Quale dovrebbe essere il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente? Quanto sono importanti i rapporti interpersonali tra le due figure? Sono domande che spesso si pongono sia i titolari sia i lavoratori subordinati. Le relazioni con il proprio capo hanno un ruolo importante indipendentemente dal settore lavorativo, infatti tali i rapporti si riflettono sulla produttività e l’efficienza aziendale. Il rapporto tra i due soggetti è dunque un aspetto importante per un’organizzazione, e il segreto sta nel mantenere relazioni distese e trasparenti ma questo richiede impegno e responsabilità da parte di tutte le persone coinvolte.
I rapporti tra datore di lavoro e lavoratore sono sempre molto complessi e anche se inizialmente sono -apparentemente- chiari ma quasi sempre” in fondo” o “nel corso” del rapporto medesimo diventano molto difficili, per cui si rende necessario il ricorso ad un legale di fiducia, ad una organizzazione sindacale oppure, in ultimo ma non per ultimo, all’intervento dell’Ispettorato del lavoro. Quando le aspettative vengono disattese? quando il dipendente si accorge che ci sono dei problemi? Se nel confronto tra i lavoratori si viene a conoscenza che nelle buste paga vengono ad essere realizzate delle disparità di trattamento ad personam?
Può succedere! Certo che è possibile ed è frequente per svariati motivi: può succedere, per esempio, che a tutti i dipendenti di un’azienda, tranne una/uno- a parità di livello e mansione-, venga riconosciuta dal datore di lavoro una somma a titolo di “superminimo” come incremento della retribuzione base oltre ad un ulteriore premio ad personam (quest’ultimo regolarmente assoggettato a contribuzione ai fini previdenziali ed assicurativi oltre che fiscali).
Ma questo è corretto? E che conseguenze possono verificarsi nel calcolo del montante contributivo quando quella lavoratrice/lavoratore debba ricostruire la sua posizione previdenziale o debba far ricorso alle prestazioni a sostegno? Cerchiamo di affrontare la questione cercando di avere sempre presente la tutela del lavoratore, approfondiamo cosi la natura di tale riconoscimento.
Un dato esperienziale riferisce che molto spesso l’azienda, chiamata ad esibire i contratti di lavoro ed eventuali accordi espressi da cui poter evincere il criterio di riconoscimento del superminimo “intuitu personae” (cercando in sostanza di verificare la motivazione degli incrementi retributivi personalizzati erogati in funzione di particolari meriti o qualità del lavoratore, oppure occasionati da situazioni momentanee del mercato del lavoro e simili) non produca alcunché e se ne produce qualcuno nulla si dice in merito al riconoscimento del superminimo. Ciò che viene registrato sulle buste paga è quindi solo un elemento retributivo sic e simpliciter riconosciuto negli anni ad personam a tutti tranne ad un/una dipendente e che non viene mai assorbito dagli aumenti contrattuali, in barba a ciò che viene stabilito nei CCNL di settore di riferimento applicato, con conseguenze importanti ai fini pensionistici.
Indice
- Il superminimo è un elemento retributivo disciplinato “ad hoc”
- Ma se il CCNL non disciplina il superminimo? E se mancano gli accordi individuali? Quali conseguenze?
- USO AZIENDALE: Cassazione decisione n. 9690 del 6 novembre 1996.
- USO AZIENDALE: fonte di obbligo?
1. Il superminimo è un elemento retributivo disciplinato “ad hoc”
Il superminimo è un elemento retributivo accessorio e può essere stabilito dai contratti collettivi aziendali oppure erogato ad personam, ovvero stabilito dai contratti individuali in considerazione di particolari meriti o capacità del singolo lavoratore, in alcuni casi però il CCNL non lo prevede e molto spesso, anzi spessissimo, l’azienda non ha un integrativo aziendale e non ci sono contratti individuali espressi né lettere di attribuzione del superminimo. Allora che fare?
Le somme corrisposte a titolo di superminimo (collettivo o individuale) costituiscono elemento base della retribuzione del dipendente che ne fruisce e sono componenti dell’imponibile contributivo e fiscale. Il superminimo non è assorbile quando:
- ciò è stabilito in maniera inconfutabile da una clausola espressa nel contratto individuale (che nel nostro caso non c’è) o, anche, pur in assenza di una specifica pattuizione risulti da comportamenti concludenti;
- quando la non assorbibilità dell’aumento contrattuale sia stabilita dalla contrattazione collettiva (che nel nostro caso non è previsto);
- quando le parti hanno voluto attribuire al superminimo la natura di compenso speciale collegato a meriti particolari o alla speciale qualità o ad una maggiore onerosità delle mansioni svolte, circostanza che, a mio parere, va acclarata dal datore di lavoro in un accordo espresso.
La natura del superminimo dipende dal fatto che lo stesso derivi dal riconoscimento di particolari professionalità o prestazioni che si differenziano per qualità o quantità da quelle normalmente fornite da altri lavoratori inquadrati al medesimo livello e con mansioni formalmente uguali; oppure se viene riconosciuto per lo svolgimento di mansioni che i CCNL pongono allo stesso livello di inquadramento, ma che aziendalmente si ritengono meritevoli di una maggiore retribuzione.
Allora possiamo trovarci nel caso di un accordo personale e non espresso con i dipendenti; il superminimo individuale può essere cosi modificato, ridimensionato, sospeso o eliminato solo attraverso un successivo accordo tra le due parti che vede appunto la modifica o l’eliminazione del trattamento retributivo accessorio precedentemente inserito nel contratto di lavoro e nelle buste paga. Questo solo se l’emolumento è liquidato in presenza di condizioni temporanee o motivazioni specifiche e non è correlato al patrimonio professionale del lavoratore (nel caso in cui invece si trattasse di un elemento retributivo stabilito dal contratto nazionale, sarebbe soggetto alle modifiche di legge e non potrebbe subire variazioni individuali).
Fondamentale è rammentare che il superminimo individuale, essendo una voce della retribuzione fissa equiparata alla paga base, è lordo non è netto, ed è tassabile. Cioè è imponibile ai fini contributivi (ossia sul superminimo l’azienda deve calcolare i contributi previdenziali a carico del lavoratore ed a carico azienda) ed è imponibile ai fini fiscali (quindi rientra nell’imponibile sul quale al lavoratore viene calcolata l’Irpef).
Facendo parte della retribuzione fissa, il superminimo rientra anche nell’imponibile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto nonché nel calcolo delle mensilità aggiuntive quale la tredicesima (quindi anche nella tredicesima va pagato il superminimo) e la quattordicesima mensilità. Il superminimo incide inoltre sul calcolo delle ferie, dei permessi e, soprattutto, del compenso orario per le prestazioni di lavoro straordinario o supplementare.
2. Ma se il CCNL non disciplina il superminimo? E se mancano gli accordi individuali? Quali conseguenze?
Facciamo un po’ il punto della situazione: preso atto che il CCNL non dica nulla, cosa succede se mancano anche gli accordi? Nel caso di specie, non essendoci un accordo espresso, possiamo pensare di considerare il superminimo come una condizione migliorativa della regolamentazione di base del rapporto di lavoro di tutti i dipendenti (tranne una-uno), poi mantenutesi ininterrottamente nel corso di svariati anni. In sostanza un trattamento di miglior favore che si è protratto sine die, una sorta di USO AZIENDALE?
Non un uso normativo ma un uso negoziale la cui rilevanza postula un atto di autonomia individuale da parte del datore di lavoro a favore di una categoria o gruppo di lavoratori di benefici fondati sulla spontaneità datoriale (cioè a dire al di fuori di obblighi di sorta), e dietro reiterazione nel tempo in maniera tale da determinare nei lavoratori beneficiari la ragionevole aspettativa della loro continuità al sussistere delle condizioni (e dell’assetto normativo positivo in cui il beneficio è stato concesso e che ne ha costituito la premessa).La continuità dei benefici addizionali fondati sull’ “uso aziendale” presuppone quindi le seguenti condizioni, che si possono ritrovare in caso simile:
- la spontaneità del comportamento datoriale riscontrata a posteriori mediante l’accertamento dell’oggettiva assenza o inesistenza di un obbligo impositivo del comportamento in questione (CCNL o CCNI);
- la reiterazione del comportamento nel tempo, tale da giustificare l’affidamento della continuità in capo ai dipendenti (o alla categoria di personale) cui il beneficio è stato concesso;
- la persistenza o “invarianza” dell’assetto e delle condizioni organizzative aziendali che hanno determinato originariamente la concessione liberale e che ne sono state il presupposto determinante.
Un vecchio orientamento (oramai abbandonato da parte della Cassazione) riconduceva i trattamenti migliorativi addizionali alla clausola d’uso ex articolo 1340 codice civile, con effetti di inserimento e d’integrazione del contenuto delle obbligazioni verso quei lavoratori nei cui confronti l’uso si era formato, senza estensibilità alla generalità dei lavoratori o ai nuovi assunti che in futuro si fossero trovati nelle stesse condizioni (cfr., Cassazione 24.5.1991, n. 5903; Cassazione 13.12.1986, n. 7483). L’uso aziendale determinava l’inserimento della clausola di miglior favore nei contratti individuali della ristretta cerchia dei lavoratori in servizio all’epoca in cui l’uso si era formato e si sarebbe mantenuto in perpetuo indipendentemente da contrarie pattuizioni di fonte collettiva.
Tale orientamento risultava espresso nella seguente massima: «Le erogazioni del datore di lavoro non imposte da legge, né dal contratto collettivo, né da espresse pattuizioni individuali devono considerarsi come facenti parte dell’ordinaria retribuzione se corrisposte continuativamente ad una generalità di dipendenti, atteso che esse – per effetto della prassi, anche se limitata ad una sola azienda – assumono la natura di emolumento dovuto per uso aziendale, riconducibile alla natura degli usi negoziali o di fatto, i quali debbono ritenersi inseriti (ex articolo 1340 c.c.) non già nel contratto collettivo (alle cui eventuali successive modifiche sono insensibili), ma – salva un’espressa volontà contraria delle parti – in quello individuale, di cui integrano il contenuto in senso modificativo o derogativo (“in melius” per il lavoratore) della contrattazione collettiva» (Cassazione, sezioni unite, 30.3.1994, n. 3134; Cassazione 28.4. 1988, n. 3220; Cassazione, sezioni unite, 17.3.1995, n. 3101).
3. USO AZIENDALE: Cassazione decisione n. 9690 del 6 novembre 1996.
In questa decisione si osservò che: «l’uso aziendale è stato dalla giurisprudenza configurato non solo nel caso in cui un determinato comportamento sia stato reiteratamente tenuto dall’imprenditore nei confronti di tutti i suoi dipendenti, ma anche quando esso sia tenuto nei confronti di una ristretta cerchia di dipendenti che abbiano una determinata qualifica, o nei confronti di ciascun dipendente in un’unica vicenda del rapporto di lavoro (es. la cessazione del rapporto, n.d.r.). In tali ipotesi il reiterato comportamento del datore di lavoro fa sorgere l’obbligazione non solo nei confronti dei beneficiari di tale comportamento, ma anche nei confronti degli altri dipendenti, che, in tempi diversi e successivi, conseguiranno la medesima qualifica o si troveranno ad affrontare la stessa vicenda del rapporto. In questo caso se (…) il fenomeno viene esaminato sotto il profilo tipicamente negoziale e interindividualistico, non si riesce a spiegare come un’isolata attribuzione patrimoniale, effettuata nei confronti di un lavoratore in una determinata circostanza (nella specie la cessazione del rapporto di lavoro e la liquidazione del t.f.r.) possa non solo modificare il contratto di lavoro del dipendente beneficiato (effetto questo fra l’altro del tutto superfluo, una volta che l’erogazione avvenga alla fine del rapporto), ma addirittura integrare il rapporto di lavoro degli altri lavoratori ancora in servizio, facendo sorgere un obbligo dell’imprenditore (…) ad effettuare la stessa prestazione patrimoniale, allorché ciascuno di tali lavoratori abbandonerà l’azienda. Per spiegare l’efficacia automatica dell’uso aziendale nei confronti dei singoli contratti individuali di lavoro, sia nell’ipotesi di un comportamento generalizzato che in quella del comportamento ristretto a singole categorie o ad eventi determinati – senza poter ricorrere all’art. 1340 codice civile (applicabile solo in presenza di un uso preesistente al momento della conclusione del contratto) e senza che sia stata convenzionalmente concordata tale modifica – deve necessariamente ritenersi che l’uso aziendale (di carattere negoziale e non normativo) fa sorgere un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli dell’uso aziendale (art. 2077 c.c.)».
Secondo questo nuovo orientamento (i cui precedenti si ritrovano in Cassazione 29.5.1967, n. 1176; Cassazione 19.3.1986, n. 1916; Cassazione 9.8.1991, n. 8705), i trattamenti migliorativi da uso aziendale vengono ricondotti in un alveo genetico di carattere collettivo.
4. USO AZIENDALE: fonte di obbligo?
In particolare la Cassazione con decisione n° 13294 del 27 novembre 1999 ha sottolineato che: «… di uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, si può parlare non già in ragione della mera reiterazione di un comportamento datoriale favorevole nei confronti di una pluralità di dipendenti, ma a condizione di poter concretamente individuare nel comportamento stesso gli elementi dello specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto di lavoro per tutti i dipendenti».
L’orientamento in ordine all’equiparazione dell’uso aziendale, nei suoi effetti, ad un contratto collettivo aziendale viene riconfermato successivamente da Cassazione n. 14606 del 10 novembre 2000 che si è trovata ad esaminare un caso pressoché identico a quello di Cassazione n. 13294/1999.
L’orientamento sopra delineato –a favore invece dell’inquadramento degli usi aziendali tra le fonti collettive endoaziendali – viene poi riconfermato da Cassazione n. 1773 del 17 febbraio 2000. In questa linea di pensiero, seguono altre decisioni – che si ricollegano esplicitamente a Cassazione n. 9690/1996 – tra cui, oltre a Cassazione n. 1773/2000, Cassazione 8 aprile 2010 n. 8342.,Cassazione 17 marzo 2010, n. 6453
La decisione della Cassazione n. 1773/2000 sottolinea nuovamente le incongruenze dell’accostamento degli usi aziendali all’art. 1340 c.c., asserendo che, se si dovesse condividere la riconduzione dei trattamenti migliorativi da uso aziendale all’art. 1340 codice civile (cioè all’ambito delle obbligazioni da contratto individuale), si dovrebbe distinguere in ragione del momento di assunzione dei vari dipendenti (poiché il datore di lavoro avrebbe la facoltà di escludere l’inserzione dell’uso sia nei confronti di coloro che – in quanto già assunti – ne sono in precedenza rimasti esclusi, sia di coloro che saranno assunti in futuro, con i quali non è ancora in atto un contratto individuale).
Tutto ciò convince la Corte del fatto che la necessaria coesione dei rapporti di lavoro all’interno dell’azienda (determinata dalla identità dell’organizzazione e dei suoi effetti dinamici) porta ad ascrivere gli usi aziendali nel novero delle “fonti sociali” collettive endoaziendali, così come ne fa parte il c.d. regolamento aziendale o d’impresa o di stabilimento, adottato dall’imprenditore unilateralmente nell’esercizio del suo potere di iniziativa economica.
Nel trarre le conclusioni della disamina svolta ai punti precedenti, si può giungere alla seguente sintesi riassuntiva: l’attuale orientamento giurisprudenziale che si è occupato dei trattamenti di miglior favore disposti spontaneamente dal datore di lavoro a favore di una categoria (per parità di livello) di dipendenti ovvero dell’intera compagine aziendale (reiteratisi ininterrottamente negli anni), li ha considerati spettanti per cd. “uso aziendale”, sancendone di conseguenza la non revocabilità per atto unilaterale dall’imprenditore.
La giurisprudenza di Cassazione fa discendere automaticamente la conseguenza che tali trattamenti di miglior favore non sono perpetui, cioè non si mantengono sine die. Tali benefici di integrazione retributiva (superminimo) erogati da uso aziendale, in ragione della loro natura analoga ai trattamenti economico-normativi dei contratti integrativi aziendali, devono essere riconosciuti a tutti i lavoratori dipendenti della azienda in ossequio al principio di parità di trattamento retributivo e di non discriminazione.
Si tratta in sostanza di un diritto in piena disponibilità del lavoratore su cui insiste il potere di rivolgersi al giudice del lavoro per vedersi riconosciuta la disparità di trattamento retributivo con richiesta delle somme debende e per eventuale risarcimento danni.
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