei consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo – sulla base dell’affidamento nell’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione […]: aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all’epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente» (Corte cost., sent. n. 364 del 1988).
La sottolineatura compiuta del momento della “commissione” e la sua correlazione all’affidamento sulle conseguenze penali previste dall’ordinamento legale richiamano ancora una volta, ad avviso della Corte, la rilevanza essenziale della condotta tipica e la necessità di individuare in essa il criterio per determinare il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali.
Ultimo aspetto affrontato è stato quello di esaminare, alla luce delle ragioni poste a fondamento dell’adesione al criterio della condotta, la questione dell’individuazione del tempus ai fini della successione di leggi penali con riguardo ad alcune figure di reato caratterizzate (non già dalla “distanza” tra condotta ed evento, bensì) dal protrarsi nel tempo della stessa condotta tipica evidenziandosi che una protrazione della condotta suscettibile di conoscere, nel suo svolgimento, il sopravvenire di una legge penale più sfavorevole si registra nel reato permanente, rispetto al quale la giurisprudenza di legittimità individua il tempus commissi delícti, ai fini della successione di leggi penali, nella cessazione della permanenza posto che, qualora la condotta antigiuridica si protragga nel vigore della nuova legge, è quest’ultima che deve trovare applicazione (ex plurímis, Sez. 3, n. 43597 del 09/09/2015, omissis, Rv. 265261; Sez. 5, n. 45860 del 10/10/2012, omissis, Rv. 254458; Sez. 3, n. 13225 del 05/02/2008, omissis, Rv. 239847; Sez. 1, n. 20334 del 11/05/2006, omissis, Rv. 234284; Sez. 1, n. 3376 del 21/02/1995, omissis, Rv. 200697) e quindi il protrarsi della condotta sotto la vigenza della nuova, più sfavorevole, legge penale assicura la calcolabilità delle conseguenze della condotta stessa che, come si è visto, dà corpo alla ratio garantistica del principio di irretroattività ed è dunque la legge più sfavorevole vigente al momento della cessazione della permanenza che deve trovare applicazione, ferma restando, per un verso, la necessità che sotto la vigenza della legge più severa si siano realizzati tutti gli elementi del fatto-reato (e, quindi, per il sequestro di persona, ad esempio, un’apprezzabile durata della limitazione della libertà personale della vittima), per altro verso, l’applicazione della legge più sfavorevole introdotta, quando la permanenza del fatto delittuoso era già in atto, presuppone, come rimarcato la dottrina, la colpevole violazione della nuova legge e, dunque, la possibilità – di regola assicurata dalla vacatio legis – di conoscerla e, “calcolandone” le conseguenze penali, di adeguare la condotta dell’agente.
Posto ciò, si evidenziava al contempo come i medesimi rilievi valessero anche per il reato abituale, in relazione al quale il tempus commissi delicti, ai fini della successione di leggi penali, coincide con la realizzazione dell’ultima condotta tipica integrante il fatto di reato osservandosi altresì come detto tema fosse stato affrontato dalla più recente giurisprudenza di legittimità soprattutto a proposito dell’introduzione del reato di atti persecutori e, dunque, in presenza – non già di uno ius superveniens portatore di un trattamento sanzionatorio più severo, bensì – di una nuova incriminazione, la cui applicabilità presuppone la realizzazione, dopo l’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. (e non solo, ad esempio, di un’ultima condotta persecutoria preceduta da altre intervenute prima della novella legislativa che ha previsto il reato): «per l’applicabilità della nuova norma non è quindi sufficiente che sia stato compiuto l’ultimo atto dopo la sua entrata in vigore, ma occorre che tale atto sia stato preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice» (Sez. 5, n. 54308 del 25/09/2017), mentre atti posti in essere prima dell’introduzione del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, con la legge 23 aprile 2009, n. 38, «non possono rientrare nella condotta prevista e punita dall’art. 612-bis cod. pen.», ma neppure «possono proiettare la loro irrilevanza penale su atti successivi – degradandoli a post factum non punibile» (Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 – dep. 2013, Rv. 255330; conf. Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260410; Sez. 5, n. 48268 del 27/05/2016, Rv. 268162).
Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, una volta enunciato il seguente principio di diritto in base al quale «In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta», si disponeva che la sentenza impugnata, che aveva applicato la pena concordata sulla base della legge più sfavorevole sopravvenuta alla condotta e vigente al momento dell’evento, dovesse essere annullata senza rinvio e dovesse disporsi la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato per l’ulteriore corso.
Conclusioni
La sentenza in questione è sicuramente condivisibile in quanto corroborata da numerosi precedenti giurisprudenziali oltre che autorevoli richiami al lavori compiuti dall’Assemblea Costituente.
Tal che ne consegue che, ove si dovesse verificare una evenienza giuridica di questo genere (ossia: nel caso di successione di leggi penali, una condotta sia stata interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole mentre un evento sia intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole), si dovrà far riferimento alla legge vigente al momento della condotta e non al momento in cui si è verificato tale evento.
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