Interessante arresto della sesta Sezione del Consiglio di Stato in ordine alla natura giuridica della denuncia di inizio attività ed ai rimedi esperibili da parte del terzo (controinteressato) in assenza di intervento inibitorio da parte della P.A. nei termini prescritti dalla legge.
Nella sentenza in commento il massimo consesso della Giustizia amministrativa avverte che “La d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell’attività, come da molti sostenuto, ma rappresenta una semplificazione procedimentale, che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni) dalla presentazione della denuncia; la liberalizzazione di determinate attività economiche è cosa diversa e presuppone che non sia necessaria la formazione di un titolo abilitativo.
Nel caso della d.i.a., con il decorso del termine si forma una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a..
Il ricorso avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. ha, quindi, ad oggetto non il mancato esercizio dei poteri sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente l’assentibilità, o meno, dell’intervento.
Un sostegno in favore della diretta impugnazione della d.i.a.. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19, della legge n. 241/90 (con l’art. 3 del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla L. 14 maggio 2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a.. il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. Se è ammesso l’annullamento di ufficio, parimenti, e tanto più, deve essere consentita l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo.”
Com’è noto, fino dalla sua introduzione nell’ordinamento la D.I.A. ha affaticato dottrina e giurisprudenza nella ricerca di un inquadramento teorico dell’istituto.
Alla base di una siffatta difficoltà concettuale si poneva la peculiarità della fattispecie, nella quale, abbandonato il tradizionale schema fondato sulla presentazione di un’istanza da parte del privato alla quale consegue l’adozione di un provvedimento amministrativo (in disparte le ipotesi di silenzio qualificato e di silenzio-inadempimento), il titolo autorizzatorio a favore del privato trae origine direttamente da una semplice dichiarazione (e non istanza) e dal successivo mancato esercizio da parte della Amministrazione dei propri poteri inibitori nel termine stabilito dalla legge: una volta decorso tale termine senza che la P.A. abbia rilevato la contrarietà dell’intervento denunciato alla normativa vigente, inibendone l’esecuzione, il privato può infatti intraprendere l’opera programmata.
Fermo restando che in tal caso è innegabile che il privato denunciante risulti in possesso di un titolo per iniziare l’attività, resta il problema di individuarne concretamente la natura giuridica.
In dottrina e giurisprudenza sono state sviluppate le più variegate ricostruzioni teoriche: la D.I.A. è stata talora configurata quale atto che “tien luogo del provvedimento finale” in virtù di una equiparazione discendente ope legis (cfr. T.A.R. Veneto, sez. II, 20 giugno 2003, n. 3405), altre volte è stata ricondotta al genus delle autorizzazioni tacite (in questo senso Cons. Stato, sez. V, 20 gennaio 2003 n. 172), più spesso è stata valutata alla stregua di un mero atto privato non ricollegabile ad alcuna specifica fattispecie provvedimentale, il quale, in relazione ad attività che si sono ritenute soggette a liberalizzazione, costituirebbe titolo sufficiente a consentire l’intrapresa dell’attività anche senza la pronuncia della P.A. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916; per una più approfondita trattazione dei vari orientamenti si rinvia alla esaustiva ricostruzione elaborata da D. Pantano, Natura giuridica della d.i.a. e tutela dei terzi, in www.altalex.com, del 1/9/2006).
A quest’ultima ricostruzione ha peraltro aderito in tempi recenti la giurisprudenza maggioritaria.
Il Consiglio di Stato ha in particolare più volte ribadito che la denuncia di inizio attività rappresenta un atto di parte, il quale, in assenza di un successivo potere inibitorio da parte della P.A. nel termine stabilito, non determina il formarsi di un’autorizzazione implicita, ma produce solo l’effetto di consentire al privato l’inizio dell’attività denunciata.
Secondo tale indirizzo, peraltro, la D.I.A., in quanto atto privo di valenza provvedimentale, non può costituire oggetto di ricorso giurisdizionale, eventualmente proposto da un terzo che all’intrapresa dell’attività intenda opporsi: la tradizionale impostazione del giudizio amministrativo quale giudizio sugli atti amministrativi preclude sistematicamente di devolvere alla cognizione del Giudice amministrativo fattispecie non assimilabili al paradigma provvedimentale.
Sicchè, l’unico rimedio esperibile da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale l’Amministrazione non abbia esercitato alcuna potestà inibitoria, consiste nel sollecitare l’intervento repressivo dell’Amministrazione stessa con formale istanza, e nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453; Id., sez. V, 22 febbraio 2007, n. 948).
Nella sentenza di seguito riportata la sesta sezione del Consiglio di Stato abbandona tale indirizzo, basato peraltro su un’impostazione alquanto barocca e piuttosto gravosa in termini di economia procedimentale ed effettività della tutela giurisdizionale, riconoscendo invece alla D.I.A. natura di autorizzazione implicita con valenza provvedimentale ed ammettendone l’impugnazione immediata da parte del terzo; come detto, a sostegno della determinazione assunta, il Giudice capitolino ricava un argomento fondato sulla recente introduzione del potere di annullamento d’ufficio della D.I.A. da parte della P.A., dalla quale si può inferire la natura provvedimentale e la diretta impugnabilità della stessa.
Alla luce di tale arresto giurisprudenziale occorre svolgere due ultime considerazioni.
Fermo restando che il pericolo di ulteriori oscillazioni giurisprudenziali non appare affatto scongiurato (e tanto giustificherebbe una rimessione della questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato), si evidenzia che:
sul versante della tutela giustiziale, la possibilità di intraprendere direttamente l’azione giudiziale di annullamento può fornire a chi patisce nocumento dall’attività intrapresa da terzi a seguito di D.I.A. maggiori possibilità di ottenere una celere soddisfazione della propria pretesa sostanziale;
sul piano prettamente scientifico, l’acclarata valenza provvedimentale della D.I.A. induce, in adesione ad una tesi già adombrata dal Presidente del T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Vincenzo Borea, in occasione dell’ Inaugurazione dell’anno giudiziario 2006 (il testo dell’intervento è disponibile sul sito www.giustizia-amministrativa.it), ad accostare tanto l’istituto della denuncia di inizio attività in materia di edilizia (cfr. artt. 22 e 23 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) quanto quello della dichiarazione di inizio attività, prevista per i titoli autorizzatori necessari per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianaledi cui all’art. 19 della legge n. 241/1990, al modello del silenzio-assenso, regolato dal successivo art. 20 di quest’ultimo testo normativo.
Ed infatti, entrambe le ipotesi di D.I.A. appaiono sovrapponibili sotto svariati profili al meccanismo del silenzio-accoglimento: lo stesso termine (30 giorni), decorso il quale il titolo autorizzatorio si intende formato; una sostanziale uniformità di disciplina; la sussistenza degli stessi poteri di repressione dell’attività in capo alla P.A. anche successivamente alla formazione del titolo abilitativo (ora estesi tanto per la D.I.A., quanto per il silenzio-assenso, anche alla possibilità di assumere anche determinazioni in via di autotutela ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della legge n. 241/1990).
L’unica differenza potrebbe rinvenirsi nella circostanza che nel caso della D.I.A. il titolo scaturirebbe da una mera dichiarazione, mentre nel silenzio-assenso l’impulso iniziale della procedura coinciderebbe con la presentazione di una formale istanza: in realtà, però, la diversa veste formale degli atti di parte dai quali traggono l’abbrivio i due istituti si riduce ad un mero dettaglio, posto che in definitiva, come qui si sostiene, entrambi sfociano pur sempre nella formazione di un provvedimento amministrativo (implicito).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.1550/2007
Reg.Dec.
N. 6809-7036 Reg.Ric.
ANNO 2006
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Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sui ricorsi riuniti in appello nn. 6809/2006 e 7036/2006 proposti rispettivamente:
1) ricorso n. 6809/2006 dall’IMPRESA *** S. *** S.R.L. in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Gianluigi Pellegrino e *** Cugurra con domicilio eletto presso il primo in Roma Corso del Rinascimento n. 11;
contro
COMUNE DI COLLECCHIO, in persona del Sindaco p.t., non costituitosi;
*** COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Ermes Coffrini e Massimo Colarizi con domicilio eletto presso il secondo in Roma via Panama n. 12;
*** IMMOBILIARE S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., non costituitosi;
2) ricorso n. 7036/2006 da *** IMMOBILIARE S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv. Antonio Andreoli e Gianluigi Pellegrino con domicilio eletto presso il secondo in Roma Corso del Rinascimento n. 11;
contro
COMUNE DI COLLECCHIO, in persona del Sindaco p.t., non costituitosi;
*** COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Ermes Coffrini e Massimo Colarizi con domicilio eletto presso il secondo in Roma via Panama n. 12;
IMPRESA TREVERSE S. *** S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., non costituitosi;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna Sez. di Parma n. 296/2006.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio delle parti appellate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 13 febbraio 2007 relatori i Consiglieri Carmine Volpe e Roberto Chieppa.
Uditi l’Avv. Pellegrino e l’Avv. Colarizi;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O E D I R I T T O
1. La società *** Immobiliare s.r.l., attuale controinteressata, in data 3/2/2004 presentava al Comune di Collecchio denuncia di inizio attività (d.i.a.) per l’installazione, in area di proprietà della stessa ubicata in strada Roma in località Madregolo, di un impianto tecnologico per la produzione di traversine ferroviarie.
Essendo l’immobile interessato dall’intervento posto in zona di pre – parco del fiume Taro, vincolata ai sensi del D. Lgs. n. 490 del 1999, il Comune chiedeva il necessario parere ai fini del rilascio dell’autorizzazione ambientale alla Commissione per la Qualità Architettonica e per il Paesaggio.
In data 3/5/2004 il Comune rilasciava l’autorizzazione ambientale e in data 11/5/2004 inviava la stessa alla competente Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici dell’Emilia Romagna.
La Soprintendenza, con atto prot. n. 14433 del 30/7/2004 annullava l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Collecchio e avverso tale provvedimento presentavano ricorso dinanzi allo stesso T.A.R. Parma sia *** Immobiliare s.r.l. sia Impresa *** S. *** s.r.l..
Con ordinanza, pubblicata il 5/11/2004, questa Sezione sospendeva il provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica.
Successivamente la DE.BER. Costruzioni s.r.l. notificava in data 28/12/2004 ricorso per l’annullamento del titolo abilitativo formatosi a seguito della presentazione della d.i.a..
Con l’impugnata sentenza il Tar ha accolto il ricorso, ritenendo:
a) l’ammissibilità del ricorso proposto direttamente avverso la d.i.a.;
b) la tempestività del ricorso;
c) la fondatezza dello stesso, non potendo l’intervento essere assentito tramite d.i.a..
Con separati ricorsi in appello l’Impresa *** S. *** s.r.l. (titolare dell’azienda per la produzione di traversine ferroviarie) e la *** Immobiliare s.r.l. (proprietaria dell’area) hanno impugnato la menzionata sentenza, contestando le tre statuizioni del Tar.
La DE.BER. Costruzioni s.r.l. si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione dei ricorsi.
Con ordinanze n. 4448 e 4452 del 2006 questa Sezione ha sospeso l’efficacia dell’impugnata sentenza.
All’odierna udienza le cause sono state trattenute in decisione.
2. Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza.
3. Con il primo motivo le appellanti hanno sostenuto l’inammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto proposto avverso un atto di natura privata quale la denuncia di inizio attività.
Il motivo è infondato.
La tutela dei terzi, che si oppongono ad intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha sempre presentato profili teorici problematici.
Secondo un orientamento, la d.i.a costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che, in presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a formazione complessa, attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che sarebbe così liberalizzata.
Colui che si oppone all’intervento autorizzato tramite d.i.a., una volta decorso il termine senza l’esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza del generale potere repressivo degli abusi edilizi, sarebbe legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto, che pertanto non potrebbe avere come riferimento il potere inibitorio dell’Amministrazione – essendo decorso il relativo termine, con la conseguenza che il giudice non potrebbe costringere l’Amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta – bensì il generale potere sanzionatorio (Cons. Stato, IV, 22 luglio 2005, n. 3916).
Secondo altre tesi, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente nell’autorizzazione implicita all’effettuazione dell’attività in virtù di una valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l’adempimento delle prestazioni che la p.a. avrebbe omesso di svolgere (T.A.R. Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n. 397), o l’annullamento della determinazione formatasi in forma tacita (in tal senso: implicitamente, Cons. Stato, VI, 10 giugno 2003 n. 3265 e, espressamente, V, 20 gennaio 2003 n. 172; T.A.R. Veneto, sez. II, 20 giugno 2003, n. 3405) o comunque per contestare la realizzabilità dell’intervento (Cons. Stato, VI, 16 marzo 2005 n. 1093).
Secondo ulteriore orientamento il terzo sarebbe legittimato (entro il termine di decadenza) all’instaurazione di un giudizio di cognizione, tendente ad ottenere l’accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per la legittima intrapresa dei lavori a seguito di d.i.a.( TAR Liguria; I, 22 gennaio 2003 n. 113 e TAR Abruzzo, Sez. Pescara, 23 gennaio 2003 n. 197).
Il Collegio ritiene che il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. sia ammissibile.
La d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell’attività, come da molti sostenuto, ma rappresenta una semplificazione procedimentale, che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni) dalla presentazione della denuncia; la liberalizzazione di determinate attività economiche è cosa diversa e presuppone che non sia necessaria la formazione di un titolo abilitativo.
Nel caso della d.i.a., con il decorso del termine si forma una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a..
Il ricorso avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. ha, quindi, ad oggetto non il mancato esercizio dei poteri sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente l’assentibilità, o meno, dell’intervento.
Un sostegno in favore della diretta impugnazione della d.i.a.. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19, della legge n. 241/90 (con l’art. 3 del
D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla
L. 14 maggio 2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a.. il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21
-quinquies e 21-
nonies. Se è ammesso l’annullamento di ufficio, parimenti, e tanto più, deve essere consentita l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo.
Tale disposizione, pur non essendo temporalmente applicabile alla fattispecie in esame, può essere letta come riconoscimento da parte del legislatore della natura provvedimentale del titolo abilitativo che si forma in seguito ad una d.i.a..
Nello stesso senso sembrerebbe essersi orientato il legislatore già in precedenza: nel T.U. edilizia l’applicabilità degli artt. 38 (interventi eseguiti in base a permesso annullato) e 39 (annullamento del permesso di costruire da parte della Regione) è stata estesa anche agli interventi di cui all’art. 22, comma 3, assoggettati a d.i.a..
Resta fermo che la tutela del terzo controinteressato rispetto ad una d.i.a. non può essere certo costretta negli angusti limiti dell’eventuale esercizio del potere di autotutela da parte della p.a..
Come per qualsiasi atto amministrativo illegittimo, mentre il potere di autotutela dell’amministrazione è subordinato a determinati limiti, oggi codificati dall’art. 21-nonies della legge n. 241/90, alcun limite incontra l’intervento del giudice, diretto solamente ad accertare l’illegittimità dell’atto, e in questo caso del titolo abilitativo formatosi in seguito a d.i.a..
In caso di ricorso avverso la d.i.a. la decisione del giudice non può che travolgere l’assenso (implicito) comunale e gli effetti dell’attività illegittima, che costituiscono il contenuto reale della lite.
Del resto, l’esercizio del potere (anche in via implicita) con effetti favorevoli per il diretto interessato non può mai compromettere diritti e interessi dei terzi e la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 19, comma 5, legge n. 241/90) conferma la piena sindacabilità della d.i.a. e dei suoi effetti da parte del giudice.
Peraltro, queste considerazioni, valide per tutti gli interventi assoggettati a d.i.a., sono ancor di più riferibili alla d.i.a. edilizia, oggetto della presente controversia.
Il T.U. edilizia (d.P.R. n. 380/2001) prevede quali titoli abilitativi in materia edilizia il permesso di costruire e la d.i.a. e stabilisce anche che il confine tra i due titoli non sia fisso: le Regioni possono ampliare o ridurre l’ambito applicativo dei due titoli abilitativi, ferme restando le sanzioni penali (art. 22, comma 4) ed è comunque fatta salva la facoltà dell’interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a. (art. 22, comma 7).
Ciò significa che si tratta di titoli abilitativi di analoga natura, che si diversificano per il procedimento da seguire e comporta anche che sarebbe irragionevole, oltre che lesivo dell’effettività della tutela giurisdizionale, ritenere che il terzo controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo abilitativo, che può dipendere da una scelta della parte o da una diversa normativa regionale.
E’, invece, preferibile ritenere che il formarsi di un determinato titolo abilitativo, o di un altro, non comporti alcun cambiamento sotto il profilo della tutela del terzo e del conseguente intervento del giudice, in alcun modo limitato dalla decadenza del potere di intervento dell’amministrazione.
In definitiva, in caso di intervento assentito a seguito di d.i.a., è ammissibile il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine di trenta giorni, entro cui l’amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a..
4. Chiarita l’ammissibilità del ricorso proposto in primo grado, deve essere verificata la tempestività dello stesso, tenuto conto delle censure mosse con il secondo motivo di appello.
Si è già detto che il termine per impugnare la d.i.a. decorre dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a..
In caso di d.i.a edilizia, infatti, il titolo abilitativo si forma decorsi trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. per effetto del mancato esercizio dei poteri dell’amministrazione (art. 23, commi 1 e 6, d.P.R. n. 380/01 e artt. 10 e 11 della L.R. Emilia Romagna n. 31/2002).
Nel caso di specie, tuttavia, si trattava di intervento ricadente in zona paesaggisticamente vincolata e il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ed ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti (art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380/2001).
Il Tar ha fatto applicazione dell’art. 10, comma 4, della L.R. n. 31/2002, secondo cui il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione ovvero dall’eventuale decorso del termine per l’esercizio del poteri di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica.
La disposizione non è chiara e deve essere letta, in conformità con la richiamata norma del T.U. edilizia, nel senso che per il decorso del termine deve essere stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica e che l’eventuale annullamento di questa rende priva di effetti la d.i.a..
Ciò premesso, nel caso di specie, il termine per contestare la d.i.a. ha iniziato a decorrere alla scadenza del termine di 30 giorni decorrenti dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (3/5/04) e l’annullamento di tale autorizzazione da parte della Soprintendenza ha sospeso tale termine ma solo fino alla ordinanza cautelare di questa Sezione che in data 5/11/04 ha sospeso l’atto della Soprintendenza.
Essendo pacifica la conoscenza della d.i.a. da parte della ricorrente di primo grado, che ha anche impugnato l’autorizzazione paesaggistica, il ricorso avverso la d.i.a., notificato in data 28/12/2004 è tardivo.
5. In considerazione dei contrasti di giurisprudenza circa le modalità di impugnare la d.i.a. può anche essere concesso alla ricorrente di primo grado l’errore scusabile, ma ciò non muta l’esito del giudizio in quanto il ricorso è infondato nel merito.
Il Tar ha ritenuto che l’intervento in questione non potesse essere assoggettato a d.i.a., ma necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire.
L’intervento in questione – consistente nella realizzazione di due silos e di apparecchiature finalizzate alla produzione di traversine ferroviarie – era, infatti, assoggettato a d.i.a. trattandosi di impianti tecnologici destinati al servizio di edifici ed attrezzature esistenti e che come tali rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 8, comma 1, lett. i), della L.R. n. 31/2002.
Tale norma non limita l’applicabilità della d.i.a. alle dimensioni degli impianti da asservire a quelli esistenti e il fatto che si ricada in zona vincolata non muta il titolo abilitativo necessario, ma comporta la necessità della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica.
Si trattava, quindi, di un intervento assentibile mediante d.i.a..
6. In conclusione, l’appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado.
Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, previa riunione dei ricorsi indicati in epigrafe li accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado.
Compensa tra le parti le spese del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 13-2-2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo Presidente
Carmine Volpe Consigliere Rel.
Giuseppe Romeo Consigliere
Luciano Barra Caracciolo Consigliere
Roberto Chieppa Consigliere Rel. ed Est.
Presidente
GIOVANNI RUOPPOLO
Consigliere Segretario
ROBERTO CHIEPPA GIOVANNI CECI
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il. 05/04/2007
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
MARIA RITA OLIVA
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
Addì……………………………..copia conforme alla presente è stata trasmessa
al Ministero………………………………………………………………………………….
a norma dell’art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
Il Direttore della Segreteria
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