In tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio.
(Rigetto del ricorso)
(Normativa di riferimento: Cod. pen. artt. 81; 337)
Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione
L’imputato veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di cui agli artt. 81, secondo comma, e 337 cod. pen., per avere rivolto minacce di morte e usato violenza contro i funzionari di PS ass. F. e isp. L. dicendo loro «ti ammazzo, io sono di Ancona, quanto siete voi io vi ammazzo tutti», «lasciatemi andare che vi ammazzo», strattonandoli e tentando di prenderli a pugni per opporsi mentre i predetti pubblici ufficiali intervenivano per impedirgli di aggredire P. D.; in Ancona il 4/9/2010.
Il Tribunale di Ancona, procedendo con il rito abbreviato, escluse le attenuanti generiche, riconosciuta la continuazione ex art. 81, secondo comma, cod. pen. nonché la diminuente per il rito, condannava l’imputato alla pena di quattro mesi e venti giorni di reclusione con sentenza in data 6 settembre 2010, che la difesa appellava chiedendo il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’esclusione dell’aumento della pena per la ritenuta “continuazione” applicata in funzione della pluralità dei fatti commessi secondo una ricostruzione della vicenda (in tesi della difesa) incompatibile con le risultanze processuali.
La Corte di appello di Ancona, con sentenza del 10 aprile 2014, dal canto suo, confermava la decisione di primo grado e, richiamando l’insegnamento di Sez 6, n. 26173 del 2012, specificava che la “continuazione” fosse da ricollegarsi non tanto alla pluralità delle condotte delittuose, quanto al fatto che l’illecito era stato consumato in danno di una pluralità di pubblici ufficiali.
Proponeva ricorso per cassazione l’imputato, tramite il difensore avv. P. T., denunciando: a) con un primo motivo, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, vuoi per essere stata ritenuta la sussistenza di una pluralità di fatti in continuazione fra loro, pur a fronte di un’unica azione, vuoi per la mancanza di un’adeguata giustificazione dell’aumento della pena irrogata; b) con un secondo motivo, la carenza di motivazione relativamente al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, dolendosi per il trattamento sanzionatorio, definito eccessivo.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Sesta Sezione penale, assegnataria del procedimento, lo rimetteva alle Sezioni Unite, ravvisando, con riferimento alla soluzione del primo motivo di ricorso, l’esistenza di un consapevole contrasto di giurisprudenza sull’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 81, primo comma, cod. pen. nel caso in cui l’azione di resistenza sia stata contestualmente rivolta nei confronti di una pluralità di pubblici ufficiali impegnati nel compimento del medesimo atto dell’ufficio, avuto riguardo, in particolare, all’interesse giuridicamente protetto nel delitto previsto dall’art. 337 cod. pen.
Il Collegio rimettente segnalava sul punto l’esistenza di due diversi orientamenti giurisprudenziali che divergono nell’analisi della struttura della fattispecie e nell’individuazione dell’oggetto del reato, quale bene primario sul quale ricade l’azione del reo dato che, secondo una prima tesi (da ultimo seguita da Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, omissis, Rv. 270545) il reato di cui all’art. 337 cod. pen. si perfeziona con l’offesa ad ogni singolo pubblico ufficiale nei cui confronti viene esercitata la violenza o la minaccia nel momento del compimento di un atto dell’ufficio con il fine di ostacolarlo e, da questa ricostruzione della fattispecie astratta, discenderebbe che, nel caso di un unico atto, contestualmente offensivo di una pluralità di pubblici ufficiali, è realizzata una pluralità di violazioni dell’art. 337 cod. pen., la cui sanzione andrebbe determinata in base all’art. 81 cod. pen. mentre, secondo la tesi opposta (da ultimo seguita da Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, omissis, Rv. 270939), la resistenza troverebbe il suo momento consumativo nella “opposizione all’atto” (pubblico), sicché la violenza e la minaccia al pubblico ufficiale avrebbero carattere meramente strumentale nella realizzazione dell’illecito; in tal modo la condotta del reo, incidendo in primis sull’”atto”, non potrebbe che essere unica, essendo unico l’atto amministrativo ostacolato, indipendentemente dal numero dei pubblici ufficiali coinvolti nella sua esecuzione.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni Unite delimitavano la questione di diritto sottoposta al loro vaglio giudiziale nel seguente modo: “Se, in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., la condotta di chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, configuri un unico reato ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato”.
Si evidenziava al riguardo come il quesito imponesse la trattazione di due distinti e connessi temi di indagine, vale a dire: a) individuazione dell’ambito del concorso formale omogeneo di reati ex art. 81, primo comma, cod. pen.; b) analisi della fattispecie di cui all’art. 337 cod. pen. con particolare riguardo al profilo strutturale (condotta e oggetto materiale della stessa, così come individuati nella norma incriminatrice) nonché alla ricognizione del bene giuridicamente protetto, al fine di stabilire se l’offesa punita è quella diretta all’atto amministrativo in sé considerato, o, viceversa, consiste nell’opposizione – violenta o minacciosa – al pubblico ufficiale che esegue detto atto.
Posto ciò, per quel che riguarda il tema di cui alla lettera a), si osservava come l’articolo 81, primo comma, cod. pen. individua la fattispecie del “concorso formale di reati” tanto nel caso in cui con una sola azione siano violate diverse norme di legge (c.d. concorso formale eterogeneo di reati), quanto nel caso in cui, con una sola azione, venga violata contestualmente più volte la medesima disposizione di legge (c.d. concorso formale omogeneo di reati) e, nel concetto di azione unica, so evidenziava come andassero ricompresi tanto i casi in cui l’azione si risolva in un “atto unico” (conforme alla condotta normativamente prevista), quanto i casi in cui l’azione si realizzi attraverso il compimento di una “pluralità di atti” che siano contestuali nello spazio e nel tempo ed abbiano fine unico precisandosi al contempo che, a scanso di ambiguità, l’apprezzamento di tali caratteri (contestualità degli atti e unicità del fine) deve essere effettuato attraverso un raffronto rigoroso e costante della fattispecie astratta descritta dalla norma.
Inoltre, una volta rilevato che in linea generale si deve ancora affermare che la consumazione del reato si realizza ogniqualvolta, attraverso la condotta astrattamente descritta nel precetto, sia realizzata l’offesa tipizzata e sia leso l’interesse protetto dalla norma (c.d. evento giuridico) discendendo da ciò che la fattispecie del concorso formale omogeneo ex art. 81, primo comma, cod. pen. si realizza quando il bene tutelato sia leso più volte da una azione che, sul piano fenomenico, diviene causa di una pluralità di lesioni o eventi omogenei, si passava subito dopo a far presente come apparisse opportuno specificare che l’indagine dovesse limitarsi alla valutazione del solo fatto storico, riscontrando, sulla scorta del modello normativo, l’esistenza di plurime violazioni della medesima disposizione di legge, non essendo necessaria alcuna ulteriore specifica indagine circa la rilevanza dell’interesse tutelato dalla norma non sembrando invece avere sicuro fondamento, ad avviso della Corte, l’opinione secondo la quale, distinguendo tra norme incriminatrici che tutelano beni altamente personali (vita, integrità fisica, libertà personale, onore) e norme che proteggono beni di natura diversa, si afferma che nel primo caso sarebbe sempre configurabile una pluralità di reati in ragione della rilevanza dei plurimi interessi lesi, mentre nel secondo ciò non sarebbe sempre possibile posto che detta tesi pone un alone di incertezza nel giudizio di concretizzazione della fattispecie tipica mentre, sul piano normativo, non paiono rinvenirsi argomenti per una distinzione di tale fatta, né criteri discretivi oggettivi che consentano di distinguere con sufficiente precisione tra i beni altamente personali e quelli che tali non sarebbero.
Chiarito ciò, passando ad un’analisi di natura applicativa, i giudici di Piazza Cavour facevano presente che, ai fini della verifica in concreto della ricorrenza di un’ipotesi di concorso formale omogeneo di reati, bisognasse procedere all’ideale scissione della complessiva vicenda fattuale in tante parti quanti sarebbero gli eventi giuridici, verificando quindi se ognuno degli autonomi frammenti di essa integri, in tutte le sue componenti (soggettiva ed oggettiva), la fattispecie prevista dal legislatore: tenendosi presente che sul piano soggettivo occorre attentamente verificare che il dolo investa ciascuno dei singoli frammenti del fatto stante il fatto che, perché si abbia concorso formale di reati, è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo proprio di ciascuna fattispecie criminosa o, in altre parole, non potendo farsi derivare la unicità o la pluralità dell’azione puramente e semplicemente dalla pluralità delle persone offese, è necessario, quando si verifica una tale ipotesi, un quid plurís consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, delle suddette persone, elemento quest’ultimo rinvenibile solo, come detto, attraverso la analisi concreta del fatto e dunque, nel caso di verifica positiva, ad avviso degli ermellini, si potrà quindi affermare che ricorre la fattispecie del concorso formale omogeneo.
Invece, passando ad esaminare il tema relativo al delitto di resistenza a un pubblico ufficiale, si esaminava in primo luogo la struttura della fattispecie avuto riguardo comunque alla descrizione normativa della condotta incriminata, l’interesse protetto dall’art. 337 cod. pen. facendo presente come, all’interno della medesima Sesta Sezione, sul punto si fossero formati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti e, precisamente: a) con il primo (ex multis: Sez. 6, n. 38182 del 26/09/2011, omissis, Rv. 250792 e Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012, omissis, Rv. 253111), si afferma che la violenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto nei confronti di più pubblici ufficiali, per contrastare il compimento di un atto del loro ufficio, configura tanti reati di resistenza quanti sono i soggetti passivi coinvolti e questa tesi si fonda sulla considerazione che l’azione delittuosa, pur ledendo unitariamente l’interesse del regolare funzionamento della pubblica amministrazione, si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività di ciascuno dei pubblici ufficiali incaricati del compimento dell’atto (che rappresenta l’oggetto materiale della condotta). In senso conforme si esprimono Sez. 6, n. 35376 del 22/06/2006, omissis, Rv. 234831 e, da ultimo, Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, omissis, Rv. 270545, in cui, in particolare, viene messo in rilievo che l’opposto indirizzo svaluta la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio e trascura che la pubblica amministrazione è un’entità astratta che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali, pur operando come organo della stessa, conserva una distinta identità suscettibile di offesa così come previsto dal dato testuale della disposizione; b) la tesi opposta (v. fra le più recenti: Sez. 6, n. 37727 del 09/05/2014, omissis, Rv. 260374; Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, omissis, Rv. 269005; Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, omissis, Rv. 270939; Sez. 6, n. 52725 del 28/09/2017, omissis, Rv. 271559), partendo dalla valorizzazione dell’interesse giuridico del regolare andamento della pubblica amministrazione, concentra l’attenzione sull’”atto” che deve essere eseguito, affermando che solo l’ostacolo all’esecuzione di quest’ultimo concreterebbe la lesione dell’interesse protetto; secondo questa tesi, in particolare, l’aspetto dell’integrità psico-fisica del pubblico ufficiale incaricato dell’esecuzione dell’”atto” assumerebbe, pertanto, un rilievo secondario o collaterale, con la conseguenza che la eventuale pluralità dei pubblici ufficiali fatti oggetto di minaccia o violenza non avrebbe incidenza alcuna sul piano dell’evento giuridico che rimarrebbe comunque unico; c) nell’alveo del secondo orientamento, si pone Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, omissis, Rv. 269005, che, in particolare, osserva come l’opposta tesi perda di vista il bene indiscutibilmente rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della p.a., mentre la persona fisica del pubblico ufficiale è tutelata dalle norme generali poste a presidio dell’integrità fisica dell’individuo quando la violenza supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice, che vale ad integrare l’elemento costitutivo della “violenza o minaccia” di cui al citato art. 337 cod. pen. fermo restando che la Sez. 6 n. 39341 del 12/07/2017, omissis, Rv. 270939 aggiunge che l’uso della violenza o della minaccia, per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, non si identificherebbe necessariamente nella minaccia o violenza contro la persona del pubblico ufficiale, potendosi manifestare in forme diverse da quelle riconducibili alle previsioni degli artt. 610 o 612 cod. pen., esplicandosi anche mediante violenza o minaccia impropria che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, riverbera negativamente sull’esplicazione della funzione, impedendola od ostacolandola.
Posto ciò, una evidenziati questi diversi indirizzi interpretativi, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano come la soluzione del contrasto imponesse un’analisi in cui tener conto anzitutto della struttura obiettiva dell’illecito come emergente dal testo dell’art. 337 cod. pen., quindi dell’interesse protetto desumibile da tale articolazione strutturale, oltre che dalla collocazione sistematica e dall’intitolazione dell’articolo dato che l’idea che l’individuazione della condotta incriminata, ai fini della verifica di ipotesi di concorso di reati, debba partire dall’individuazione del bene giuridico protetto ed essere incentrata su di esso, già ripudiato dalla giurisprudenza di legittimità allorché a venire in rilievo è il principio di specialità (cfr. da ultimo, tra molte Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, omissis, Rv. 270902), non solo non è formalmente conforme alle regole sull’interpretazione delle leggi, ma incorre – come rimarca autorevole Dottrina – nel vizio logico di confondere oggetto materiale e oggetto giuridico della tutela, che segna i limiti entro i quali il primo è tutelato e dunque si pone in contrasto, perciò, con i principi di tassatività e materialità, senza offrire garanzia aggiuntiva al principio di offensività, che sui limiti della tutela, appunto, riverbera.
Alla luce di quanto appena esposto, le Sezioni Unite stimavano necessaro partire dalla considerazione che la condotta tipica del delitto in esame si concreta nell’uso della violenza o della minaccia da chiunque esercitata per “opporsi a un pubblico ufficiale” (o a un incaricato di un pubblico servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza) mentre compie un atto dell’ufficio o del servizio atteso che l’elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano modale e teleologico, essendo sanzionata ogni condotta diretta a conseguire lo scopo oppositivo indicato dalla disposizione attraverso l’uso di violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio agente e quindi i suddetti elementi fattuali rilevano nella loro idoneità e univocità a impedire o a turbare la libertà di azione del soggetto passivo, sicché il reato è integrato da qualsiasi condotta che si traduca in un atteggiamento, anche implicito, purché percepibile, che impedisca, intralci o valga a compromettere, anche solo parzialmente o temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto dell’ufficio o del servizio, restando così esclusa ogni resistenza meramente passiva, come la mera disobbedienza.
Alla luce di quanto appena esposto, gli ermellini giungevano a postulare come la struttura della fattispecie sotto il profilo fattuale, prevedesse, dunque, una condotta commissiva-oppositiva connotata: a) dalla violenza o dalla minaccia (esclusa, come detto, la mera resistenza passiva) rivolta (in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito) esclusivamente contro il pubblico ufficiale o il soggetto normativamente ad esso equiparato, siccome tesa a coartarne o a impedirne l’agire funzionale; b) dalla volontà (dolo specifico) di ostacolare il soggetto passivo nel momento dell’esercizio della funzione pubblica rilevando al contempo che l’espressione adoperata dal legislatore – «mentre compie un atto di ufficio o di servizio» – ha la finalità di individuare contesto e finalità della condotta oppositiva e di circoscriverne la rilevanza nell’ambito di un obiettivo nesso funzionale ed di un determinato arco temporale, ricompreso tra l’inizio e la fine dell’esecuzione dell’atto dell’ufficio o del servizio; sicché, al di fuori del suddetto ambito, la violenza o la minaccia rivolte al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio configurano fattispecie diverse, quali ad esempio la violazione dell’art. 336 cod. pen. nel caso in cui la violenza e la minaccia siano antecedenti all’atto dell’ufficio, e ciò anche perché, richiamandosi alla medesima ratio, già la Corte costituzionale, con ordinanza n. 425 del 1996, avevo messo in evidenza come l’art. 337 cod. pen. non fosse rivolto a punire la violazione di una privilegiata posizione personale connessa ad una ormai tramontata configurazione dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, ma la maggior offesa arrecata alla pubblica amministrazione da una condotta volta ad impedire con violenza o minaccia l’attuazione della sua volontà: all’evidenza sottintendendo l’esistenza di una compenetrazione tra la persona fisica del pubblico ufficiale e la pubblica amministrazione per la quale quello agisce.
Detto questo, una volta quindi individuati la condotta sanzionata e l’oggetto materiale su cui la stessa ricade, consistenti nell’opposizione-offesa a “un” (id est ciascun) pubblico ufficiale agente, la Cassazione perveniva alla conclusione secondo la quale non può condurre a diverse conclusioni l’individuazione dell’interesse protetto dall’art. 337 cod. pen. dato che il “regolare funzionamento della pubblica amministrazione” rappresenta il bene giuridico tutelato in quanto, come univocamente e concordemente affermato, sulla base della collocazione sistematica e dell’intitolazione della disposizione, in tutta la giurisprudenza di legittimità, si esclude implicitamente la possibilità di rinvenire nella norma plurimi interessi giuridici di pari rango contemporaneamente protetti (regolare andamento della pubblica amministrazione e integrità fisica del pubblico ufficiale).
Difatti, una volta evidenziato che, secondo dottrina e giurisprudenza di diritto amministrativo, la pubblica amministrazione è unanimamente intesa come organizzazione complessa costituita sia dai beni materiali strumentali al raggiungimento delle finalità pubbliche sia dalle persone che per essa agiscono – fermo restando che la relazione giuridica intercorrente tra la persona fisica che ricopre l’ufficio o la funzione pubblica e la pubblica amministrazione è definito “rapporto organico” che determina l’identificazione della persona fisica incardinata nell’ufficio o nel servizio pubblico con la stessa pubblica amministrazione, sicché il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio è esso stesso pubblica amministrazione costituendo lo strumento della sua estrinsecazione nel mondo giuridico tanto sul piano volitivo che su quello esecutivo e in particolar modo, nel campo del diritto penale, il testo dell’art. 357 cod. pen. ricalca la ricostruzione giuridica dianzi esposta ricollegando la figura del pubblico ufficiale e dell’incaricato di un pubblico servizio al concreto esercizio della funzione o del servizio secondo un modello definitorio che esclude l’esistenza di un’alterità tra persona incardinata nella p.a. e quest’ultima – la Corte giungeva alla conclusione secondo la quale il “regolare andamento della pubblica amministrazione” implica, non solo la mancanza di manomissione dei beni pubblici o la loro distrazione per il perseguimento di scopi diversi da quelli istituzionali, ma anche la mancanza di interferenze nel procedimento volitivo od esecutivo di colui che, incardinato nella amministrazione, la personifica essendo espressione di volontà di quest’ultima e pertanto l’interesse al normale funzionamento della pubblica amministrazione va inteso in senso ampio, in quanto in esso si ricomprende anche la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, così come previsto dagli artt. 336, 337 e 338 cod. pen..
A fronte di ciò, le argomentazioni spese a sostegno della tesi per la quale l’opposizione sarebbe nei confronti dell’atto e non del pubblico ufficiale non venivano, perciò, ritenute valide, perché, ad avviso della Corte, da un lato, non tengono conto della descrizione dell’illecito come configurato dal testo della norma e, dall’altro, sul piano logico giuridico, anche quando fanno riferimento all’interesse protetto, non evocano argomenti idonei a superare la lettera della legge.
Allo stesso modo non veniva ritenuta dirimente, a favore della tesi non recepita in tale pronuncia, la considerazione secondo cui il delitto di resistenza assorbirebbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l’opposizione per essere la tutela fisica o morale dello stesso assicurata da altre disposizioni in cui l’offesa superi il tasso minimo tollerabile atteso che tale interpretazione finirebbe con lo svilire il raggio di copertura normativa sino a ritenere subvalente e collaterale l’offesa al pubblico ufficiale, ponendosi in contrasto con la lettera della legge, atteso che proprio la circostanza che l’elemento oggettivo del reato di resistenza sia integrato dalla violenza o dalla minaccia al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio in determinato momento, conferisce centralità alla persona del singolo soggetto pubblico chiamato a manifestare la volontà della pubblica amministrazione così come non veniva considerato significativo il raffronto tra l’art. 337 e l’art. 338 cod. pen. (v. fra le altre Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, omissis; Rv. 269005) che collega alla violenza o minaccia a un “corpo” politico, amministrativo o giudiziario un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello riservato ai responsabili della violazione degli artt. 336 e 337 cod. pen., con l’affermazione che per conseguenza sarebbe del tutto irragionevole applicare ex art. 81 cod. pen. una pena maggiore al soggetto che rivolgesse minacce nei confronti di più pubblici ufficiali per opporsi al compimento dell’atto dell’ufficio ex art. 337 cod. pen. rispetto a colui che agisce nei confronti di un organo collegiale della pubblica amministrazione trattandosi di fattispecie fra loro diversamente strutturate e la diversa sanzione (più grave nel caso di violazione dell’art. 338 cod. pen. rispetto a quella dell’art. 337 cod. pen.) risponde a criteri di ragionevolezza posto che nell’art. 338 cod. pen. è prevista la violenza o la minaccia verso l’unità indistinta dall’organo pubblico collettivo, oggetto di aggressione, piuttosto che la tutela dei singoli componenti (anche perché non venivano considerati idonei ad incidere ai fini della comparazione delle norme incriminatrici aspetti fattuali particolari delle fattispecie concrete, rilevanti ai fini della ricorrenza del concorso di reati o di circostanze aggravanti e ciò perché ritenuti, in quanto tali, idonei a determinare l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per un titolo piuttosto che per l’altro, perché, al fine di una ricostruzione della portata del precetto e della volontà del legislatore, è alle fattispecie astratte che occorre avere riguardo).
Tal che, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, si addiveniva a formulare il seguente principio di diritto: “In tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio”.
Conclusioni
La sentenza in argomento è sicuramente condivisibile in quanto in essa si analizza la fattispecie delittuosa preveduta dall’art. 337 c.p. in modo completo ed esauriente analizzandosi infatti sia l’elemento oggettivo, sia quello soggettivo, che contraddistingue questo reato, nonché il fine che questa disposizione legislativa intende perseguire.
Alla luce di una lettura congiunta di tutti questi aspetti, le Sezioni Unite sono addivenute a postulare che quando la condotta di cui all’art. 337 c.p. sia posta in essere per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, non è configurabile un reato unico, ma un concorso formale di reati con tutte le conseguenze, che un inquadramento giuridico del genere, comporteranno sul piano pratico.
Non resta dunque che prendere atto di questo arresto giurisprudenziale, e delle conseguenze che discenderanno da tale pronuncia.
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