Sviluppo del processo e possibili nuove fasi di mediazione obbligatoria

In attuazione della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, ha, come è noto, previsto e disciplinato una fase preprocessuale di mediazione volta alla composizione amichevole di un catalogo di controversie aventi ad oggetto diritti disponibili.

Tale art. 60 della legge 69/2009, nell’indicare i principi ed i criteri direttivi ai quali il Governo doveva attenersi, stabiliva, al comma 3, lettera a), che la predetta mediazione non dovesse precludere “l’accesso alla giustizia”.

Nel decreto legislativo, la menzionata direttiva contenuta nella legge delega è stata attuata prevedendosi che – nelle materie relative a condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari – il procedimento di mediazione disciplinato nel predetto decreto legislativo costituisca una vera e propria condizione di procedibilità della domanda giudiziale e che il mancato esperimento dello stesso possa formare, non oltre la prima udienza, oggetto di eccezione da parte del convenuto e di rilievo d’ufficio da parte del giudice.

In altre parole, nelle suddette materie, il soggetto che vuole accedere alla tutela giurisdizionale deve necessariamente e preliminarmente esperire la nuova procedura di mediazione; procedura che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del decreto legislativo de quo, non può durare più di quattro mesi.

Scopo del presente lavoro è quello di individuare le soluzioni processuali adottabili in caso di una evoluzione del processo che allontani, dal punto di vista soggettivo e/o oggettivo, quest’ultimo dalla fase di mediazione già effettuata.

Mi spiego.

La fase di mediazione, come detto, costituisce condizione di procedibilità della domanda. Tale fase prende avvio con il deposito di una istanza presso uno degli organismi di conciliazione. L’istanza di mediazione, ai sensi dell’art. 4, comma 2, deve indicare, oltre al predetto organismo, anche “le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa”, e, dunque, gli elementi soggettivi ed oggettivi di quella che costituirà la successiva domanda giudiziale.

I confini che delimitano l’ambito entro il quale opera il mediatore coincidono, quindi, con quelli che delimitano la domanda.

Risulta, allora, naturale interrogarsi circa la direzione che deve imboccare il giudizio qualora, dopo la proposizione della domanda giudiziale, lo stesso si arricchisca di nuove domande o di nuove parti.

In altri termini, cosa deve fare il giudice qualora, all’interno di un processo pendente, l’attore, il convenuto o un terzo interveniente propongano, ritualmente e tempestivamente, una nuova domanda o chiamino un terzo in causa? Arrestare l’iter processuale in attesa dell’espletamento di una nuova fase di mediazione o decidere la controversia?

E quale soluzione occorre adottare in caso di intervento non accompagnato dalla proposizione di una domanda (intervento adesivo dipendente) o in caso di ordine di integrazione del contraddittorio? Decidere o disporre una nuova mediazione allargata alle nuove parti?

In sostanza, sono ipotizzabili nuove fasi di mediazione determinate da vicende che attengono allo sviluppo interno del processo? Nuovi procedimenti di mediazione collegati, cioè, a dinamiche meramente endoprocessuali?

Come si vede, gli interrogativi sono delicati e di non facile soluzione, considerando che le risposte agli stessi sono ineluttabilmente destinate a “fare i conti” o con il principio della ragionevole durata del processo o con quello che è il contenuto letterale della nuova normativa che non distingue tra domande principali e domande proposte successivamente e tra parti originarie e parti nuove.

Va subito evidenziato che il legislatore non ha, espressamente, dettato alcuna regola con riferimento alle ipotesi delineate nei suddetti interrogativi.

Sotto un profilo pragmatico, l’esigenza che il processo si concluda in tempi ragionevoli (unitamente a quella di evitare ogni possibile forma di abuso strumentale del processo) dovrebbe spingere a ritenere che il procedimento di mediazione debba essere esperito soltanto preliminarmente alla proposizione della domanda principale1.

In quest’ottica, ai fini dello svolgimento del giudizio, sarebbe necessaria e sufficiente un’unica fase di mediazione quale che sia il numero di domande cumulate successivamente.

In altri termini, ad un cumulo successivo di domande non dovrebbe obbligatoriamente corrispondere un cumulo di fasi di mediazione.

Che la necessità di dover esperire, in tempi diversi e sempre nell’ambito dello stesso processo, una pluralità di procedimenti di mediazione sia un’evenienza difficilmente compatibile con il principio della ragionevole durata del processo costituisce un dato difficilmente contestabile.

Che tale reiterazione di procedimenti di mediazione comporti, inoltre, un aumento delle spese (di avvio del procedimento e di mediazione) che devono essere corrisposte dalle parti è altrettanto indubbio.

Il rischio di segmentazione del processo e quello di moltiplicazione dei costi indurrebbero, allora, a non aprire la strada alla proliferazione delle procedure di mediazione nell’ambito di processi caratterizzati da un cumulo successivo di domande. Soluzione, questa, che – permettendo, in un’ottica di “riduzione del danno”, di contenere l’impatto che la nuova disciplina avrà sul sistema di tutela dei diritti (costituendo, cioè, un tentativo di limitare, il più possibile, i danni) – ben si giustifica alla luce della dubbia utilità e della dubbia costituzionalità dell’istituto della mediazione obbligatoria.

Sebbene, sul tema oggetto delle presenti considerazioni, il decreto sia a dir poco laconico, riterrei, però, che il legislatore si sia mosso in un’ottica diversa.

Il legislatore parte, invero, dal presupposto che, in ogni caso, lo svolgimento di una o più fasi di mediazione possa produrre benefici effetti deflattivi e che, dunque, l’allungamento temporale dell’iter processuale e l’aumento dei costi siano prezzi che, nell’economia del sistema, possano essere pagati senza troppi rimpianti.

È vero che, attivando un procedimento di mediazione ogniqualvolta una nuova domanda venga proposta, il singolo processo subisce un rallentamento nella sua corsa verso la sentenza, ma, ad avviso del legislatore, è proprio questo rallentamento che potrebbe condurre all’arresto definitivo del giudizio e, dunque, in un’ottica macrosistemica, all’abbattimento del numero dei processi pendenti e, conseguentemente, al successo del nuovo modello.

In questa logica, l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo – dopo aver stabilito che “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione” – prevede che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.

Per poter accedere alla tutela giurisdizionale è, dunque, obbligatorio percorrere la strada della mediazione. L’esperimento del procedimento di mediazione, alla luce del predetto dato normativo, risulta, però, essere condizione di procedibilità non genericamente del processo da intendersi quale recipiente che contiene tutte le domande via via proposte dalle parti o da terzi intervenienti, bensì di ogni singola azione, di ogni singola domanda giudiziale.

Il legislatore non ha, cioè, stabilito che l’esperimento della fase di mediazione costituisca condizione di procedibilità solo della domanda introduttiva del giudizio; solo della domanda, cioè, che determina la nascita del processo.

Sembra, allora, che ogni domanda giudiziale, senza distinzioni, debba essere preceduta, alla luce della lettera della norma, dallo svolgimento della fase di mediazione e che l’esperimento della mediazione non costituisca un onere da adempiere una volta per tutte2.

Quanto sia stata consapevole e ponderata questa scelta del legislatore proprio non lo saprei dire. Certo è, però, che alla luce della lettera della norma, la mediazione sembra essere fenomeno che, purtroppo, non resta insensibile agli accadimenti del processo, ma che si vivifica ogniqualvolta un nuovo bene della vita ed un nuovo diritto entrino in gioco nel processo. E ciò, forse, sul presupposto che: 1) la domanda introdotta nel processo successivamente è una domanda che, pur dovendo presentare elementi di collegamento con la domanda principale, appare certamente dotata di una propria autonomia, essendo anch’essa diretta a sfociare in una pronunzia idonea al passaggio in giudicato; 2) dal punto di vista strutturale e funzionale, le due domande, principale e successiva, non presentano differenze; 3) entrambe sono dirette alla tutela di diritti soggettivi; 4) entrambe tendono al giudicato; 5) entrambe, quindi, allo stesso modo costituiscono estrinsecazione del diritto d’azione costituzionalizzato nell’art. 24 Cost..

Tot domande tot mediazioni, dunque. Soluzione, questa, a forte sospetto di incostituzionalità e forse giustificabile, nell’ottica del legislatore, alla luce del fatto che la proposizione di una nuova domanda da parte del convenuto, dell’attore o di un terzo interveniente potrebbe spingere le parti a rivedere la propria posizione circa la convenienza ad addivenire ad una conciliazione3; e ciò, ovviamente, a condizione che nella fase di mediazione venga “trattata” non solo la nuova domanda, ma anche quella principale già oggetto di un precedente procedimento finalizzato alla conciliazione.

Come detto, sulla base del dato normativo, una nuova fase di mediazione si appalesa necessaria allorché, all’interno del processo originario, venga proposta una nuova domanda, venga, cioè, fatto valere un nuovo diritto.

La proposizione di una domanda da parte del convenuto (domanda riconvenzionale), da parte dell’attore (reconventio reconventionis), da parte di colui che spiega un intervento volontario principale, da parte di colui che spiega un intervento volontario litisconsortile, e la chiamata del terzo faranno, così, sorgere l’esigenza di una nuova fase di mediazione.

Esigenza che – se, da un lato, si materializzerà, ovviamente, anche nel caso in cui il giudice, ravvisando una ipotesi di litisconsorzio necessario, dovesse ordinare l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. – dall’altro, invece, non sorgerà in caso di intervento adesivo dipendente, tenuto conto che tale intervento è volto non a far valere un proprio diritto, ma solo a sostenere le ragioni di una delle parti.

Proposta la nuova domanda, l’improcedibilità della stessa dovrà, ai sensi dell’art. 5, comma 1, del decreto, essere eccepita dalle parti o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza successiva. Il giudice fisserà, quindi, la successiva udienza dopo la scadenza del termine indicato nel predetto art. 6, assegnando contestualmente alle parti, qualora non sia stato già attivato il procedimento di mediazione, il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di mediazione. E ciò, a mio avviso, però, solo dopo aver accertato la tempestività e la ritualità di tale nuova domanda; accertamento che potrebbe scoraggiare e reprimere comportamenti diretti maliziosamente ad allungare l’iter processuale.

E se l’eccezione di improcedibilità, tempestivamente proposta, venisse respinta dal giudice? Che conseguenze potrebbero configurarsi con riferimento al giudizio d’appello?

L’eventuale vizio che inficia la sentenza di primo grado non rientra tra quelli che, ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c., determinano una rimessione al giudice di primo grado.

Occorre, allora, unicamente verificare se il giudice d’appello, accertato il mancato svolgimento della fase di mediazione, debba o meno, anche in questo caso, fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui al predetto art. 6, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di mediazione.

La circostanza che già un grado di giudizio si sia interamente svolto induce a ritenere che una nuova fase di mediazione non sia necessaria, fermo restando che, ai sensi dell’art. 5, comma 2, il giudice d’appello, “valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può invitare le stesse a procedere alla mediazione”.

 

Santangeli Fabio

 

1 Cfr. DALFINO D., Dalla conciliazione societaria alla «mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali», in www.judicium.it, 9, secondo cui: “un’interpretazione restrittiva sarebbe preferibile, in considerazione del notevole allungamento dei tempi processuali che determinerebbe l’esperimento di una pluralità di procedimenti di mediazione in corso di causa per ciascuna domanda giudiziale (successivamente) proposta”.

Sul tema, cfr. anche FABIANI E. – LEO M., Prime riflessioni sulla“mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” di cui al d.lgs. n. 28/2010, in www.judicium.it, 7-8.

2 Con riferimento alla domanda riconvenzionale, diversa è la posizione di SCARSELLI G., La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in www.judicium.it, 3, il quale sottolinea che “la legge non subordina mai alla previa mediazione” la domanda proposta dal convenuto.

3 Sul punto, cfr. DITTRICH L., Il procedimento di mediazione nel d. lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in www.judicium.it, 13, secondo cui: “L’art. 3 condiziona la «procedibilità della domanda giudiziale», e non la semplice instaurazione del processo, al tentativo di mediazione: di talché, ove si versi in materie soggette alla mediazione preventiva obbligatoria, in tutti i casi in cui vi sia l’introduzione di nuove domande dovrebbe essere, a rigore, necessario l’esperimento del tentativo di mediazione. Il pensiero corre alla domanda riconvenzionale, alla reconventio reconventionis dell’attore, all’intervento autonomo dei terzi (art. 105 primo comma c.p.c.), alla chiamata del terzo ad opera di una delle parti e, ove si accompagni alla proposizione di una nuova domanda, anche alla chiamata iussu judicis. Le conseguenze di una tale interpretazione della normativa in esame sono nefaste e certamente incostituzionali, se si pensa che una semplice chiamata in garanzia ad opera del convenuto, per effetto del cumulo dei tempi della mediazione ante causam, dei termini minimi a comparire dell’originario convenuto e del terzo, nonché del procedimento di mediazione nei confronti del terzo stesso, porterebbero a celebrare la prima udienza quattordici mesi dopo l’introduzione della prima domanda di mediazione (!). Mi sembra che l’unica soluzione, che possa salvare la norma da una sicura censura di incostituzionalità, sia quella di ritenere che il tentativo obbligatorio si ponga come condizione di procedibilità della domanda giudiziale che introduce il processo, mentre tutte le domande successive, che possono sorgere all’interno del processo stesso, non siano soggette a tale onere. L’alternativa è solo la pronuncia di incostituzionalità dell’art. 5, nella parte in cui assoggetta al tentativo obbligatorio di mediazione anche domande proposte nel corso del processo dalle parti o da terzi”.

Santangeli Fabio

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