Sulla responsabilità del committente di un appalto per i danni cagionati a terzi dall’esecuzione dei lavori edili e relativo nesso di causalità

Andrea Romano 19/12/19
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I danni che potenzialmente possono derivare a terzi dall’esecuzione di un contratto di appalto, segnatamente in campo edile, settore di elezione della materia, possono essere imputabili o all’attività svolta dall’appaltatore, ovvero direttamente alla cosa oggetto di appalto.

E’ poi necessario verificare se vi possa essere spazio, in tali ipotesi, per una concorrente responsabilità del committente.

Fatta tale premessa metodologica occorre precisare, sotto il primo profilo (responsabilità derivante dall’attività dell’appaltatore), come tale responsabilità sia imputabile all’impresa esecutrice ex art. 2043 c.c., in virtù degli ordinari canoni della responsabilità aquiliana, quindi a seguito della dimostrazione da parte del danneggiato della verificazione di un fatto che abbia cagionato un danno ingiusto in capo ad esso e che tale danno sia causalmente riconducibile al predetto fatto secondo gli ordinari criteri in materia di responsabilità civile, ossia secondo la teoria condizionalistica del “più probabile che non” improntata al criterio della causalità adeguata in virtù del quale è idoneo a interrompere il nesso causale in base a un giudizio ex ante l’intervento di un fattore straordinario e atipico, seppur non eccezionale[1].

La responsabilità del committente

In tali ipotesi è poi normalmente inconfigurabile una responsabilità ex art. 2049 c.c. del committente, in virtù dell’autonomia gestionale riconosciuta all’appaltatore derivante dal carattere autonomo dell’attività di quest’ultimo, salvi i casi di ingerenza del committente nell’attività ovvero di violazione da parte di quest’ultimo di specifici obblighi di vigilanza, circostanze queste tuttavia la cui allegazione e dimostrazione incombe in capo al danneggiato.

Vi possono poi essere specifiche ipotesi in cui l’appaltatore è responsabile ex art. 2050 c.c. in virtù della natura intrinsecamente pericolosa dell’attività svolta.

Sotto il secondo profilo (responsabilità derivante dalla cosa oggetto di appalto) è applicabile l’art. 2051 c.c. In tale ipotesi al danneggiato sarà sufficiente provare il fatto dannoso, l’evento e il nesso di causalità (materiale) tra questo e l’evento. La rigorosa prova dell’esonero da responsabilità graverà invece in capo all’appaltatore, il quale sarà tenuto a dimostrare il caso fortuito ex art. 2051c.c. Qualora di questo si dia un’interpretazione soggettiva, il danneggiante dovrà dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno, intendendo dunque tale responsabilità speciale quale presunzione di colpa (ipotesi di responsabilità c.d. aggravata). Laddove invece del caso fortuito si adotti un’accezione di stampo oggettivo, il danneggiante sarà tenuto alla rigida prova dell’intervento di un fattore esterno (quindi indipendente dalla sua eventuale colpa) tale da recidere il nesso, riverberandosi tale concezione sulla definizione di tale responsabilità quale presunzione di responsabilità (ipotesi di responsabilità oggettiva). In tale ultima ipotesi (concezione oggettiva di caso fortuito), peraltro, l’intervento di cause rimaste ignote rimangono a carico del responsabile, mentre secondo la prima teoria (concezione soggettiva di caso fortuito) le cause ignote restano a carico del danneggiato che non potrà quindi, in tali ipotesi, ottenere ristoro. E’ questo evidentemente il discrimine pratico tra i due modelli interpretativi del caso fortuito.

Peraltro, come è stato osservato[2], le differenze tra i due orientamenti, dal punto di vista pratico, non divergono di molto, posto che entrambi utilizzano il criterio della diligenza del custode quale metro di esclusione della sua responsabilità. Invero anche l’indirizzo “oggettivo”, al fine della verifica della ricorrenza del caso fortuito, non prescinde dalla valutazione della diligenza che il danneggiante ha adoperato nel custodire la cosa: infatti, solo raggiunta la prova che è stato usato il necessario rigore e la sufficiente operosità nell’utilizzazione della cosa, inizia l’indagine circa la ricorrenza dell’eventuale caso fortuito atto ad escludere la responsabilità, aggravata od oggettiva che dir si voglia. Per vero parrebbe invece che da tale indagine potrebbe prescindersi, posto che l’intervento di un fattore eccezionale (dunque esterno alla relazione tra custode e cosa) tale da determinare da sé solo l’evento dovrebbe escludere la responsabilità del custode a prescindere da una sua eventuale colpa, e anzi anche in sua presenza, laddove tale fattore abbia un’incidenza causale tale da porsi come straordinario o atipico.

Venendo poi alla eventuale concorrente responsabilità del committente, è opportuno verificare i presupposti necessari per affermare tale responsabilità per i danni subiti da terzi nel corso dell’esecuzione di un appalto di lavori edili, con particolare riguardo all’appalto di opere pubbliche. La giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che: a) di regola risponde dei danni cagionati ai terzi dall’esecuzione di un appalto solamente l’appaltatore; b) tuttavia, qualora il committente si sia ingerito nell’attività con specifiche direttive che hanno limitato l’autonomia dell’appaltatore risponde in concorso anch’esso; c) se poi le direttive e le ingerenze del committente siano tali da ridurre l’appaltatore a nudus minister, con prova a carico del danneggiato, solamente il primo risponde dei danni; d) in ogni caso il committente risponde per culpa in eligendo laddove si sia avvalso di una impresa palesemente inadeguata[3].

Gli appalti pubblici

Nello specifico settore degli appalti pubblici, poi, l’orientamento più recente afferma che, dati i pregnanti poteri di ingerenza della p.a. esercitati attraverso il direttore dei lavori che ha facoltà di sospendere o disporre varianti dei lavori laddove potenzialmente dannosi per i terzi, quest’ultima non può andare esente da responsabilità[4].

Rileva poi la Corte di cassazione che, in merito all’ipotesi in cui il danno sia cagionato direttamente dalla cosa oggetto del contratto di appalto, l’autonomia dell’appaltatore nello svolgimento della sua attività – che costituisce la ragione per cui in taluni casi è stata esclusa la posizione di custode da parte del committente – in  realtà riguarda l’attività da porre in essere per l’esecuzione dell’appalto, non la disponibilità e/o la custodia della cosa oggetto dei lavori.

Non si può pertanto consentire, di regola, al custode di liberarsi della sua posizione di “garanzia”  posta a suo carico dalla norma di cui dall’art. 2051 c.c., semplicemente trasferendo contrattualmente tale posizione in capo ad un terzo, senza alcun limite (se non quello, del tutto generico, della cd. culpa in eligendo), e ciò specie se si tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale posizione di garanzia ad un terzo (l’appaltatore) che non ne è proprietario e non offra la stessa solvibilità. Tale impostazione si risolverebbe, oltre che nella violazione dello speciale regime di responsabilità ex art. 2051 c.c., anche, indirettamente, nel diniego dei valori costituzionali di solidarietà sociale di cui agli artt. 2 e 41 Cost. Invero, per tale via si finirebbe per eludere l’effettiva funzione della disciplina della responsabilità per i danni causati dalle cose, come delineata dall’art. 2051 c.c., disciplina che consente l’esonero del custode dalla responsabilità per i danni causati dalla cosa solo laddove egli provi il caso fortuito. Con la semplice stipula di un contratto di appalto si verrebbe invece a configurare nella sostanza una ulteriore causa di esonero dalla indicata responsabilità oggettiva, molto meno rigorosa dell’unica ipotesi espressamente prevista dalla legge (e cioè il caso fortuito), così elidendo artificiosamente il rigore della regola normativa.

Leggi anche:”La responsabilità del custode ex art. 2048 c.c.”

Da ciò discende, sotto il profilo dell’onere della prova, che spetterà al committente la rigorosa dimostrazione che l’attività svolta dall’appaltatore sulla cosa di sua proprietà possa essa stessa qualificarsi come caso fortuito (sub specie di fatto del terzo non prevedibile e/o non evitabile) e come tale escluderlo dalla responsabilità, senza che invece il committente possa genericamente allegare che la cosa è stata affidata all’appaltatore per l’esecuzione del contratto.

Ad esempio il committente potrà allegare e dimostrare che l’esecuzione dell’opera da parte dell’appaltatore non è stata conforme al contratto e/o alle norme, anche tecniche, di esecuzione, al punto che tale condotta difforme dalle regole di diligenza, sia stata essa stessa causa esclusiva nella verificazione dell’evento dannoso[5].

Passando poi all’onere della prova gravante in capo al danneggiato che agisca in giudizio per il ristoro dei danni subiti direttamente dalla cosa oggetto di appalto, la Corte osserva che non potrà gravarsi questo della prova dell’inadeguatezza della scelta operata dal committente (culpa in eligendo), dell’aver questi fornito direttive o di aver mantenuto uno specifico controllo sull’operato dell’appaltatore. Sarà invece il committente a dover fornire la prova positiva di tali circostanze onde andare esente da responsabilità da cose in custodia.

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Note

[1] Sul punto si veda, per tutti, C. FAVILLI, in Diritto Civile, norme, questioni, concetti (parte generale) a cura di G. AMADIO – F. MACARIO, Bologna, 2014, pagg. 1014, segg. Secondo la teoria della condicio sine qua non la condotta è causa dell’evento se sulla base di un giudizio ipotetico in sua assenza esso non si sarebbe verificato. Per temperare tale criterio, secondo al teoria della causalità adeguata, per considerare la condotta come causa dell’evento occorre che si possa stabilire con giudizio ex ante che la condotta era in sé adeguata, appunto, alla produzione dell’evento. Al fine di individuare il criterio da adottare per valutare l’adeguatezza della causa è opportuno osservare: a) dati oggettivi rilevabili su base empirica (criterio di regolarità statistica); b) leggi scientifiche (criterio delle probabilità scientifica); c) coniugare la causalità astratta, secondo logica deduttiva, con quella verificata in concreto, secondo logica induttiva (criterio della probabilità logica, adotta per es. in C. s.u., 30328/2002, nota come “sentenza Franzese”). In ogni caso il giudizio probabilistico dovrà assestarsi sul criterio del “più probabile che non”, ossia le probabilità favorevoli dovranno indicativamente superare il 50% (Cass. s.u. 581/2008).

[2]     F.P. PATTI, in I nuovi orientamenti della Cassazione Civile a cura di C. GRANELLI, Milano, 2018, p. 720 ss.

[3] Cfr., ex multis: Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1234 del 25/01/2016, Rv. 638645 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6296 del 13/03/2013, Rv. 625507 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17697 del 29/08/2011, Rv. 619450 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 7356 del 26/03/2009, Rv. 607389 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 24320 del 30/09/2008, Rv. 604765 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 13131 del 01/06/2006, Rv. 590623 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5133 del 09/11/1978, Rv. 394885 – 01

[4] Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13266 del 05/10/2000, Rv. 540762 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4591 del 22/02/2008,

Rv. 601941 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23/04/2008, Rv. 603248 – 01; Sez. 6-3, Ordinanza n. 1263 del 27/01/2012, Rv. 620509 – 01

[5] Il tutto, come precisato in motivazione della sentenza in commento, in coerenza con i principi di recente ribaditi dalla stessa Corte in tema di responsabilità da cose in custodia e in particolare di caso fortuito costituito dalla condotta di terzi e/o dello stesso danneggiato: cfr., di recente: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1257 del 19/01/2018, Rv. 647356 – 01; Sez. 3, Ordinanze nn. 2477, 2480, 2481, 2482 del 01/02/2018.

Sentenza collegata

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