Suicidio assistito: la Consulta ribadisce i limiti dell’illegittimità

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La Consulta ribadisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (suicidio assistito) nei limiti tracciati dalla sentenza n. 242 del 2019, ma non va oltre(?)
Per una panoramica sulla prima parte della vicenda, consigliamo l’articolo: Aiuto al suicidio e trattamenti di sostegno vitale: nuova questione di legittimità costituzionale

Corte costituzionale -sentenza n. 135 del 1-07-2024

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Indice

1. La questione: l’asserita illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. (suicidio assistito) oltre i limiti tracciati dalla sentenza n. 242 del 2019


Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze sollevava, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019» della Consulta, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
In particolare, fermo restando che il giudice a quo era chiamato a decidere, all’esito dell’udienza in camera di consiglio fissata ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura penale, su una richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze nel procedimento penale che vedeva talune persone indagate per il delitto di cui all’art. 580 cod. pen., a parere di questo giudice, la richiesta di archiviazione della Procura non poteva essere allo stato accolta.
Più nel dettaglio, in riferimento alle norme costituzionali che si assumevano essere state violate nel caso di specie, per il giudice rimettente, il requisito dell’essere la persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», tenuto conto tra l’altro come tale requisito non fosse stato definito dal Giudice delle leggi, né nell’ordinanza n. 207 del 2018, né nella sentenza n. 242 del 2019, essendovi soltanto, nell’ordinanza, il riferimento – con evidente valenza esemplificativa – a trattamenti «quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali», si sarebbe posto in contrasto, anzitutto, con l’art. 3 Cost., in quanto atto a determinare una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni concrete sostanzialmente identiche.
Invero, per il giudice a quo, a parità delle altre condizioni (irreversibilità della malattia, intollerabilità delle sofferenze che ne derivano, capacità di autodeterminazione dell’interessato), l’avveramento di quella censurata sarebbe il frutto di circostanze del tutto accidentali, legate alle condizioni cliniche generali della persona interessata (più o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestazione della malattia (connotata da uno stadio più o meno avanzato, oppure da una progressione più o meno rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonché alle stesse scelte del paziente (il quale potrebbe aver rifiutato fin dall’inizio qualsiasi trattamento).
Orbene, alla stregua di quanto appena esposto, per il giudice rimettente, la condizione in parola discriminerebbe i pazienti tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale e i pazienti – quali, ad esempio, i malati oncologici o affetti da patologie neurodegenerative, come nel caso di specie – che non possono accedere, per le caratteristiche accidentali della loro patologia, a tali trattamenti, ma che sono parimente irreversibili e costretti a patire sofferenze intollerabili, esponendosi ad una agonia altrettanto se non più lunga.
Oltre a ciò, si reputava come la differenziazione tra tali situazioni sarebbe irragionevole in quanto il requisito in questione sarebbe irrilevante, sia per la sussistenza e l’accertamento delle altre condizioni, sia, e soprattutto, per la tutela dei diritti e dei valori che la Corte costituzionale ha ritenuto indispensabile prendere in considerazione nel bilanciamento di interessi sotteso alla regolazione della materia dell’aiuto a morire visto che, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, la Corte avrebbe posto l’accento sulla necessità di contemperare le istanze di autodeterminazione e di salvaguardia della dignità con le esigenze di tutela della vita umana, soprattutto delle persone più vulnerabili, presidiata dal divieto dell’art. 580 cod. pen. mentre, nella successiva sentenza n. 50 del 2022, con la quale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo della fattispecie finitima dell’omicidio del consenziente, di cui all’art. 579 cod. pen., avrebbe individuato la ratio di tale micro-sistema normativo nell’esigenza costituzionale di proteggere, non solo le persone strutturalmente più fragili, ma qualsiasi soggetto da condotte autodistruttive che possono essere non sufficientemente meditate o frutto di una decisione assunta, per motivi anche contingenti, in condizioni di vulnerabilità.
Ebbene, alla luce di tali enunciati, sempre per il giudice a quo, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non potrebbe costituire un criterio regolatorio idoneo e proporzionato all’obiettivo di tutela, nel senso che essa non solo non renderebbe meno bisognoso di protezione il bene della vita, ma non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di morire, o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume mentre, viceversa, la preoccupazione dovrebbe essere semmai di segno opposto, essendo più elevato il rischio che una persona dipendente da trattamenti di sostegno vitale, per questo verosimilmente prossima alla morte, sia colta dalla tentazione di “lasciarsi andare” e che, anche a causa di pressioni esterne, possa assumere decisioni che in altre condizioni non avrebbe preso, ma tale obiezione era stata confutata dalla stessa ordinanza n. 207 del 2018, rilevando come la legge n. 219 del 2017 abbia già ammesso la possibilità di considerare validamente espressa la volontà di congedarsi dalla vita proveniente da persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, le quali, se capaci di autodeterminarsi, hanno diritto di ottenere l’interruzione delle cure.
Si riproporrebbe quindi, in conclusione, per il giudice fiorentino, la stessa situazione già stigmatizzata dalla Consulta, in relazione all’originario divieto assoluto di aiuto al suicidio, vale a dire: l’incriminazione, anche nella sua attuale portata, discriminerebbe le diverse categorie di pazienti in modo irragionevole e sproporzionato, senza che tale discriminazione possa «ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile» (ordinanza n. 207 del 2018).
D’altronde, sempre a detta di questo organo giudicante, le medesime considerazioni porterebbero, altresì, a ritenere che il requisito censurato implichi una ingiustificata lesione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.».
Invero, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non condurrebbe solo alla malattia e alla sofferenza, ma ne rappresenterebbe piuttosto un limite, come tale legittimo solo se giustificato da contro-interessi di analogo rilievo, reputati insussistenti.
Anzi, addirittura, il requisito finirebbe per condizionare «in modo perverso» l’esercizio della libertà del paziente, inducendolo ad acconsentire a trattamenti di sostegno vitale all’unico fine di soddisfare la condizione indicata dalla Corte costituzionale, per poi, subito dopo, chiedere l’accesso alla procedura per la morte assistita: e ciò anche quando, senza tale condizionamento, la persona avrebbe interrotto ben prima i trattamenti o li avrebbe rifiutati fin dall’origine, il che determinerebbe, come logico corollario, il profilarsi di uno scenario in palese contrasto con l’assetto ordinamentale, ormai cristallizzato dall’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017, che rimette unicamente alla libera scelta della persona se e come curarsi.
Detto questo, per il giudice a quo, risulterebbe per di più violato il «principio della dignità umana».
Difatti, fermo restando che tale principio era stato evocato dal Giudice delle leggi nell’ordinanza n. 207 del 2018, ai fini dell’accertamento dell’illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. nella versione all’epoca vigente, si notava come la violazione del principio in questione fosse stata ritenuta insita nel fatto che il divieto assoluto di aiuto al suicidio – ossia di una condotta che accelerasse i tempi del decesso, rispetto al decorso patologico naturale – avrebbe imposto al paziente «un’unica modalità per congedarsi dalla vita» (l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale), costringendolo «a subire un processo più lento» e «in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire», anche nella prospettiva delle sofferenze alle quali esso poteva esporre «le persone che gli sono care» posto che sarebbe di senso comune l’idea che la prolungata attesa della morte può comportare un maggior carico di sofferenza e di pregiudizio per i valori della persona, legato non solo al dolore derivante dalla malattia, ma anche alla contemplazione ormai disperata della propria agonia, nonché al fatto che a tale declino possano, o siano costrette ad assistere persone care: profilo in rapporto al quale verrebbe in rilievo, quale forma di estrinsecazione della personalità, l’interesse del paziente a lasciare una certa immagine di sé, coerente con l’idea che egli ha della propria persona, tenuto conto altresì del fatto che questi stessi argomenti potrebbero essere, peraltro, spesi anche in rapporto all’assetto attuale poiché esso finirebbe per imporre al malato irreversibile e intollerabilmente sofferente di attendere, anche per lungo tempo, quello che ormai è inevitabile, ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio che rende necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale (momento da cui, peraltro, andrà computato un ulteriore lasso di tempo per la procedura che porta alla morte assistita).
In questo modo, quindi, per il giudice rimettente, non solo si frustrerebbe la ratio della decisione della Consulta n. 242 del 2019, ma si introdurrebbe addirittura un fattore di pericolo per la stessa conservazione del bene della vita e per il rispetto della dignità della persona, nel senso che sostenere che l’aiuto al suicidio rientri nella dimensione della “legalità”, solo a condizione che la malattia degeneri fino a una fase terminale, rischierebbe di incentivare i propositi di suicidio da parte dei soggetti non intenzionati ad attendere la fine inesorabile i quali, non potendo ottenere l’aiuto di terzi, sarebbero spinti a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto generalmente riconosciuto di dignità.
Per il G.i.p. di Firenze, vi sarebbe, infine, una ulteriore censura di illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU, rilevanti quali parametro interposto di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost..
Difatti, per il giudice a quo, a fronte del fatto che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito, le disposizioni che limitano la liceità dell’aiuto al suicidio rappresentano interferenze nella libertà di autodeterminazione della persona, rientrante nel diritto al rispetto della vita privata e familiare, fermo restando che simili interferenze possono considerarsi quindi legittime, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 2, CEDU, solo in quanto volte a un fine legittimo e necessarie, tra le altre ipotesi, a «proteggere […] i diritti altrui», fra i quali indubbiamente rientra il diritto alla vita, riconosciuto dall’art. 2 CEDU, subordinare, però, la liceità dell’aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale costituirebbe, alla luce di quanto indicato in precedenza, una compressione del diritto in questione non funzionale, né tantomeno necessaria alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all’obiettivo, così come non gioverebbe, in senso contrario, sostenere che lo Stato mantiene un margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra la necessità di tutelare il diritto alla vita delle persone vulnerabili e quella di assicurare uno spazio di effettività alla libertà di autodeterminazione nelle questioni sul fine vita: margine di apprezzamento di cui l’ordinamento italiano si sarebbe avvalso col prevedere il requisito in discorso dal momento che un simile ragionamento troverebbe ostacolo nel principio di non discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU dato che, una volta che la normativa statale ammetta la libertà di essere aiutati a morire per i malati irreversibili e sofferenti, il godimento di tale libertà dovrebbe essere assicurato senza alcuna discriminazione legata alle condizioni personali del soggetto, ivi compresa quella – del tutto accidentale – di essere, o no, sottoposto a trattamenti di sostegno vitale.
Ebbene, alla luce di tali considerazioni, il rimettente chiedeva, quindi, conclusivamente alla Consulta di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen., «nella versione modificata dalla […] sentenza [n.] 242 del 2019», nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», rilevando contestualmente come ciò non significhi però chiedere una smentita dei principi enunciati nella citata sentenza, né tanto meno comporti una impugnazione surrettizia di quest’ultima, preclusa dall’art. 137, terzo comma, Cost. giacché, con la sentenza n. 242 del 2019, la Corte costituzionale avrebbe individuato una soglia minima di tutela da riconoscere ai diritti fondamentali del paziente, prendendo in considerazione, come in essa si legge, «specificamente situazioni come quella oggetto del giudizio a quo», e ciò, per il giudice fiorentino, non escluderebbe che lo «stimolo derivante dalla casistica» possa indurre il Giudice delle leggi a pronunciarsi di nuovo, analogamente a quanto è avvenuto in rapporto ad altre discipline, investite da ripetuti interventi demolitori a carattere puntuale, atteso che il divieto di aiuto al suicidio previsto dal codice penale, già superato nella sua originaria assolutezza, conserverebbe ancora una «portata sovraestesa», che necessiterebbe di ulteriore erosione per eliminare i residui di illegittimità, costituiti non tanto dai requisiti della non punibilità, bensì – guardando la fattispecie in negativo – dai perduranti spazi di rilevanza penale della condotta.

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2. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale


La Consulta – dopo avere fatto presente che l’art. 580 cod. pen. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva un’eccezione alla generale punibilità di ogni forma di aiuto al suicidio per le peculiari ipotesi in cui la persona aiutata sia «una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», sempre che – a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano state verificate, nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente (così: Corte cost., ud. 24/09/2019 (dep. 22/11/2019), n. 242) – osservava in via preliminare come l’ordinanza di rimessione summenzionata sollecitasse, ora, il Giudice delle leggi a estendere ulteriormente l’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio incriminate in via generale dall’art. 580 cod. pen., con riferimento ai pazienti rispetto ai quali sussistano i requisiti poc’anzi indicati sub (a) (patologia irreversibile), (b) (sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili) e (d) (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), ma rispetto ai quali difetti, invece, il requisito sub (c), e cioè l’essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
In particolare, come già esposto brevemente in precedenza, secondo il rimettente, la persistente operatività del divieto penalmente sanzionato in queste ipotesi avrebbe determinato la violazione: dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche; degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., sotto il profilo della eccessiva compressione della libertà di autodeterminazione del paziente; del principio della dignità umana; dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU, nel godimento del medesimo diritto alla vita privata.
Orbene, per i giudici di legittimità costituzionale, nessuna di tali questioni era fondata.
Nel dettaglio, dopo essersi fatto presente come il rimettente ritenesse, anzitutto, che la subordinazione della liceità della condotta alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale crei una irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri pazienti che versino, essi pure, in situazioni di sofferenza soggettivamente vissute come intollerabili, per effetto di patologie parimente irreversibili, per la Consulta, la circostanza che la specifica patologia da cui il paziente è affetto pregiudichi, o no, le sue funzioni vitali, tanto da richiedere l’attivazione di specifici trattamenti di sostegno a tali funzioni, non sarebbe indicativa di una sua maggiore o minore vulnerabilità, né di una maggiore o minore libertà e consapevolezza della sua decisione di porre fine alla propria vita; né, ancora, l’effettiva sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale sarebbe di per sé regolarmente associata a una maggiore sofferenza, che renda più umanamente comprensibile la sua decisione di ricorrere al suicidio assistito, evidenziandosi al contempo come queste ultime osservazioni siano, in sé, indiscutibili, prendendosi consapevolemente atto della intensa sofferenza e prostrazione sperimentata da chi, affetto da anni da patologie degenerative del sistema nervoso, e giunto ormai a uno stato avanzato della malattia, associato alla quasi totale immobilità e conseguente dipendenza dall’assistenza di terze persone per le necessità più basilari della vita quotidiana, viva questa situazione come intollerabile.
Ciò posto, nondimeno, il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale – che pure rappresenta un unicum nell’orizzonte comparato, svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019, nel senso che non si è riconosciuto, da parte della Corte costituzionale, un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma si è soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza, tenuto conto altresì del fatto che una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure, trattandosi di due situazioni differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost..
Precisato ciò, per quanto invece riguarda la seconda censura formulata dal rimettente, la Consulta assumeva come essa prescindesse dalla pretesa similitudine tra le due situazioni, assumendo che, se è vero che il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito a pazienti che non siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale» viola il diritto all’autodeterminazione del paziente, fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., non essendovi dubbio, al riguardo, che, dalle tre norme costituzionali menzionate, discenda il diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico, inclusi quelli necessari a garantirne la sopravvivenza, trattandosi di un diritto sul quale si fonda la valutazione di irragionevolezza del divieto di aiuto al suicidio prestato in favore di chi già abbia la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando un trattamento di sostegno vitale, la questione ora formulata muoveva, tuttavia, da una nozione diversa, e più ampia, di “autodeterminazione terapeutica”.
In effetti, il diritto a rifiutare il trattamento medico è nato e si è consolidato nella giurisprudenza italiana – costituzionale, civile e penale – da un lato come diritto al consenso informato del paziente rispetto alle proposte terapeutiche del medico; dall’altro, specularmente, come diritto a rifiutare le terapie medesime, fermo restando che, sotto quest’ultimo profilo, il diritto in questione è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita, e dunque – in definitiva – alla tutela dell’integrità fisica della persona, caratterizzandosi primariamente come libertà “negativa” del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita.
Per la Corte, però, strutturalmente differente è, invece, la situazione soggettiva invocata dall’ordinanza di rimessione, che la medesima Consulta ha definito nella stessa ordinanza n. 207 del 2018 (punto 7 del Considerato in diritto) come «sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona».
In particolare, pur prendendosi atto che, successivamente all’ordinanza n. 207 del 2018 e alla sentenza n. 242 del 2019, le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola hanno tratto proprio dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità (fondato, rispettivamente, sull’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, sull’art. 8 CEDU e sul combinato disposto degli artt. 10 e 15 della Costituzione spagnola), come pure dallo stesso mandato di tutela della dignità umana, l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi (Tribunale costituzionale federale tedesco, sentenza 26 febbraio 2020, nelle cause riunite 2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16, paragrafi 208-213; Tribunale costituzionale austriaco, sentenza 11 dicembre 2020, in causa G 139/2019-71, paragrafi 73 e 74), o comunque un «diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici» (Tribunale costituzionale spagnolo, sentenza 22 marzo 2023, in causa 4057/2021, pagine da 73 a 78), nel senso che, movendo dal riconoscimento di tale diritto fondamentale, le Corti tedesca e austriaca hanno concluso nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni che, nei rispettivi ordinamenti, ponevano limiti all’assistenza al suicidio, ovvero la vietavano; mentre la corte spagnola ha ricavato dal diritto in parola un preciso fondamento costituzionale della disciplina legislativa recentemente adottata in quel Paese in materia di eutanasia e assistenza al suicidio di persone capaci di autodeterminarsi, rammentandosi al contempo come fosse noto che altre giurisdizioni nel mondo sono pervenute a risultati simili, sulla base di principi funzionalmente analoghi a quelli invocati dall’odierno rimettente (ad esempio, Corte costituzionale della Colombia, a partire dalla sentenza 20 maggio 1997, C-239/97; Corte suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5; nonché, da ultima, Corte costituzionale dell’Ecuador, sentenza 5 febbraio 2024, 67-23-IN/24), il Giudice delle leggi, tuttavia – analogamente a quanto deciso dalla Corte EDU (sentenza Dániel Karsai contro Ungheria e, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito) e dalla Corte suprema del Regno Unito (sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, KSC 38) – riteneva di dover pervenire a diverso risultato.
Difatti, sebbene il Giudice del leggi convenisse con il rimettente – e con le intervenienti nel presente giudizio – che la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo, a suo avviso, tuttavia, se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa però crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost., fermo restando che i rischi de quibus non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte.
Ebbene, a fronte di tale ritenuta criticità, di evidente matrice extragiuridica, si reputava al contempo necessario sottolineare, a questo punto della disamina, come il compito della Consulta non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi, bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa, evidenziandosi al contempo che, in quest’ottica, la sentenza n. 50 del 2022 ha individuato – rispetto alla contigua fattispecie dell’omicidio del consenziente – una soglia minima di tutela della vita umana, che si impone al legislatore, così come al potere referendario, e che si risolve nella insostenibilità costituzionale di una ipotetica disciplina che dovesse far dipendere dalla mera volontà dell’interessato la liceità di condotte che ne cagionino la morte, a prescindere dalle condizioni in cui il proposito è maturato, dalla qualità del soggetto attivo e dalle ragioni da cui questo è mosso, così come dalle forme di manifestazione del consenso e dai mezzi usati per provocare la morte mentre, all’opposto, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto eccessiva, e pertanto costituzionalmente insostenibile, la compressione dell’autodeterminazione del paziente nella peculiare situazione descritta da tali pronunce, in cui questi avrebbe – comunque sia – la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando i trattamenti che ne assicurano la sopravvivenza, ovvero chiedendone l’interruzione.
Ebbene, nell’ambito della cornice fissata dalle pronunce menzionate, per i giudici di legittimità costituzionale, dovrà riconoscersi un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza, il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione, tenuto al contempo nel dovuto conto del dovere della Repubblica – in forza degli artt. 2, 3, secondo comma, e 32 Cost., oltre che dell’art. 2 CEDU – di assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze determinate dalle patologie di cui sono affetti e del contestuale dovere di assicurare loro ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale, psicologica.
Del resto, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, non coglieva, per altro verso, nel segno l’assunto del giudice a quo – questo sì pertinente alla libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie – stando al quale il requisito oggetto di censura condizionerebbe l’esercizio di tale libertà «in modo perverso», inducendo il malato ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito dovendosi rilevare, in senso contrario, che il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale la Consulta ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi.
Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, per la Corte, una distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, dovendo i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valere per entrambe le ipotesi, tanto più se si considera che sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito.
Chiarito ciò, per quanto inerisce la terza censura con cui, come suesposto in precedenza, si assumeva la contrarietà al principio di tutela della dignità umana di una situazione normativa che vieti, sotto minaccia di pena, di prestare assistenza a pazienti che chiedano di morire in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, salva la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale visto che, a parere del rimettente, ciò finirebbe per costringere il paziente a un lento processo di morte, quanto meno sino al momento in cui si renda in concreto necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con modalità che egli ben potrebbe considerare non conformi alla propria concezione di dignità, nel vivere e nel morire, la Consulta osservava come occorresse subito sottolineare che se, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga sicché certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta, altro discorso vale, però, per la nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione: nozione che si connette alla concezione che il paziente ha della propria persona e al suo interesse a lasciare una certa immagine di sé.
Ora, i giudici di legittimità costituzionale, sebbene non si reputassero affatto insensibili alla nozione “soggettiva” di dignità, come dimostrano i passaggi dell’ordinanza n. 207 del 2018 in cui proprio alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento (punti 8 e 9 del Considerato in diritto), tuttavia, notavano che questa nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte.
Ebbene, per la Consulta, rispetto a tale nozione, non possono non valere le considerazioni già svolte, circa la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre di un significativo margine di apprezzamento.
Infine, preso atto come il giudice a quo lamentasse, con la quarta censura, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 8 e 14 CEDU dato che, a suo avviso, la preclusione all’accesso al suicidio assistito di pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma capaci di decidere e affetti da patologie irreversibili che li espongono a sofferenze intollerabili, avrebbe leso il loro diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, secondo l’accezione fornitane dalla giurisprudenza di Strasburgo,  si osservava prima di tutto che, sebbene la Corte EDU abbia in effetti affermato che «il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà» costituisce «uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria vita privata» (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera, paragrafo 51; nello stesso senso, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 67), così come, in una recentissima pronuncia, la medesima Corte ha ribadito che una disciplina che vieti, sotto minaccia di pena, l’assistenza al suicidio di un paziente, necessariamente interferisce con il diritto di quest’ultimo al rispetto della propria vita privata (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 135), tuttavia, per il Giudice delle leggi, in questa stessa pronuncia la Corte EDU ha ribadito che gli Stati parte – anche in considerazione dell’assenza di un sufficiente consenso in materia tra i vari ordinamenti dei Paesi del Consiglio d’Europa – dispongono di un «considerevole margine di apprezzamento» (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 144; analogamente, sentenza Mortier contro Belgio, paragrafo 143; sentenza Haas, paragrafo 55) in ordine al bilanciamento tra tale diritto e gli interessi tutelati da simili incriminazioni, e segnatamente le ragioni di tutela della vita umana, fermo restando che tale bilanciamento può legittimamente condurre gli Stati, tanto a mantenere politiche restrittive, quanto alla regolamentazione di forme di assistenza al suicidio o di eutanasia, senza che quest’ultima opzione debba ritenersi preclusa dagli obblighi di tutela della vita umana discendenti dall’art. 2 CEDU (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 145).
Oltre a ciò, era per di più fatto presente come la Corte EDU abbia evidenziato la difficoltà di accertare che la decisione del paziente di accedere al suicidio assistito sia realmente autonoma, libera da influenze esterne e da preoccupazioni cui si dovrebbe fornire una diversa risposta, nonchè sottolineato come l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in situazioni cliniche, come le patologie neurodegenerative, in cui i pazienti, in stati avanzati della malattia, possono perdere la stessa capacità di comunicare (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 151), concludendo nel senso che spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 152).
Ebbene, a fronte di tale giurisprudenza convenzionale, la Consulta reputava come non fossero ravvisabili ragioni per discostarsi, nella lettura dell’art. 8 CEDU, dalla Corte di Strasburgo, che è (come riconosciuto da questa Corte già con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, rispettivamente ai punti 4.6. e 6.2. del Considerato in diritto) interprete ultima delle previsioni convenzionali, ai sensi degli artt. 19 e 32 CEDU, tanto più se si considera che una tale soluzione, d’altra parte, collima esattamente con quella cui questa Corte è pervenuta in merito alla censura relativa al principio di autodeterminazione nella sua declinazione “interna”, con riferimento in particolare all’art. 2 Cost..
Né, infine, sempre ad avviso della Corte costituzionale, poteva essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU e alle medesime conclusioni si giungeva a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost. dato che non può stimarsi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale.
Tutto ciò posto, si precisava inoltre che la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» utilizzata dalla stessa Corte costituzionale nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019 deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni, nel senso che, fermo restando che il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente, nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019.
Tutte queste procedure – proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere quindi legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto fermo restando che, in tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare.
Ad ogni modo, veniva sempre chiarito dalla Corte costituzionale nella pronuncia qui in commento, l’accertamento della condizione della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, nel senso ora precisato, deve essere condotto, unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati dalla sentenza n. 242 del 2019, e nel fare ciò, cruciale rilievo rileva, non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica –, ma anche la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative (sul tema, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 47), vale a dire una sofferenza che peraltro può risultare refrattaria a qualsiasi terapia palliativa, non potendosi considerare la sedazione continua profonda come un’alternativa praticabile rispetto a pazienti che non versino ancora in condizioni terminali, o che, comunque sia, rifiutino tale trattamento (sul punto, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafi 39 e 157).
Precisato ciò, la Consulta, a questo punto della disamina, riteneva doveroso riaffermare la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, che la medesima Corte costituzionale ha giudicato essenziali per prevenire quel pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili che l’aveva indotta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore.
Ebbene, il Giudice delle leggi chiariva come queste condizioni siano inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2, evidenziandosi al contempo come tale procedura preveda il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, al quale è affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze» (sentenza n. 242 del 2019, punto 5 del Considerato in diritto), tenuto conto altresì del fatto che, in attesa di un organico intervento del legislatore, la sentenza n. 242 del 2019 richiede il necessario parere del comitato etico territorialmente competente.
In ogni caso, sempre per la Corte di legittimità costituzionale, deve escludersi che la clausola di equivalenza, stabilita nel dispositivo della sentenza n. 242 del 2019 con riferimento ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, possa estendersi a fatti commessi successivamente – in Italia o all’estero –, ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza; fermo restando che l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie, così come rimane impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del delitto, compreso l’elemento soggettivo.
Infine, il Giudice delle leggi riteneva parimenti doveroso con forza ribadire l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, oggi ribaditi e ulteriormente precisati dalla presente decisione, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla presente pronuncia, così come era confermato lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 (punto 2.4. del Considerato in diritto), affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010, sul cui integrale rispetto giustamente insiste l’Avvocatura generale dello Stato visto che, come già sottolineato dalla Consulta, sin dall’ordinanza n. 207 del 2018, occorre in ogni caso assicurare, anche attraverso la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari, che «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza».
La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza summenzionata.

3. Conclusioni


Con la decisione in esame, la Consulta ribadisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. nei termini già esposti nella sentenza n. 242 del 2019, non andando oltre i termini di illegittimità costituzionale tracciati in questa pronuncia, con cui, come è noto, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale norma incriminatrice “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Semmai, a fronte delle questioni di illegittimità costituzionale prospettate dal G.i.p. di Firenze, la Consulta, nella pronuncia qui in esame, pone alcuni chiarimenti e rinnova l’invito al legislatore e al servizio sanitario ad intervenire nei termini prospettati già nel 2019 (con la sentenza n. 242) e ancor prima nel 2018 (con l’ordinanza n. 207), oltre che nella decisione qui in esame.
In particolare, quanto al primo profilo, per quanto concerne cosa debba intendersi per “trattamenti di sostegno vitale”, da un lato, si chiarisce come possano ritenersi tali tutti quei trattamenti che si rivelino in concreto necessari ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, dall’altro, si precisa che l’accertamento della condizione della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale deve essere condotto, unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati e nelle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019 (con particolare riguardo alla “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2), assumendo all’uopo cruciale rilievo, non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica –, ma anche la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative vale a dire una sofferenza che peraltro può risultare refrattaria a qualsiasi terapia palliativa, non potendosi considerare la sedazione continua profonda come un’alternativa praticabile rispetto a pazienti che non versino ancora in condizioni terminali, o che, comunque sia, rifiutino tale trattamento.
Ciò posto, quanto al secondo profilo, si rinnova per l’appunto l’invito affinché il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce nn. 207 del 2018 e 242 del 2019, ribaditi e ulteriormente precisati dalla decisione qui in analisi.
Non resta dunque che verificare se, e se si, in che termini, tale invito riceverà risposta da parte di queste istituzioni.

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