Con ordinanza del 19 novembre 2014 la Sesta Sezione Penale rimetteva alle Sezioni Unite la soluzione di due questioni controverse, tra loro collegate. In primis, se fosse possibile disporre la confisca del prezzo del reato nonostante questo sia dichiarato prescritto, o comunque qualora si fosse in assenza di una sentenza di condanna. In secundis se, nel caso in cui il prezzo o il profitto del reato fosse costituito da denaro, la confisca delle somme dovesse essere qualificata come confisca per equivalente o come confisca diretta.
Definita come un provvedimento ablativo applicato a somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo possegga disponibilità per un valore corrispondente al prezzo, al prodotto ed al profitto del reato, a differenza della confisca ex art. 240 c.p., nel nostro ordinamento non si trova alcuna norma di carattere generale diretta a disciplinare la confisca per equivalente, che si limita invece a trovare applicazioni specifiche solo per determinati reati.
La prima norma sostanziale che ha previsto la confisca per equivalente è l’art. 644 c.p. che, a seguito della novella del reato di usura del 1996, ha disposto che la confisca possa estendersi anche a “somme di danaro, beni o altra utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un importo pari al valore degli interessi, o degli altri vantaggi o compensi usurari”.
Ulteriori ipotesi di confisca per equivalente sono poi state introdotte nel nostro ordinamento dall’art. 322-ter c.p. in materia di delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione; dall’art. 648-quater c.p. con riferimento al reato di riciclaggio; ed ancora con riguardo ad alcuni reati tributari.
Tornando all’analisi della sentenza n. 31617 del 2015 , quanto al primo dei due quesiti posti, in giurisprudenza si registravano due opposti orientamenti. A coloro che sostenevano che l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione ostava alla confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo o il prodotto; si contrapponevano altri secondo i quali anche in tal caso ne sarebbe comunque stata ammessa l’applicazione.
A dirimere il contrasto sono quindi intervenute le Sezioni Unite con la sentenza in epigrafe, affermando che la prescrizione del reato non ferma la confisca. Questo il principio enunciato dalla Suprema Corte: “Il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 1 c.p., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell’art. 322 – ter c.p., la confisca del prezzo o del profitto del reato, sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito rimanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato”.
Occasione questa per le Sezioni Unite per affrontare nuovamente anche la vexata quaestio della natura giuridica della confisca per equivalente.
Non può non ricordarsi come la Corte Costituzionale, con sentenza n. 97 del 2009, ne avesse evidenziato la natura eminentemente afflittiva e sanzionatoria, comportando così, quale corollario, la necessaria applicazione dei principi previsti in materia di sanzioni penali, in particolar modo del divieto di retroattività.
Di tutt’altro avviso invece le Sezioni Unite che, con la sentenza in commento, giungono ad escludere ogni connotazione di tipo punitivo della confisca per equivalente “dal momento che il patrimonio dell’imputato non viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris, direttamente desunto dal fatto illecito, e rispetto al quale l’interessato non avrebbe neppure titolo civilistico alla ripetizione, essendo frutto di un negozio contrario a norme imperative. Al provvedimento di ablazione fa dunque difetto una finalità tipicamente repressiva, dal momento che l’acquisizione all’erario finisce per riguardare una res che l’ordinamento ritiene – secondo un apprezzamento legalmente tipizzato – non possa essere trattenuta dal suo avente causa, in quanto, per un verso, rappresentando la retribuzione per l’illecito, non è mai legalmente entrata a far parte del patrimonio del reo, mentre, sotto altro e corrispondente profilo, proprio
per la specìfica illiceità della causa negoziale da cui essa origina, assume i connotati della pericolosità intrinseca, non diversa dalle cose di cui è in ogni caso imposta la confisca, a norma dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 2”.
Infine, quanto al secondo quesito posto, le Sezioni Unite hanno colto l’occasione per affermare che “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da danaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta”.
Conseguentemente alla natura di bene fungibile del denaro, infatti, questo perde qualsiasi connotato di autonomia confluendo e confondendosi con tutte le altre disponibilità economiche dell’autore del reato.
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