Secondo recente giurisprudenza, l’esercizio dell’attività di prostituzione, sia occasionale sia abituale, è sempre soggetto a tassazione ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF); il requisito dell’abitualità, invece, rileva soltanto ai fini dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA).
E’ questo l’orientamento che emerge dalla sentenza n. 22413 della Sezione Tributaria Civile della Corte Suprema di Cassazione pubblicata il 4 novembre 2016.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso degli avvisi di accertamento per recuperare a tassazione, ai fini IRPEF, redditi diversi nei confronti di una persona fisica che, tranne in un caso, non aveva mai presentato la dichiarazione dei redditi, pur risultando intestataria di diversi beni mobili e immobili.
Contro gli avvisi di accertamento la contribuente proponeva ricorso, sostenendo la non tassabilità dei redditi accertati in quanto provento dell’attività di prostituzione dai lei esercitata.
La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, accogliendo parzialmente il ricorso, “riconosceva rilevanza reddituale ai proventi dell’attività di meretricio”.
In appello, la Commissione Tributaria Regionale di Firenze confermava che “ … il reddito da meretricio non costituisce reddito esente o non imponibile e neppure provento da attività illecita, ma rientra tra i redditi diversi, tassabili a norma degli artt. 6 e 67 lett. l d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, derivanti da lavoro autonomo non esercitato abitualmente ovvero dalla assunzione di obblighi di fare o permettere (…)”, pur accogliendo soltanto parzialmente l’appello incidentale dell’Ufficio Finanziario che perciò proponeva ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte, nel giudicare infondato il ricorso incidentale della contribuente, indica quale sia il punto decisivo della controversia: il giudice di appello non ha qualificato i proventi dell’esercizio dell’attività di prostituzione quali redditi d’impresa, ma li ha qualificati, ai sensi degli artt. 6 e 67 lett. l) del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, quali “redditi diversi derivanti dall’attività di lavoro autonomo non esercitata abitualmente o dagli obblighi di fare”.
La presunta contraddittorietà della motivazione della sentenza di secondo grado, nella parte in cui stabilisce che la contribuente svolgeva attività di prostituzione in modo occasionale pur avendo clienti abituali, è una circostanza irrilevante.
Secondo gli Ermellini, infatti, “L’esercizio della attività di prostituzione, occasionale o abituale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi in ogni caso proventi rientranti nella categoria residuale dei redditi diversi prevista dall’art. 5 comma 1 lett. f) d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917; il requisito della abitualità è rilevante ai diversi fini dell’assoggettamento dei proventi dell’attività di prostituzione anche alle imposte indirette (Iva) a norma dell’art. 5 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, secondo cui costituisce esercizio di arti o professioni, soggette all’Iva, l’esercizio per professione abituale di qualsiasi attività di lavoro autonomo (in tal senso Sez.5, Sentenza n. 10578 del 13/05/2011, Rv. 618085)”.
Concludendo, in un momento in cui il dibattito politico sulla regolamentazione della prostituzione è tornato di attualità, sebbene con sensibilità diverse, tra chi preferisce non affrontare il problema per presunti precetti religiosi o per un sedicente spirito conservatore e chi ritiene invece più opportuno esaminare la situazione con una visione liberale, la sentenza in esame dovrebbe fare riflettere: legalizzare il “mestiere più antico del mondo”, oltre a garantire maggiori entrate pubbliche, sarebbe opportuno anche sotto il profilo dell’ordine pubblico ed assicurerebbe tutela igienica e sanitaria alle persone coinvolte.
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