La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 808/2017, ha statuito che il tentato omicidio della convivente more uxorio non integra la circostanza aggravante di cui all’art. 577, comma 2, c.p.
Orbene, la suddetta norma, nel prevedere le circostanze aggravanti del delitto di omicidio, dispone che: “La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, (…)”.
Si tratta della c.d. “aggravante del rapporto di coniugio”, la quale risulta essere una circostanza speciale, di natura soggettiva, che trova il suo fondamento nel vincolo coniugale.
Nella sentenza de qua, la Suprema Corte esamina il caso di un uomo che tenta di uccidere la propria convivente con un coltello da cucina.
L’imputato, sia in primo che in secondo grado di giudizio, viene condannato per i delitti di maltrattamenti in famiglia e di tentato omicidio, aggravato dalla circostanza ex art. 577, comma 2, c.p., alla pena di anni sei e mesi sei di reclusione.
Dunque, viene proposto ricorso per Cassazione e, tra i vari motivi, viene addotta l’erronea applicazione dell’aggravante del rapporto di coniugio.
In particolare, il ricorrente sostiene che non sussistano i presupposti di detta aggravante, richiedendo essa un rapporto di coniugio e non di mera convivenza.
Ebbene, il suddetto motivo di ricorso viene accolto dalla Corte di Cassazione per le seguenti motivazioni.
In primo luogo, procedendo ad un’interpretazione restrittiva dell’art. 577, comma 2, c.p., si può sostenere che l’aggravante de qua possa essere applicata soltanto se l’omicidio venga commesso contro il coniuge e non, invece, contro il convivente more uxorio; in sintesi, ai fini della sussistenza della predetta circostanza, è necessario che la persona offesa e l’autore del reato siano legati da un rapporto di coniugio.
Ex adverso, come precisato dalla stessa Corte, l’interpretazione in modo estensivo della disposizione in esame, frutto dell’evoluzione dell’interpretazione dottrinale e del costume sociale, costituisce una “non consentita applicazione analogica”, trattandosi di una norma di diritto penale sostanziale.
In secondo luogo, procedendo ad un’interpretazione teleologica della norma in esame, è possibile affermare che la ratio della norma stessa è quella di tutelare la stabilità e la riconoscibilità del vincolo coniugale.
Pertanto, proprio la tutela della stabilità del matrimonio induce ad escludere l’applicazione dell’aggravante del rapporto di coniugio, nel caso in cui l’omicidio venga commesso contro la convivente more uxorio.
A tal riguardo, infatti, la Suprema Corte richiama l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, secondo cui non è irragionevole il fatto che il Legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 Cost., e per la convivenza “more uxorio”, venendo in rilievo la protezione della istituzione familiare, basata sulla stabilità dei rapporti, (Corte Cost., S. n. 352/2000).
Per di più, la stessa Corte di Cassazione, in alcune precedenti sentenze, ha statuito che, ai fini dell’aggravante del rapporto di coniugio, è irrilevante l’intervenuta separazione legale tra i coniugi, non comportando quest’ultima lo scioglimento del matrimonio, (Cass. Sez. 1, n. 42462 del 19/12/2006; Cass., Sez. I, n. 7198 del 01/02/2011).
Pertanto, alla luce di quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, si può dedurre che tentare di uccidere la compagna non integra la circostanza aggravante del rapporto di coniugio, ex art. 577, comma 2, c.p.
Ad ogni modo, in tali casi, potrebbe trovare applicazione la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61, n. 11), c.p., che prevede un aumento di pena nel caso in cui il fatto venga commesso attraverso l’abuso di “relazioni domestiche”.
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