Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 novembre 2007, n. 240/2008, depositata il 29 gennaio 2008
“La richiesta delle informazioni antimafia, di cui all’art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, ad opera di una Pubblica Amministrazione, anche per gli appalti di valore inferiore alla soglia di rilievo comunitario in materia, semprechè di importo superiore al limite di € 154.937,07, non è riconducibile ad una interpretazione estensiva o analogica, e quindi non consentita dall’art. 14 delle preleggi, della predetta disposizione.”*
*A cura di Massimo Sperduti
Breve commento
L’art. 38, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, concernente il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, attuativo delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, elenca i requisiti che devono essere posseduti dalle imprese partecipanti alle procedure di gara o affidatarie dei relativi contratti o sub contratti.
In ispecie, al c. 1°, lett. b), viene previsto quello che parte della dottrina ritiene essere il cosiddetto requisito “antimafia”, avente ad oggetto l’insussistenza di procedimenti per l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’articolo
3 o di una delle cause ostative previste dall’articolo
10 della legge 31 maggio 1965, n. 575.
[1] della legge 27 dicembre 1956, n. 1423
Tuttavia, preme evidenziare che tale previsione solo parzialmente afferisce alle norme antimafia applicabili al settore dei pubblici appalti; invero, i procedimenti su menzionati hanno per oggetto l’applicazione delle misure di prevenzione per le persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, cioè i “pericolosi comuni” o i “pericolosi mafiosi”.
La norma appena esaminata, pertanto, non esaurisce il novero delle disposizioni contro la mafia che sono destinate ad operare nell’ambito della contrattualistica pubblica; in ispecie, si fa riferimento alle prescrizioni contenute nella legge n. 575 del 1965 e nel d.P.R. n. 252 del 1998.
In particolare, l’art. 10 della legge n. 575 del 1965 elenca i divieti, le cause di decadenza e di sospensione conseguenti all’adozione di una misura di prevenzione con provvedimento definitivo, tra i quali, l’impossibilità di costruire e gestire opere riguardanti la Pubblica Amministrazione, di ottenere le licenze o le autorizzazioni di polizia e di commercio, le concessioni di costruzione, le concessioni di servizi pubblici e le iscrizioni negli albi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la Pubblica Amministrazione e nell’albo nazionale dei costruttori.
Tali cause ostative possono essere disposte in via provvisoria da parte del tribunale nel corso del procedimento per l’adozione di una delle citate misure, qualora sussistano motivi di particolare gravità; inoltre, i predetti divieti operano anche nei confronti dei soggetti condannati con sentenza definitiva, o ancorchè non definitiva, confermata in grado di appello, per uno dei delitti di cui all’art. 51, c. 3 bis del codice di procedura penale.
L’insussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 10della provincia in cui l’amministrazione richiedente ha sede o dalla Prefettura della provincia in cui hanno la sede o risiedono i soggetti privati interessati, semprechè venga da questi richiesta. della legge 31 maggio 1965, n. 575, appena esaminato, è attestata nel certificato rilasciato dalla Camera di Commercio, Industria, Artigianato ed Agricoltura corredato dalla dicitura antimafia, o, qualora ne sia sprovvisto, nella certificazione rilasciata dalla Prefettura
Si deve opportunamente rilevare che, ad oggi, non è attiva la procedura, prevista dall’art. 4 del d.P.R. n. 252 del 1998, che permette il rilascio delle certificazioni antimafia alle amministrazioni interessate tramite collegamento informatico con le prefetture dotate dell’archivio automatizzato, poiché il Ministero dell’interno non ha ancora approvato alcuna convenzione che consenta l’attivazione del predetto collegamento.
Come noto, a tale forma di attestazione, che potremmo definire di tipo “statico”, si affianca quella più invasiva, riguardante la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa nell’impresa interessata, che si estende anche ai soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa.
A norma dell’art. 10, c. 7 del decreto citato, le situazioni concernenti i suddetti tentativi sono desunti:
a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale;
b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575;
c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia.
Analizzate in via preliminare le disposizioni su cui verte la decisione in argomento, appare necessario esporre i termini della vicenda processuale approdata dinanzi al Consiglio di Stato.
[2]
La Giunta Municipale di un Comune calabrese aveva disposto, come già stabilito dal disciplinare della gara di appalto, che la Commissione di gara richiedesse le informazioni antimafia per le imprese partecipanti.
Sulla scorta dell’esito delle informazioni rilasciate dalla Prefettura, una delle predette imprese veniva esclusa dal procedimento di gara e impugnava dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria il provvedimento di esclusione, il provvedimento di aggiudicazione provvisoria dell’appalto, il provvedimento della Prefettura di Reggio Calabria in ordine alle citate informazioni interdittive e, con motivi aggiunti, il disciplinare di gara.
Il T.A.R., accogliendo le tesi della ricorrente, ha ritenuto illegittima la clausola del capitolato che imponeva l’obbligo di richiedere le informazioni antimafia per tutte le imprese ammesse, trattandosi di appalto sotto soglia.
Tale conclusione discenderebbe dal fatto che, secondo quanto stabilito dall’art. 10 del citato decreto n. 252, le stazioni appaltanti hanno l’obbligo di richiedere le informazioni al Prefetto qualora il valore degli appalti sia pari o superiore alla soglia di rilievo comunitario.
Invero, secondo il giudice amministrativo di prime cure, il carattere eccezionale e derogatorio della disciplina dettata dal citato art. 10, il quale rappresenta una difesa avanzata dello Stato a fronte dei fenomeni di infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, escluderebbe una interpretazione analogica o estensiva della predetta normativa, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi.
[3]
A tal proposito giova ricordare che l’art. 1 del citato decreto del 1998 stabilisce che la documentazione concernente la sussistenza delle cause di divieto, decadenza o sospensione di cui all’articolo 10, e dei tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 4, non è comunque richiesta “[…]; e) per i provvedimenti, gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore complessivo non supera i 300 milioni di lire.” del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 della legge 31 maggio 1965, n. 575
Ciò vuol dire che le attestazioni antimafia, che siano comunicazioni piuttosto che informazioni, non devono essere richieste per gli appalti di valore inferiore a 154.937,07 euro.
Diversamente, l’art. 10 del predetto decreto, stabilisce che le informazioni circa i tentativi di infiltrazione mafiosa devono essere richieste qualora il valore dell’appalto sia “[…]: a) pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive comunitarie in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, […]”, salvo che per i sub contratti per i quali la soglia è fissata in 300 milioni di lire.
Pertanto, mentre la prima delle ultime disposizioni analizzate stabilisce un divieto assoluto per le pubbliche amministrazioni di richiedere certificazioni antimafia nelle ipotesi ivi indicate, la seconda stabilisce un obbligo di richiesta ogniqualvolta l’entità dell’appalto superi una cifra determinata, senza, tuttavia, escludere la possibilità, per la stazione appaltante, di richiedere le informazioni in ordine a contratti di appalto il cui valore non raggiunga le soglie suddette.
In altri termini, l’eventuale richiesta della stazione appaltante dell’attestazione concernente le informazioni riguardanti i tentativi di infiltrazione mafiosa per gli appalti sotto soglia non è frutto di un’interpretazione estensiva della normativa antimafia ma rientra nel normale esercizio della discrezionalità amministrativa.
Allo stesso modo, il Consiglio di Stato, nella pronuncia in esame, ha ritenuto che “l’ambito di efficacia della informativa antimafia è estraneo al presente giudizio, essendo questo specificato dal predetto comma 2 dell’art. 10 del d.P.R. n. 252 del 1998, nel senso che la stazione appaltante che abbia ricevuto una informativa antimafia interdittiva, quale che sia la modalità di richiesta utilizzata (obbligatoria o volontaria), è tenuta a non stipulare contratti o subcontratti con l’impresa interessata, indipendentemente dal loro valore. […]
Vi è un salto logico nell’interpretazione che di questo art. 10 d.P.R. n. 252 del 1998 ha dato il primo giudice: si inferisce un divieto assoluto di acquisizione di informazioni, da un obbligo assoluto di richiedere tali informazioni in determinate situazioni.
La stazione appaltante giammai potrebbe derogare a tale previsione, omettendo di richiedere le informazioni per gli appalti sopra soglia. Ma ciò non preclude in alcun modo che essa possa, nell’esercizio della discrezionalità che la norma in positivo consente, determinarsi ad acquisire informazioni, sebbene alla stregua del disposto normativo non fosse tenuta.[…]”
[4]
Dott. Massimo Sperduti
Ragioniere Commercialista
Revisore contabile
e-mail: massimo.sperduti@studenti.unicam.it
[1] Si ricorda che il citato requisito deve essere accertato in capo al titolare, se si tratta di impresa individuale, al socio, se si tratta di società in nome collettivo, ai soci accomandatari, se si tratta di società in accomandita semplice, agli amministratori muniti di poteri di rappresentanza, se si tratta di altro tipo di società, e a coloro che assumono la carica di direttore tecnico in tutti i tipi di impresa individuale o collettiva.
[2] Tutte le notizie e le informazioni di carattere processuale sono state desunte dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI del 27 novembre 2007, n. 240/2008, depositata il 29 gennaio 2008, pubblicata in http://www.giustizia-amministrativa.it.
[3] In questo senso T.A.R. Reggio Calabria Calabria, 31 gennaio 2007, n. 69, in Foro amm. TAR 2007, 1, 278.
[4] Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza n. 240/2008, 27 novembre 2007, depositata il 29 gennaio 2008, pubblicata in http://www.giustizia-amministrativa.it.
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