PREMESSA
L’articolo 2 L. 241/90, rubricato “Conclusione del procedimento”, dispone al comma otto:
“Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini per la conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3 del presente articolo. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza. E’ fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.”
Il presente, breve scritto intende sviluppare alcune considerazioni di ordine logico e sistematico circa la portata ermeneutica del termine annuale di cui al citato comma.
LA SENTENZA N. 935/2009 DEL C.G.A.R.S..
Della questione si è occupato il C.G.A.R.S. con la sentenza in epigrafe; la quale, riformando T.a.r. Sicilia, sez. stacc. di Catania, sez. III, sent. n. 1847 del 17 ottobre 2008, ha ritenuto la perentorietà del detto termine.
Si trattava, nella fattispecie, di un militare che, avendo presentato nel corso dell’anno 2001 due istanze di riconoscimento di dipendenza da causa di servizio e conseguente erogazione di equo indennizzo per alcune malattie, non aveva ottenuto alcuna risposta dall’Amministrazione; quindi, con atto notificato nel maggio 2008, aveva chiesto che si completasse il procedimento per entrambe le sue richieste; avendo ottenuto solo risposte interlocutorie, ricorreva successivamente al TAR lamentando violazione dell’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il TAR accoglieva il ricorso nel presupposto della ordinarietà del termine di cui al detto art. 2.
Il C.G.A., riformando la statuizione del primo giudice, osservava che:
“La trascritta disposizione – se pure da un lato prevede un termine ordinatorio per la conclusione del procedimento amministrativo – dall’altro fissa un termine processuale annuale entro il quale è consentita la proposizione del ricorso, termine decorrente dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 e 3.
Tale termine è perentorio.
La locuzione usata dal legislatore non consente infatti di ritenere il termine quale ordinatorio per una duplice considerazione.
Innanzitutto la locuzione “comunque non oltre” non dà adito a perplessità, data la presenza della parola “comunque” che, in aggiunta a “non oltre”, rende insuperabile il termine annuale. E nella fattispecie in esame non è controverso che il termine per il completamento del procedimento, alla data della proposizione del ricorso, era scaduto da oltre un anno.
Va, poi, precisato che il ritenere perentorio il detto termine, non incide irreversibilmente sulla pretesa dell’interessato considerato che “è fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”. La riproponibilità dell’istanza (con le modalità previste per l’avvio del procedimento) e la conseguente mancanza di irreversibile lesione della pretesa sono ulteriori elementi che inducono ad escludere la ordinarietà del termine”.
SULLA NATURA DEL TERMINE ANNUALE DI CUI ALL’ART. 2, COMMA 8, L. 241/’90
Ancora sulla fattispecie all’esame del supremo consesso amministrativo occorre annotare che le Amministrazioni intimate, riscontrando l’istanza del 2008 con la quale l’interessato aveva chiesto il completamento dell’iter procedurale, avevano fornito notizie sullo stato dei due procedimenti, dimostrando così evidentemente l’obbligo di provvedere su di esse ancora incombente e che i due procedimenti iniziati sulla scorta delle domande del 2001 erano ancora in corso e non erano affatto conclusi.
Prendendo le mosse da tale annotazione in punto di fatto, intendiamo dimostrare come la tesi propugnata dal C.G.A. con la sentenza in esame non sia condivisibile.
Il supremo Consesso amministrativo ha ritenuto la perentorietà del termine annuale sulla scorta di due distinte considerazioni ermeneutiche:
– La prima, di ordine letterale, secondo cui la locuzione “ Comunque non oltre” renderebbe insuperabile il termine annuale;
– la seconda, di ordine logico, secondo cui “ la riproponibilità dell’istanza ( con le modalità previste per l’avvio del procedimento) e la conseguente mancanza di irreversibile lesione della pretesa sono ulteriori elementi che inducono ad escludere la ordinarietà del termine”.
Di seguito i motivi per i quali tale opzione ermeneutica appare non corretta a chi scrive.
1. Innanzitutto va osservato che appare concettualmente errata la considerazione di ordine logico secondo cui la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento escluderebbe la irreversibile lesione della pretesa giacchè si omette di osservare che essa è possibile solo “ ove ne ricorrano i presupposti” .
Nel fattispecie in esame – e quindi, ad esempio, in tutti i procedimenti di accertamento della dipendenza da causa di servizio ed in quelli relativi alla corresponsione dell’equo indennizzo – la riproponibilità rimarrebbe invece affatto preclusa giacchè non sarebbe possibile avviare un nuovo procedimento di riconoscimento di causa di servizio e conseguente e.i. per patologie insorte già da tempo, per effetto dello spirare dei termini semestrali di decadenza di cui all’art. 2, commi 1 e 6, del DPR 461/01.
Rimane pertanto così dimostrata la erroneità del canone ermeneutico adottato nella sentenza richiamata giacchè la natura perentoria del termine annuale in parola determinerebbe invece proprio quella “ …irreversibile lesione della pretesa” sostanziale che, invece, si pretenderebbe esclusa.
2. Ma occorre altresì osservare che la pretesa natura perentoria del termine implicherebbe il verificarsi di una vera e propria decadenza rispetto allo strumento processuale di cui all’art. 21 bis L.Tar per quello specifico procedimento ed anche- per quello che si dirà – della posizione sostanziale sottesa.
Tale decadenza significherebbe la perdita del diritto di ottenere:
– la declaratoria dell’accertamento dell’obbligo di provvedere da parte della P.A.;
– la declaratoria della violazione dei termini del procedimento e del conseguente ritardo;
– la condanna della P.A. a concludere il procedimento;
– la condanna della P.A. al conseguente risarcimento del danno da ritardo, ex art. 2 bis L. 241/90.
– Tali conseguenze – indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti per presentare un’altra istanza – si verificherebbero comunque per quel determinato procedimento, determinandosi così – contrariamente a quanto sostenuto nella richiamata sentenza C.G.A. 935/09 – una vera e propria decadenza e cioè la perdita delle sottostanti pretese sostanziali.
- La perdita della pretesa di ottenere le dette statuizioni appare in stridente contrasto con la ratio di tutta la L. 241/90 ed in particolare con quella della norma di cui all’art. 2 bis della L. 241/90 che disciplina le “Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento” statuendo che : “1. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. 2. Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni”.
Veramente contraddittoria sarebbe – da un canto – la esplicita previsione del generalizzato obbligo del risarcimento del danno da ritardo da parte della P.A. e – dall’altro – la introduzione di un termine decadenziale che determinerebbe l’impossibilità di fare constatare tale ritardo dal Giudice, e ciò – come nel caso che ne occupa – pur in pendenza del procedimento e pur riconoscendo l’Amministrazione l’obbligo di provvedere su di essa incombente.
Anzi – accedendo alla tesi qui avversata – si determinerebbe, invece, nell’Amministrazione l’interesse a non proseguire più quel procedimento per il quale il termine decadenziale si fosse maturato: infatti l’interessato non avrebbe più alcuno strumento per fare constatare l’obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione ed il suo ritardo né per ottenerne la condanna al risarcimento.
Dunque la decadenza opererebbe – come già osservato – non tanto sul piano meramente processuale quanto sul piano sostanziale, determinando la perdita della situazione giuridica che si era fatta valere.
- Che il legislatore del 2005 abbia inteso ottenere un simile, aberrante risultato appare veramente paradossale.
Si ponga mente, a riguardo, alla circostanza che sia il legislatore del 2005 che quello del 2009 – con le norme in tema di semplificazione amministrativa che hanno ampiamente rinnovellato la 241 – hanno inteso, invece, attribuire una grandissima rilevanza allo strumento di cui all’art. 21 bis il quale è finalizzato a garantire certezze nei rapporti con la P.A..
5. Come è noto le disposizioni contenute nella L. 241/90, come modificata dalla L. 15/2005, costituiscono principi fondamentali dell’ordinamento; infatti sia il vecchio testo dell’art. 29 della citata Legge (“Le regioni a statuto ordinario regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essa contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico”) sia il testo novellato dalla L. 15/2005 (“Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla presente legge.”), che tiene conto della riforma costituzionale del titolo quinto, chiaramente depongono in tal senso.
Ora il legislatore del 2009, intervenendo ancora una volta sul richiamato art. 29, ha sancito che: ( Art. 29, comma 2-bis) “Attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione le disposizioni della presente legge concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti”.
Ora – come è evidente – se le disposizioni inerenti l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine prefissato e quelle relative alla durata massima dei procedimenti costituiscono livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117 Cost. non può affatto ipotizzarsi – come invece pretende l’Amministrazione – una preclusione dello strumento di cui all’art. 21 bis – che invece ha proprio tali finalità acceleratorie – per effetto di decadenza né, tantomeno, che, per effetto di quest’ultima, si giunga alla perdita della posizione sostanziale sottostante, che si era fatta valere innanzi alla P.A., ogni qual volta non sia più possibile ripresentare l’istanza di avvio del procedimento, come nel caso che ne occupa.
6. Solo per tuziorismo si consideri, poi, che l’effetto decadenziale de quo si sarebbe determinato allo spirare di un anno dall’entrata in vigore della Legge 15/2005 che lo ha introdotto, per tutti quei procedimenti pendenti da lunghi anni per i quali i termini per provvedere erano già scaduti – come per tutti quelli di causa di servizio ed equo indennizzo.
Tale effetto si sarebbe verificato per svariate migliaia di procedimenti senza che i diretti interessati ne avessero la minima contezza atteso che:
– la esplicita previsione di decadenza non è affatto statuita dal Legislatore;
– che, anzi, la gran parte dei Tribunali amministrativi si stavano orientando a ritenere non decadenziale il detto termine;
– che la ratio delle novelle legislative del 2005 sembrava orientata piuttosto ad introdurre elementi di garanzia del cittadino nei confronti della P.A. .
7. Come precedentemente osservato, la decadenza de qua determinerebbe nell’Amministrazione l’interesse a non proseguire più quel procedimento per il quale il termine annuale si fosse maturato; e ciò con la conseguente perdita in capo all’interessato – almeno per tutte le fattispecie nelle quali, come nel caso che ne occupa, non sia possibile ripresentare l’istanza di avvio del procedimento – della posizione giuridica che si era fatta valere.
Effetto che contrasterebbe anche – ad avviso di chi scrive – con gli artt. 2 e 29, comma 2-bis della stessa legge n. 241/1990 nella parte in cui hanno fissato il principio generale – che attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione – dell’obbligo per la pubblica amministrazione di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso e di concluderlo entro il termine prefissato.
- L’evoluzione giurisprudenziale ha portato a ritenere che l’obbligo in parola non sussiste soltanto nelle seguenti ipotesi: a) istanza di riesame dell’atto inoppugnabile per spirare del termine di decadenza (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, n. 69/1999; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, n. 5014/200); b) istanza manifestamente infondata (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, n. 6181/2000; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, n. 1969/2002); c) istanza di estensione ultra partes del giudicato (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, n. 4592/2001).
Nel caso che ne occupa, pur non essendosi verificata nessuna di tali ipotesi, lo spirare del termine annuale avrebbe determinato comunque il venir meno dell’obbligo di provvedere da parte della P.A. .
9. Anche dal punto di vista strettamente letterale la tesi della perentorietà del termine appare errata in quanto in contrasto con la specificazione “ fin tanto che perdura l’inadempimento”.
Infatti tale locuzione rimarrebbe priva di alcun senso accedendo a detta tesi.
10. Ancora va osservato che la tesi qui avversata contrasterebbe con la disciplina della stessa L. 15/2005 nella parte in cui, escludendo l’obbligo di previa diffida, ha chiaramente inteso semplificare la proponibilità dell’azione avverso l’inerzia della p.a., al fine di offrire maggiore tutela al cittadino.
Il legislatore sarebbe stato veramente irrazionale se da un canto avesse, dunque, semplificato la proponibilità dell’azione mentre dall’altro avesse previsto un termine decadenziale prima inesistente.
- Va infatti ricordato che prima della L. 15/2005 lo strumento processuale de quo non era infatti soggetto ad alcun termine se non a quello ordinario di sessanta giorni, decorrenti dalla formazione del silenzio, formatosi a seguito della inutile proposizione della diffida a provvedere.
Ma tale termine era, pertanto, direttamente nella disponibilità dell’interessato il quale poteva, in qualunque momento e quindi anche ad anni di distanza dall’avvio del procedimento, procurarsi la formazione del silenzio attraverso una attività – la notifica della diffida – che rimaneva esclusivamente di suo impulso.
Nella vigenza, dunque, della previgente normativa non era l’inerzia tout court dell’Amministrazione a determinare la decadenza dalla proponibilità dell’azione ex art. 21 bis L. Tar quanto, piuttosto, un atto di impulso dell’interessato, dalla cui notifica decorreva il termine ordinario di decadenza.
Di tal che – da un canto – l’Amministrazione rimaneva comunque obbligata a provvedere fin tanto che l’interessato avesse notificato tale atto di impulso ( anche a distanza di molti anni dall’avvio del procedimento) e – d’altro canto – la determinazione del dies a quo del termine di decadenza rimaneva nella piena disponibilità dell’interessato.
In sostituzione di tale previsione normativa che determinava una situazione di certezza del cittadino nei rapporti con la P.A. se ne sarebbe invece – secondo la tesi avversaria – introdotta un’altra nella quale la decorrenza del termine decadenziale, questa volta annuale, non sarebbe più nella disponibilità del privato che sarebbe, invece, tenuto a conoscere, per ciascuno dei procedimenti amministrativi, il suo termine di durata massima.
Cosicché dalla violazione dei termini del procedimento da parte della P.A., termini ritenuti per essa ordinatori e difficilmente conoscibili per il privato, decorrerebbe per quest’ultimo un termine per lui invece perentorio, la cui violazione gli causerebbe, nella maggior parte dei casi, anche la perdita della pretesa sostanziale fatta valere.
Va dunque ribadito – in conclusione – che tale opzione ermeneutica appare sostanzialmente in contrasto con la ratio delle novelle del 2005 che hanno inteso, invece, semplificare e facilitare il ricorso al citato strumento processuale.
L’ORIENTAMENTO DEI TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI
Posto quanto sopra, appare senz’altro più ragionevole e conforme alla volontà del legislatore l’orientamento dei Tribunali amministrativi regionali che – in maniera pressoché uniforme – sono contrari a ritenere il detto termine come decadenziale.
Sulla questione è stato ritenuto che “ …il suddetto termine di un anno non costituisce un vero e proprio termine di decadenza (come tale regolato dagli articoli 2964 e ss. cod. civ.), ma una mera presunzione legale assoluta, avente ad oggetto la persistenza dell’interesse ad agire in giudizio per il rilascio del provvedimento richiesto, nonostante il decorso di un notevole lasso di tempo dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento. Infatti, mentre nei casi di decadenza l’inerzia del titolare della situazione giuridica soggettiva è sanzionata dal legislatore con la perdita della situazione giuridica soggettiva stessa, nella fattispecie in esame l’inerzia dell’interessato non preclude, per espressa previsione di legge, la possibilità di proporre nuovamente l’istanza laddove ne ricorrano i presupposti.” (T.A.R. Lazio Roma, Sez. III, 25 luglio 2007, n. 6920; T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII 14 febbraio 2007, n. 1092; Sez. IV, 4 aprile 2006, n. 3382).
Tribunale Amministrativo Regionale – LAZIO – Roma Sezione 1, Sentenza 21.07.2008, n. 7121:
“… 2.4. I controinteressati hanno poi, in vario modo, dedotto la decadenza della Provincia dall’azione di accertamento del silenzio rifiuto, in relazione alla disciplina introdotta prima dalla l. n. 15/2005 poi dal d.l. n. 35/2005 conv. in l. n. 80/2005.
Come noto, ai sensi dell’art. 2 comma 5, della l. n. 241/90, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 6 bis, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, così come integrato dalla relativa legge di conversione, Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’articolo 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
Secondo i controinteressati, vertendosi in ordine ad un’istanza risalente a più di sette anni fa, il dies a quo dell’azione giudiziaria deve ricollegarsi alla stessa entrata in vigore della norma introduttiva della facoltà del ricorso diretto in via giurisdizionale, o, comunque, alla scadenza del termine di novanta giorni fissato dal comma 3 della disposizione in esame.
In entrambi i casi, sia la diffida che la notifica del ricorso (intervenuti rispettivamente il 23.5.2006 e il 21.5.2007) sarebbero tardivi.
Essi, però, trascurano di considerare che il termine di un anno non costituisce un vero e proprio termine di decadenza ma una sorta di presunzione legale, avente ad oggetto la persistenza dell’interesse ad agire in giudizio per il rilascio del provvedimento richiesto, nonostante il decorso di un notevole lasso di tempo dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento. Infatti, mentre nei casi di decadenza, l’inerzia del titolare della situazione giuridica soggettiva è sanzionata dal Legislatore con la perdita della situazione giuridica soggettiva stessa, nella fattispecie in esame, l’inerzia dell’interessato non preclude, per espressa previsione di legge, la possibilità di proporre nuovamente l’istanza laddove ne ricorrano i presupposti (T.A.R. Lazio Roma, Sez. III, 25 luglio 2007, n. 6920).
In tale ottica, la diffida inoltrata in data 23 maggio 2006 rappresenta, sostanzialmente, un nuovo atto di impulso in quanto espressione del permanente interesse della Provincia ad ottenere la definizione del procedimento avviato in data 14 marzo 2001, con la conseguenza che i ricorsi, notificati prima dello spirare del termine annuale, decorrente dalla diffida, devono ritenersi tempestivi.”
L’insegnamento del Tar del Lazio, applicato alla fattispecie in esame, induce ad affermare che, per effetto della istanza presentata dall’interessato nel corso del 2008, permanesse l’obbligo da parte dell’Amministrazione di provvedere sulle sue istanze; tale diffida manifestava infatti la persistenza del suo interesse al procedimento. L’Amministrazione – d’altro canto – nelle sue risposte interlocutorie aveva chiaramente affermato la persistenza del suo obbligo di provvedere.
CONCLUSIONI
Per quanto fin qui esposto, appare più coerente con la logica ordinamentale ritenere che la violazione del termine annuale in parola non determini alcuna decadenza per l’interessato al procedimento.
E’ pertanto auspicabile che il Supremo Consesso Amministrativo, ritornando ad esaminare la questione, fornisca una interpretazione della norma che meglio si attagli alla ratio delle ultime novelle della L. 241/90, tutte improntate ad introdurre nuovi e più efficaci strumenti di tutela del cittadino nel confronti della P.A. inadempiente.
Catania 07/07/10
Avv. Antonello Leone
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