Le ultime novità giurisprudenziali in materia di stupefacenti hanno sollevato un vivace dibattito, all’interno del quale si sono inserite – come era d’altronde prevedibile – voci politiche, sino a qualche giorno prima del tutto assenti.
Come d’uso nel nostro paese, esse, però, (nonostante approcci spessi demagogici e disinformati) non hanno perso l’occasione di salire su di un presunto carro dei vincitori (o forse, invece, hanno proprio perso una occasione di fare migliore figura).
Sconcerta, soprattutto, la strumentale amplificazione della portata – in proiezione futura – del giudizio che la Corte Costituzionale dovrà affrontare in relazione alla questione rimessa dalla 3° Sezione della Corte di Appello di Roma, quasi che, invece, di una valutazione tecnica, in ordine ad un preciso e specifico segmento della legge sugli sugli stupefacenti, esso vada tradursi in una vera e propria ordalia, od in un referendum sulla L. 49 del 21 febbraio 2006.
Non dimentichiamo che ci troviamo dinanzi ad un postulato che deve essere ancora risolto dal giudice delle leggi.
Di fronte a reiterati atteggiamenti, giuridicamente irresponsabili (giacchè creare nella cittadinanza attese di riforma e, soprattutto, di abrogazione in toto di una legge, oltre che falsa prospettiva storica, costituisce, altresì, comportamento irrispettoso di coloro che delle questioni giuridiche non hanno specifica conoscenza), credo si imponga, pertanto, il dovere di fornire informazioni corrette e precise, su tutte le prese di posizione che i giudici di legittimità e di merito hanno assunto.
Cerchiamo, quindi, di evidenziare le novità giurisprudenziali che hanno inciso sulla materia degli sutpefacenti.
Hanno operato dapprima, le SS.UU. che, con la sentenza 17 ottobre – 7 dicembre 2012 n. 47604/12, (allegata) hanno escluso che la vendita di semi di cannabis, ancorchè abbinata alla messa in commercio di prodotti utilizzabili per la coltivazione o di testi additivi in materia, configuri la violazione dell’art. 82 dpr 309/90.
I giudici di legittimità hanno precisato che tale condotta, al più, può costituire ipotesi per una valutazione da parte del giudice della sussistenza del reato di istigazione, ai sensi dell’art. 414 c.p. in relazione all’art. 73 dpr 309/90, nella parte in cui punisce la condotta della coltivazione.
Si tratta, pacificamente, di una sentenza storica.
Essa, infatti, una volta per tutte, risolve – in armonia con il dettato della Convenzione di New York del 1961 – un tema che aveva evidenziato una gravissima discrasia fra la posizione assunta dai giudici di merito.
Da un lato si poneva la Quarta Sezione della Corte di Cassazione (che escludevano la sussistenza dell’art. 82, assolvendo i commercianti), dall’altro, si erano attestate la Terza e la Seconda Sezione della stessa Corte di legittimità (che, invece, chiamate in varie occasioni, a giudizi di natura cautelare, avevano ritenuto configurabile l’ipotesi di reato in parola).
Va, poi, registrata la pronunzia della Sesta Sezione della Corte di Cassazione (n. 4285/13 del 10/29 gennaio 2013) (allegata), che ha risolto un altro atavico e grave problema e cioè quello del rapporto e della valenza fra la circostanza attenuante della lieve entità, regolata dal comma 5 dell’art. 73 dpr 309/90 e la circostanza aggravante di cui all’art. 99 comma 4 c.p. (così come modificata dalla L. 251/2005 cd. ex Cirielli).
Anche questa decisione possiede il carattere della elevata rilevanza.
Si pensi, infatti, che essa, non solo afferma il principio che il comma 5 – in parola – costituisce una circostanza attenuante e non una ipotesi di reato autonomo, rispetto alla previsione dei comma 1 ed 1 bis dell’art. 73, ma, soprattutto, riconduce a tale individuazione la conclusione che essa può essere valutata anche come prevalente rispetto alla recidiva.
L’eventuale giudizio di prevalenza permette, quindi, l’applicazione concreta delle pene (reclusione da 1 a 6 anni oltre alla multa) espressamente previste dal comma 5, mentre il giudizio di equivalenza o minusvalenza della circostanza attenuante rispetto all’aggravante, comporta, a propria volta, l’applicazione della pena prevista per l’ipotesi ordinaria di cui ai comma 1 ed 1 bis (reclusione da 6 a 20 anni oltre alla multa).
La modifica, introdotta giurisprudenzialmente, riequilibra, dunque, una situazione che, in un recente passato era apparsa sconcertante.
Con il superato divieto del giudizio di prevalenza della lieve entità sulla recidiva, si poteva verificare una grave discrasia fra reale portata criminosa del fatto (oggettivamente lieve) e sanzione in concreto irrogata (del tutto sproporzionata al fatto stesso, perchè ancorata ex lege a quei limiti ordinari di pena, spiccatamente elevati), che provocava ictu oculi una palese sproporzione.
Ulteriore decisione destinata ad incidere sulla trama del T.U. sugli stupefacenti è quella resa dalle SS.UU. all’udienza del 31 gennaio 2013 (R.G. 3737/12, in attesa di pubblicazione), in materia di uso di gruppo (meglio sarebbe dire acquisto comune per uso di gruppo).
Anche in questo caso è stato sedato un conflitto asprissimo fra sezioni distinte della Corte, (la Sesta da un lato, la Terza e la Quarta dall’altro) che avevano assunto, in maniera del tutto irriducibile, posizioni diametralmente opposte
Allo stato, va detto che non è dato conoscere l’esatto percorso ermeneutico seguito dalla Corte Suprema.
E’, peraltro, certo che non si possa, affatto, pensare o sostenere che i giudici di legittimità abbiano aperto tout court alla depenalizzazione di questa situazione di fatto, rinunziando, in pari tempo, ad una serie di ragionevoli parametri che la giurisprudenza (di merito e di legittimità) aveva in itinere elaborato ed individuato.
Non è, però, peregrino pensare che i giudici di legittimità non si siano, affatto, discostati dalla declinazione del principio per cui il consumo di gruppo (ma sarebbe meglio dire l’acquisto comune per uso di gruppo) possa non formare oggetto di sanzione, solo in presenza di precisi parametri.
Rifacendosi, quindi, esemplificativamente, alla più avveduta giurisprudenza, che ha perpetuato quella posizione già assunta dalle SS.UU. e ricordata in precedenza, in epoca anteriore alla novella del 2006, le condizioni necessarie dovrebbero ragionevolmente consistere:
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nella comunione adesiva preliminare delle parti ad un progetto di acquisto che coinvolga anche il mandatario deputato alla ricezione materiale dello stupefacente;
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nella esatta identificazione ab origine di tutti coloro che compongono il gruppo;
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nella comprovata volontà di procurarsi lo stupefacente, destinata ad un uso personale di ciascuno dei sodali;
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nella circostanza che non si verifichino passaggi intermedi che possano interessare lo stupefacente acquistato.
Si deve, pertanto sottolineare che pare del tutto plausibile (la prudenza è, comunque, d’obbligo) che la Corte abbia escluso la rilevanza dell’avverbio “esclusivamente”, che taluna sentenza (V. in special modo Sez. IV, 29.01.2013 n° 4560 e 2.01.2013 n° 47) aveva ritenuto come elemento decisivo per affermare la sanzionabilità della condotta in questione.
Certamente la pubblicazione delle motivazioni potrà dissipare qualsiasi eventuale dubbio.
Last but not least, per darci una dimensione europea, va segnalata la ordinanza con la quale la Terza Sezione della Corte di Appello di Roma, con ordinanza 28 gennaio 2013, ha trasmesso, alla Corte Costituzionale, gli atti di un procedimento a carico di imputati del reato di detenzione, a fine di spaccio, di sostanze stupefacenti, sospettando – in relazione all’art. 73 dpr 309/90, così come modificato dall’art. 4 bis del D.L. 30 dicembre 2005 n. 272 – un plurimo profilo di incostituzionalità (allegata).
Si tratta di un provvedimento che ha suscitato grande scalpore e che ha permesso a molti (politici ed opinion leaeders) di cimentarsi in elucubrazioni che hanno poco di giuridico e veridico e tanto, purtroppo, di demagogico.
Molti plausi, infatti, sono stati elevati all’ordinanza, in relazione al sospetto di incostituzionalità rispetto all’art. 77 co. 2° della Costituzione, sul falso presupposto che tale dubbio di incostituzionalità sarebbe idoneo a travolgere, in sé e per sé, tutto l’impianto architettonico della L. 49/2006.
Si tratta di un’opinione destituita di fondamento, perchè il sospetto di illegittimità costituzionale in oggetto afferisce correttamente solo ad una norma singola e specifica – l’art. 73, come risultante dall’art. 4 bis d.l. 272/2055 – e non si riferisce affatto all’intero ordito normativo.
Sicchè molti falsi profeti dell’ultima ora avrebbero dovuto meglio documentarsi prima di lanciarsi in acrobatiche interpretazioni, destinate solamente a suscitare false aspettative.
In concreto, la censura mossa all’art. 73 dpr 309/90, nella sua formulazione seguita all’approvazione della L. 21 febbraio 2006 n. 49, abbraccia soprattutto un profilo di spiccato rilievo contenutistico, nel momento in cui essa pone a confronto, attraverso il richiamo del dettato costituzionale, la legislazione interna e quella comunitaria.
Come chi scrive ha avuto più volte occasione di affermare, la testarda, quanto illogicamente sorda, volontà del legislatore italiano di addivenire – come in effetti si è addivenuti – all’abrogazione della naturale distinzione giuridica fra droghe cd. “leggere” e droghe cd. “pesanti”, attraverso l’annullamento del relativo e diverso trattamento sanzionatorio, previsto, in origine dal dpr 309/90, sull’opinabile presupposto di una differente offensività delle stesse, si è tradotta in un gesto legislativo inammissibile, in quanto in irreversibile contrasto sia con i principi indicati nella decisione 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione Europea, sia con l’onere costituzionale trasfuso nell’art. 117 della Costituzione italiana.
Puntualmente la Corte di Appello di Roma, con l’ordinanza in parola, ha colto la grave discrasia fra le due disposizioni, osservando che il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 73 dpr 309/90 (come desunto dall’art. 4 bis D.L. 272/2005), costituisce manifestazione di un palese inadempimento rispetto ad una fonte primaria di diritto comunitario, il rapporto con la quale viene regolato dall’art. 117 Cost. .
Il punto n. 5) della decisione 2004/757/GAI afferma, infatti, che la sanzioni concernenti le condotte illecite in materia di stupefacenti, devono ispirarsi ai principi della “efficacia”, “proporzionalità” e “dissuasività”.
Tra questi tre canoni fondamentali, quello che più significativamente si pone in correlazione con le sanzioni previste dall’art. 73 dpr 309/90, appare quello della “proporzionalità” della pena.
Questo per sommi capi appare il “cuore pulsante” dell’eccezione, che sia permesso precisare, chi scrive aveva già da tempo concepito e proposto pubblicamente sul web, prima che altri si interessassero dello specifico problema.
Starà al giudice delle leggi valutare il portato della questione, nella speranza che veramente si abbia la volontà di uniformare la legislazione italiana a quella comunitaria sempre e comunque.
Su tale ultimo abbrivio, credo, però, che non ci si possa cullare sugli allori e si debba considerare la possibilità di sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale che coinvolga la coltivazione.
Come ho già avuto modo di spiegare in alcuni miei commenti sul web, ritengo che la decisione UE 2004/757/GAI possa e debba influenzare la nostra legislazione anche in relazione al tema della coltivazione a fini di uso personale.
Per quanto di interesse, sia sufficiente precisare che il principio dal quale muovere è di assoluta semplicità.
Il nucleo centrale consiste, infatti, nell’interpretazione del comma 2 dell’art. 2 della decisione 2004/757/GAI .
Tale norma afferma tassativamente il principio che il fine del consumo personale di sostanze stupefacenti (nelle forme previste dalle legislazioni interne) assume un valore di causa di giustificazione rispetto alle condotte valutate come illecite ed indicate al comma 1.
Questa indicazione conferisce, pertanto, e senza dubbio alcuno, un valore assolutamente esimente alla volontà del singolo di porre in essere condotte che siano direttamente finalizzate al proprio soddisfacimento personale.
E’ chiaro che il carattere generale della norma in questione presenta aspetti che possono suscitare perplessità, come, ad esempio, la circostanza che essa si rivolga anche a tutte le attività di coltura di piante da cui ricavare stupefacente, operando, così, una indebita ed illogica omologazione fra oppio, coca e cannabis.
Non può, peraltro, sussistere dubbio di sorta in ordine alla circostanza, che il comma 2 del citato articolo 2 ammette la possibilità che, anche la coltura di piante dalle quali estrarre sostanza stupefacente, se finalizzata al consumo personale, possa non essere assoggettata a punibilità.
Tale incontroversa conclusione permette, dunque, di ipotizzare, con assoluta precisione e fondatezza argomentativa, che l’indicazione legislativa comunitaria deve trovare concreta applicazione anche nel nostro ordinamento, pena la violazione dell’art. 117 Cost. .
In pratica, il ragionamento utilizzato dalla Corte di Appello di Roma, per rinviare all’attenzione della Corte Costituzionale il tema della uguale sanzionabilità di condotte riguardanti cannabis eroina e cocaina, può (e deve) venire valorizzato anche per quanto attiene alla coltivazione.
Ritiene chi scrive che al di là della teorica applicabilità del precetto normativo a tutte e tre le forme coltivate, l’unica che veramente possa venire pertinentemente a ricadere nello spettro di applicazione dell’esimente sia, logicamente, solo quella che concerne la coltivazione di cannabis.
Allo stato, è notorio che qualsiasi forma di coltivazione, nel nostro ordinamento costituisce reato.
La giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle SS.UU. n. 28606 del 10 luglio 2008, ha, infatti, superato la dicotomia che la giurisprudenza di merito (e parte della stessa Corte di Cassazione) aveva – negli anni – elaborato, pervenendo alla distinzione fra coltivazione domestica e coltivazione agraria.
Senza ripercorrere il tormentato e contraddittorio iter percorso dalla giurisprudenza in questi anni, sul tema (con le differenze fra coltivazione domestica e coltivazione agraria), sia sufficiente precisare come il collegamento finalistico fra condotta coltivativa e destinazione del prodotto all’uso personale del coltivatore, deve essere tassativo e non derogabile, onde potere pervenire ad una depenalizzazione anche della coltivazione.
In un simile contesto, quindi, ritiene chi scrive che una nuova e più impegnativa sfida attende gli operatori del diritto e concerne l’intervento interpretativo-addittivo sulla coltivazione.
Si tratta, quindi, di compulsare la Corte Costituzionale a che la previsione delle condotte non sanzionabili, ai sensi dell’art. 73 comma 1 bis dpr 309/90, così come introdotto dall’art. 4 bis dl 272/2005, venga estesa anche alla coltivazione, riconoscendo la illegittimità costituzionale della norma in questione nella parte in cui non prevede l’estensione della causa di giustificazione dell’“uso esclusivamente personale” anche alla citata condotta.
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Senza vis polemica e proprio nello spirito costruttivo che mi propongo, mi permetto, però, di chiedere a tutti coloro già pronti a cogliere l’occasione per discettare su argomenti spesso ai medesimi non ben conosciuti, di lasciare operare a chi quotidianamente si interessa di queste vicende e di avere l’onestà intellettuale di riconoscere che le modifiche al dpr 309/90 non sono frutto di forzature politiche o di proteste di movimenti di opinione, ma scaturiscono esclusivamente dallo studio e dalla interpretazione evolutiva della norma.
E’ questa, attività che non si concretizza a scadenze fisse, ma richiede, invece, spesso anni di silenzioso approfondimento, senza proclami e senza annunzi roboanti e con comunicazioni pubbliche solo quando si ha ragionevole certezza di quanto si va proponendo.
Proprio l’esatto opposto dello strepitus fori di cui siamo tanto testimoni ai giorni nostri.
Rimini, lì 20 febbraio 2013
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