Di obbligo per le Province di provvedere ai locali degli uffici di Prefettura e all’alloggio dei Prefetti si poteva sicuramente parlare con riferimento all’art.203 Legge comunale e provinciale del 1865; legge che poneva a carico delle Province anche le spese per il mobilio; onere che veniva eliminato a far tempo dal 1/1/1908 con legge 24/3/1907, n°116, per poi essere ripristinato con R.D. 19/4/1925, n°722 (sia pure diritto al rimborso, ma a forfait), ed infine nuovamente eliminato con l’entrata in vigore del T.U. sulla finanza locale. Con R.D. 26/9/1933, n°1937, veniva approvato il Regolamento per la gestione dei mobili ed arredi di proprietà dello Stato adibiti ad uso degli alloggi dei Prefetti; regolamento che confermava e specificava anche l’obbligo delle Province di fornire e mantenere in stato di buona manutenzione i locali e i giardini annessi. (1).
Quest’obbligo di provvedere venne poi ribadito nel Testo Unico della legge comunale e provinciale del 1934 (approvato con R.D. 3/3/1934, n°383), che all’art.144, comma 1, lett.b), inseriva tra le “spese obbligatorie” quelle sostenute dalla Province “per i locali degli uffici di prefettura, per l’alloggio dei prefetti, per i locali degli uffici provinciali, dei commissariati e delle delegazioni suburbane di pubblica sicurezza e degli uffici distaccati di pubblica sicurezza istituiti nei Comuni già sedi di sottoprefettura”. (2).
Con la legge 16/9/1960, n°1014, invece, tali spese vennero trasferite a carico dello Stato a decorrere dal 1° luglio 1959 (art.1, lett. b).
L’art.3 della legge 1014/1960, dopo aver precisato che “Qualora gli uffici e i servizi di cui ai precedenti artt. 1, lettera b), e 2 siano allocati in locali o stabili presi in affitto dalle Province, lo Stato subentra a queste nei relativi contratti con effetto dalle date rispettivamente previste nei precedenti artt. 1 e 2”, stabilisce altresì che “Nel caso invece di locali o stabili di proprietà delle Province, ferma restando la loro attuale destinazione fino a quando non sia diversamente provveduto d’intesa fra le parti, lo Stato corrisponde alle Province stesse, dalle rispettive date predette, un congruo canone di affitto”.
L’art.3 della legge 1014/1960 ha quindi introdotto una sorta di vincolo di destinazione sugli immobili di proprietà provinciale che alla data della sua entrata in vigore erano adibiti -in forza delle disposizioni prima richiamate- agli usi sopra indicati, col risultato che, in assenza di una diversa intesa tra le parti, le Province devono consentire queste locazioni per un “congruo canone di affitto”; requisito (di congruità del canone) espressamente stabilito dalla legge, che può essere oggetto di accertamento giudiziale in tutti i casi nei quali le Province non intendano aderire alle determinazioni dell’Agenzia del Demanio e l’Amministrazione dell’Interno non intenda discostarsi da tali determinazioni. Va, infatti, detto che il parere reso dall’Agenzia del Demanio alle Amministrazioni statali relativamente alla determinazione del canone di locazione di immobili adibiti a sede di pubblico ufficio è un parere tecnico obbligatorio che ha valore di presupposto per la validità dell’atto amministrativo, ma non è vincolante, fermo l’obbligo, in caso di determinazione difforme, di indicare espressamente i motivi che hanno indotto a non seguire detto parere: così Corte dei Conti, Sez. Contr. Stato, 2/3/1993, n°27, con riferimento ai pareri che in materia venivano allora espressi dall’Ufficio Tecnico Erariale.
Determinare la misura del canone significa anche tener conto delle procedure richieste per la stipula dei contratti con le Amministrazioni dello Stato. Ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 19 R.D. 18/11/1923, n°2440 (e succ. mod.), 36 e 117 del R.D. 23/5/1924, n°827 (e succ. mod.), 3, lett. g), L. 14/1/1994, n°20, l’esecuzione dei contratti stipulati dalle Amministrazioni statali è consentita solo dopo l’approvazione ministeriale (Corte dei Conti, Sez. Contr., 7/12/1995, n°157; Corte dei Conti, Sez. Contr., 8/3/1995, n°34), con decreto sottoposto al controllo preventivo della Corte dei Conti quando il valore dell’atto supera un determinato importo. Ergo, tra la data di stipulazione del contratto (c.d. contratto claudicante) e quella di esecuzione possono passare mesi ed anche anni, col risultato che anche la decorrenza del contratto è spostata alla data del decreto di approvazione.
Si è detto che l’art.3 della legge 1014/1960 ha introdotto una sorta di vincolo di destinazione sugli immobili di proprietà provinciale che alla data della sua entrata in vigore erano adibiti a determinati usi “fino a quando non sia diversamente provveduto d’intesa fra le parti”.
Il caso in cui tra le parti via sia accordo pieno ed attuale a provvedere diversamente rappresenta un’ipotesi talmente ovvia che non necessita di approfondimenti. I problemi, invece, sorgono quando un simile accordo (pieno ed attuale) non vi sia e a fronte di Amministrazioni Provinciali che manifestino l’esigenza di addivenire a soluzioni diverse si risponda da parte ministeriale opponendo il vincolo di legge.
In tali casi è necessario procedere ad un attento esame degli atti che regolano in concreto il singolo rapporto, perché una diversa “intesa tra le parti”, sì come richiesta dalla legge 1014/1960, potrebbe risultare anche da un contratto di locazione che attribuisca all’Ente proprietario la facoltà di impedirne la prosecuzione o la rinnovazione mediante disdetta. (3) (4).
Il contratto contenente una simile clausola, infatti, costituirebbe proprio quell’accordo (artt. 1321 e 1325 c.c.) e, quindi, quell’”intesa tra le parti” che la legge 1014/1960 richiede per la cessazione del vincolo di destinazione, nel senso che con la previsione (contrattuale) della disdetta le parti altro non farebbero che prevedere (e quindi accettare) che la cessazione del rapporto locativo possa aver luogo con l’esercizio di tale diritto potestativo. (5).
Può ritenersi, al riguardo, esemplare quella clausola contrattuale secondo cui “Il presente contratto sarà tacitamente rinnovato alle stesse condizioni di sei anni in sei anni qualora la parte proprietaria non formuli disdetta almeno dodici mesi (prima) di ciascuna scadenza, fermo restando, comunque, l’aggiornamento del canone ai nuovi parametri di mercato” (v. nota 3 e 4). Difficile in tal caso, infatti, giungere a conclusioni diverse da quelle cui siamo già pervenuti, perché se, come abbiamo visto, il requisito della congruità del canone è già stabilito dall’art.3 della legge 1014/1960 e se, come espressamente previsto, l’”aggiornamento del canone ai nuovi parametri di mercato“ va effettuato anche nel caso che il contratto si rinnovi tacitamente, per quale altra ragione (diversa da quella della cessazione del rapporto e del vincolo ex art.3 L.1014/1960) sarebbe stata pattuita la clausola di disdetta? E siccome ai sensi dell’art.1367 c.c. “le clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”, non può esservi alcun dubbio che le parti, con la previsione (contrattuale) della disdetta, abbiano altresì previsto ed accettato la cessazione del rapporto e del vincolo ex art.3 legge 1014/1960 quale conseguenza del concreto esercizio del diritto potestativo (contrattualmente) attribuito all’Ente proprietario.
Ma dubbi, al riguardo, non potrebbero esservi neppure laddove manchino queste specificazioni in materia di aggiornamento dei canoni, perché, da un lato, le conseguenze della disdetta non potrebbero che essere quelle sue proprie (mentre la questione dei canoni si pone su altro piano) e perché, dall’altro, la validità della clausola di disdetta discende direttamente dalla legge 1014/1960 che nello stabilire il vincolo di cui all’art.3 fa salva la diversa intesa tra le parti; diversa intesa che prende corpo, appunto, nel contratto di locazione contenente la clausola di disdetta.
Quanto esposto in ordine al contratto di locazione ed alla clausola di disdetta in esso eventualmente inserita può essere ripetuto per il caso in cui il rapporto in essere tra le parti debba essere inquadrato nell’ambito del regime concessorio (anziché locatizio) e la clausola di disdetta sia contenuta nella convenzione accessoria al provvedimento (amministrativo) di concessione.
Come è noto, i beni che appartengono agli enti pubblici territoriali si distinguono in beni demaniali (artt.822 e 824 c.c., nonché, per quanto qui interessa, l’art.53 D.Lgs. 22/1/2004, n°42), che non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (art.823 c.c.); beni del patrimonio indisponibile (art.826 c.c.), soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non sia diversamente disposto, alle comuni regole cui vanno soggetti tutti i beni (art.828 c.c.: essi non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano); e beni del patrimonio disponibile, soggetti alle regole comuni.
I beni che appartengono al demanio o al patrimonio indisponibile possono essere attribuiti alla disponibilità di soggetti terzi attraverso lo strumento della concessione amministrativa. (6). Per C. Cass., Sez.III, 26/4/2000, n°5346 (in Giust. Civ., Mass. 2000, 88), infatti, la disponibilità dei beni demaniali e similmente quella dei beni patrimoniali indisponibili, attesa la loro destinazione diretta alla realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuita ad un soggetto diverso dall’ente titolare del bene, entro certi limiti e per alcune utilità, solo mediante concessione amministrativa (7). D’altra parte, secondo C. Cass., Sez.III, 3/9/1998, n°8768 (in Giust. Civ. Mass. 1998. 1849), un rapporto “deve essere qualificato come concessorio in tutte le ipotesi in cui, anche se in forza di contratti di affitto, l’oggetto consiste nel godimento individuale, da parte di un soggetto privato, di un bene pubblico (…) tenuto presente che la concessione al privato, del godimento di beni del patrimonio indisponibile di enti territoriali integra, in ogni caso, una concessione amministrativa”. E “al fine della qualificazione della natura dell’atto stipulato, si rivelano – fra l’altro – irrilevanti – di per sè – sia l’eventuale denominazione meramente privatistica data all’atto stipulato, sia l’eventualmente comune difforme rappresentazione della natura dell’atto coltivata dalle parti”.
Orbene, all’atto di concessione può accedere (e normalmente accede) una convenzione attuativa (c.d. “concessione-contratto”), intimamente connessa al provvedimento amministrativo di concessione, insegnandosi che l’annullamento o revoca della concessione amministrativa travolgerebbe la convenzione, sì che la permanenza del rapporto contrattuale è in ogni caso condizionata dalla vigenza del provvedimento concessorio.
La clausola che consente all’Ente proprietario dell’immobile la facoltà di disdetta potrebbe quindi essere contenuta sia nel contratto di locazione (per i beni appartenenti al patrimonio disponibile), sia nella convenzione accessoria all’atto di concessione (per i beni appartenenti al demanio e al patrimonio indisponibile), realizzando in ogni caso quell’”intesa tra le parti” richiesta dall’art.3 legge 1014/1960 per la cessazione del vincolo di destinazione sull’immobile. (8).
Permanenza del vincolo di destinazione significa perpetuare senza scelta rapporti non paritari tra istituzioni in condizioni peraltro sempre meno conformi alle regole costituzionali (L. Cost. 3/2001), laddove libertà di contrarre significa poter valorizzare la scelta che la singola Amministrazione Provinciale intende fare (assumendosene la relativa responsabilità) applicando non già un obbligo imposto nel 1960 (e che ormai ha fatto il suo tempo) (9), quanto, semmai, il principio di leale collaborazione tra Enti e istituzioni pubbliche.
Stefano Gennai*
* Esperto servizi amministrativi della Provincia di Siena
(1) V. legge 20/3/1865, n°2248, allegato A e, altresì, l’allegato 3 al Regolamento di esecuzione approvato con R.D. 12/2/1911, n°297. Sui vari aspetti cfr. G. SOLMI, “La Provincia nell’ordinamento amministrativo vigente”, Cedam, Padova 1953, Pag.362.
(2) Il testo unico della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 3/3/1934, n°383, all’art.144, comma 1, lett.b), n°12, stabiliva che dovevano considerarsi obbligatorie anche le spese concernenti il “servizio di accasermamento dei corpi armati di polizia”. In effetti, l’art.295 del R.D. 30/11/1930, n°1629, attribuiva alle amministrazioni provinciali il compito di provvedere all’accasermamento degli agenti di pubblica sicurezza in conformità al R.D. 5/7/1923, n°1773, contenente norme sul passaggio alle Province del servizio di accasermamento ed alloggio dei Carabinieri.
Il servizio e la spesa vennero poi trasferiti allo Stato per effetto dell’art.5, comma 2, della legge 2/7/1952, n°703: “A decorrere dal 1° luglio 1952, viene trasferito a carico del bilancio dello Stato l’onere delle Province riguardante l’accasermamento delle Forze di Polizia ed il relativo servizio viene assunto direttamente dallo Stato a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge”.
Oggi, quindi, al riguardo, non residua alcun obbligo o vincolo da parte delle Province, le quali, a seconda del regime giuridico dei beni coinvolti, sono libere di stipulare o meno contratti di locazione in tutto e per tutto assoggettati alla comune disciplina (art.42 della L.392/1978) ovvero adottare (o meno) provvedimenti di concessione.
(3) E’, ad esempio, il caso del contratto di locazione dell’immobile adibito a Prefettura di Siena: contratto stipulato il 25/2/1997 ed approvato il 15/11/1999 con D.M. n°337701/01/1097, col quale veniva concessa in locazione al Ministero dell’Interno, per il periodo 15/11/1999-14/11/2005, un’intera ala del Palazzo della Provincia già adibita ad uffici della Prefettura ed alloggio prefettizio alla data di entrata in vigore della legge 1014/1960 ed ininterrottamente utilizzata a tali scopi in forza di precedenti contratti di locazione stipulati alla luce della stessa legge. Tale contratto contiene una stipulazione speciale secondo cui “Il presente contratto sarà tacitamente rinnovato alle stesse condizioni di sei anni in sei anni qualora la parte proprietaria non formuli disdetta almeno dodici mesi (prima) di ciascuna scadenza, fermo restando, comunque, l’aggiornamento del canone ai nuovi parametri di mercato”. Qui, come si vede, le parti, nel pattuire la clausola di disdetta, avevano ben presente che alla scadenza del contratto si sarebbe dovuto comunque procedere all’aggiornamento del canone, sì che la facoltà di disdetta costituisce inequivocabilmente un qualcosa in più che inerisce proprio alla cessazione del rapporto e, con esso, del vincolo di cui all’art.3 legge 1014/1960.
(4) Una diversa “intesa tra le parti” può consistere, a fortiori, in un contratto di locazione che le parti fin dall’inizio avessero voluto in tutto e per tutto soggetto alla comune disciplina delle locazioni immobiliari non abitative di cui alla legge 392/1978 (art.42), superando così i vincoli derivanti dalla legge 1014/1960. In tal caso, durata del contratto e facoltà di disdetta deriverebbero direttamente dalla disciplina legale dettata dagli artt.28 e 29 della legge 392/1978, ritenuta integralmente applicabile anche ai contratti stipulati ex art.42 della stessa legge: C. Cass., SS.UU., 9/7/1997, n°6227, in Giust. Civ. 1997, I, 2407 e in Giur. It. 1998, 1351.
(5) Conclusione cui è pervenuta la Provincia di Siena con riferimento alla clausola contrattuale riportata nella precedente nota (deliberazione G.P. n°275 in data 2/11/2004, reperibile su internet all’indirizzo: www.provincia.siena.it).
(6) Tutta da verificare, al riguardo, la portata dell’art.1, comma 1-bis, L.241/1990, introdotto dall’art.1 L.15/2005.
(7) Cfr., altresì, C.d.S., Sez.V, 16/4/2003, n°1991; C. Cass., SS. UU., 23 luglio 2001, n. 10013; C. Cass., Sez.III, 20/1/1998, n°489; C. Cass., SS. UU., 29 novembre 1994, n. 10199. Per C. Cass., SS.UU., 13/11/1997, n°11219 (in Giust. Civ. Mass. 1997, 2156), il bene destinato a pubblico servizio non può essere trasferito alla disponibilità di un soggetto privato a mezzo di un contratto di locazione, bensì a mezzo di concessione amministrativa, con la conseguenza che tutte le controversie relative a tale rapporto di concessione appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 5, primo comma, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034. Ai sensi del comma 2 di tale articolo, invece, come noto, "resta salva la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per le controversie concernenti indennità, canoni e altri corrispettivi" (v., al riguardo, Consiglio di Stato, Sez.V, 16/12/2004, n°8083. nonché C. Cass., Sez.III, 20/1/1998, n°489, già citata).
(8) Con riferimento a clausole di disdetta contenute in convenzioni accessorie, cfr. C.d.S., Sez. V, 13/3/2000, n.1327, in Foro amm. 2000, 891.
(9) Solo un cenno per la legge 28/11/2005, n°246 (“Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005”), che all’art.14 disciplina una complessa procedura al termine della quale “tutte le disposizioni legislative statali pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, sono abrogate”, rimanendo comunque in vigore “a) le disposizioni contenute nel codice civile, nel codice penale, nel codice di procedura civile, nel codice di procedura penale, nel codice della navigazione, comprese le disposizioni preliminari e di attuazione, e in ogni altro testo normativo che rechi nell’epigrafe l’indicazione codice ovvero testo unico; b) le disposizioni che disciplinano l’ordinamento degli organi costituzionali e degli organi aventi rilevanza costituzionale, nonché le disposizioni relative all’ordinamento delle magistrature e dell’avvocatura dello Stato e al riparto della giurisdizione; c) le disposizioni contenute nei decreti ricognitivi, emanati ai sensi dell’articolo 1, comma 4, della legge 5/6/2003, n°131, aventi per oggetto i principi fondamentali della legislazione dello Stato nelle materie previste dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione; d) le disposizioni che costituiscono adempimento di obblighi imposti dalla normativa comunitaria e le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali; e) le disposizioni tributarie e di bilancio e quelle concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco; f) le disposizioni in materia previdenziale e assistenziale; g) le disposizioni indicate nei decreti legislativi di cui al comma 14”, chiamati ad individuare “le disposizioni (…) delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore”.
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