Terrorismo fondamentalista: un approccio socio-criminologico e giuridico-religioso

Una premessa metodologica: panico sociale e diversificazione dell’azione terroristica

Il terrorismo fondamentalista si è imposto tra le paure dell’opinione pubblica occidentale a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre del 2001. Sono trascorsi oltre quindici anni, quindici anni nei quali il paradigma dell’azione terroristica, pur profondamente mutato nei suoi artefici, nelle sue modalità operative e negli strumenti di repressione sul piano della legalità statuale e internazionale[1], è rimasto per molto tempo quello dell’attentato spettacolare, di impatto, compiuto col coinvolgimento di risorse strategiche copiose, amministrate e rette da un vertice geograficamente distante dal luogo dello scelus.

Nonostante attacchi di diverso segno si fossero già verificati a Londra e a Madrid, si può dire che l’Europa abbia finalmente dismesso una rappresentazione monodimensionale della minaccia terroristica soltanto misurandosi coi fatti luttuosi più recenti. In essi, a partire dall’attacco alla rivista satirica Charlie Hebdo[2], si è inevitabilmente imposto un modus agendi profondamente diverso anche dal punto di vista simbolico. Il pericolo non era più determinato da una grande organizzazione, che in qualche punto del suo disegno criminoso potesse lasciare tracce qualificate per l’operatore del diritto, bensì il timore diffuso si concretizzava ormai (e sempre più si concretizza) in fattispecie criminogene apparentemente disarticolate e disgiunte[3], compiute da cittadini dello Stato che viene attaccato, spesso con mezzi sostanzialmente banali quanto alla loro reperibilità pratica.

Questo quadro sembra destinato a influire profondamente sulla prossima generazione e sulla sua rappresentazione comune dell’idea di pubblica sicurezza. Si attaccano i luoghi della rappresentanza politica, ma vengono prese d’assalto ancora una volta le stazioni o i posti di transito destinati al grande afflusso pubblico. Possono essere oggetto di aggressione riviste, enti o personalità discutibilmente associate a un sentire marcatamente laicista e anti-religioso, ivi compresi, però, associazioni o eventi che appartengono alla cultura popolare ben oltre le diverse ascendenze religiose (come, appunto, i concerti musicali o le manifestazioni sportive). Assalti occasionali, spesso completamente slegati dalle vecchie reti terroristiche originatesi da al-Qaida[4] e persino dalle nuove “milizie” clandestine che si rifanno all’Islamic State, sono stati compiuti in attività commerciali ebraiche, in mercati folkloristici, (più spesso in Medio Oriente) nei pressi di edifici di culto.

Il risultato “politico” di questa disorganica capillarità è certamente quello di avere moltiplicato la domanda di sicurezza in direzioni che il potere legislativo ha pur intuito, ma perseguito a risultati alterni. Nei diversi Stati europei sono aumentate le disposizioni di diritto speciale contro il terrorismo (l’Italia è uno dei Paesi dove la produzione normativa è stata più intensa e, però, meno sistematica[5]) e i settori di intervento individuati sono stati sufficientemente numerosi da corrispondere realmente alla natura indistinta e spesso imprevedibile della minaccia terroristica. Ci si è posti, ad esempio, il problema di reprimere la propaganda attraverso i mezzi di comunicazione digitale[6], nonostante questi ultimi siano largamente utilizzati da tutti i cittadini, perciò sensibili a troppo stringenti limitazioni (invero, non sempre opportune all’atto pratico). Si è cercato, inoltre, di dipanare il bandolo del finanziamento estero alle azioni terroristiche[7]. In via amministrativa, si producono misure tampone in occasione di eventi particolari che parcellizzano l’azione repressiva e quella preventiva nel tentativo di “marcare” più incisivamente le organizzazioni fondamentaliste. I risultati, tuttavia, sono ancora modesti sul piano giudiziario, oltre che quasi ininfluenti nell’ottica dell’opinione pubblica.

 

Linee di intervento sul piano giuridico, tra cooperazione internazionale e prevenzione interna

Alla luce di quanto sinora osservato si potrebbe ritenere che il terrorismo abbia assunto le forme di una minaccia globale, proprio perché è sempre più percepito come un mostro a più teste: reciderne una non indebolisce automaticamente le altre. Per gli analisti degli studi diplomatici, in ciò secondati dai più attenti comparatisti nelle scienze giuridiche, il dato è ben visibile. I confini territoriali dell’Islamic State si sono assottigliati, non solo a mezzo dell’azione internazionale, ma anche e soprattutto a causa di una combattiva insorgenza territoriale interna che, in special modo sul fronte kurdistano[8], ha ricevuto un’ampia legittimazione sociale, sui cui limiti e contenuti non è questa la sede per pronunciarsi. L’ISIS non si aspettava, in altre parole, di vedere il proprio raggio d’azione in Oriente così significativamente indebolito nel volgere di pochi anni. Oggi appare un centro delocalizzato. Arroccato nel proprio territorio di riferimento, cerca di sfruttare proiezioni in Stati esteri vicini e lontani. Ha cercato di penetrare nelle cd. primavere arabe, avendo compreso, ben prima delle potenze occidentali, che quei rivolgimenti popolari solo in minima parte andavano in direzione di una laicizzazione sul modello occidentale[9].

Il reclutamento in Siria, in Egitto, in Libia e in Libano non ha le dimensioni di massa che la propaganda anti-occidentale e quella anti-islamica vorrebbero attribuirgli, ma è un fenomeno sociale da non sottovalutare.

Definitivamente agli atti sembra, invece, il patto d’azione con le milizie fondamentaliste nigeriane di Boko Haram[10]. Questo aspetto dovrebbe suscitare delle perplessità strategiche, anche nei circoli armati del fondamentalismo islamico, poiché quel patto d’azione, a prescindere se realmente esistente, e in che termini o con quali modalità, metterebbe insieme due realtà che condividono solo la parte più truce e visibile: gli attentati di massa, lo stupro di guerra, i sequestri, le torture … Profondamente diversa è, invece, la strategia per introiettare la motivazione religiosa nelle proprie attività di propaganda. In Siria e in Iraq, un modello di presunta e radicale ortodossia, basata su un codice comportamentale improprio, ma fissamente reiterato, ha dimostrato di potere funzionare. In Niger e in Nigeria questo tipo di proselitismo finisce per intersecarsi con una rete di usi locali, retaggi tribalistici o consuetudinari, che non hanno una precisa rispondenza nell’ortoprassi fondamentalista[11]. Delle divergenze teologiche, ideali, teoriche, ideologiche, evidentemente, poco importa ai nuovi signori del terrore, che, invece, è ampiamente dimostrato, si uniscono nel traffico d’armi o nella realizzazione di saccheggi o attività di sabotaggio.

Per quanto sia ingenuo ritenere che i governi nazionali dei Paesi interessati a vere e proprie forme di guerra civile (come lo Yemen[12]), o coinvolti in conflittualità interne endemiche e striscianti (come la Siria[13]), possano ex se divenire attendibili interlocutori nella lotta contro il terrorismo, prescindere da un’analisi su quelle istituzioni nazionali sembra impossibile. Quando gli Stati occidentali e le loro organizzazioni internazionali di afferenza lo hanno fatto, i risultati sono stati disastrosi.

Da parte occidentale, per altro verso, è ancora carente la riflessione sulla prevenzione interna del terrorismo. Si preferisce la predisposizione di strumenti normativi e di polizia ad hoc, certamente spendibili sul piano operativo, ma poco incisivi nello sradicamento a lungo termine del fenomeno. Più che interrompere il flusso di foreign fighters nei Paesi occidentali, nei quali specifiche norme incriminatrici oggi tentano di contrastare l’avvicinamento di “combattenti” esteri, la sfida più importante sembra essere quella di prevenire i cd. fenomeni di radicalizzazione, a seguito dei quali soggetti musulmani anche tendenzialmente eterodossi finiscono poi per accettare la causa jihadista in modo acritico, incondizionato e particolarmente pericoloso.

È forse illusorio credere che un obiettivo del genere possa essere perseguito curando una formazione statale delle guide religiose islamiche[14] (gli imam), anche perché ciò non varrebbe a escludere la progressiva sedimentazione di un circuito alternativo, clandestino o illegale. Formare gli imam ai valori della cittadinanza democratica è operazione invero problematica anche perché, più che l’accettazione di un modello giuridico astratto, in gioco è la fattuale compartecipazione della comunità dei fedeli tutti a estromettere da ogni possibile legittimazione religiosa l’incitamento alla violenza o la commissione di azioni delittuose. Si tratta, perciò, di un punto di partenza anche apprezzabile, ma forse inidoneo a garantire il progressivo depotenziamento di una propaganda (politica più che religiosa) di segno chiaramente ostile alla convivenza pacifica. Gli ambiti nei quali l’azione di prevenzione deve essere meglio direzionata sembrano, in realtà, quelli della realtà carceraria[15] e della marginalità sociale, molto meno leggibili sul piano scientifico e molto più “scivolosi” sul piano civile, rispetto alle diverse scuole giuridiche di formazione degli imam.  I pericoli di una sottovalutazione sistematica di questo duplice fronte critico sono sublimati nel terrorismo francese. Lì hanno combattuto miliziani con pregressi precedenti penali di criminalità comune e giovani cittadini dello Stato, ormai privi di riferimenti diretti nelle loro comunità tradizionali, ma non ancora partecipi della vita pubblica e delle prestazioni sociali statali.

 

Conclusioni provvisorie: l’apporto delle scienze umane e sociali, con particolare riferimento alla sociologia e alla psicologia

Proprio l’ultimo aspetto osservato è espressivo dell’urgenza di un approccio interdisciplinare al contrasto del terrorismo e alle sue capacità di proselitismo. Nella storia politologica e criminologica del terrorismo non è infrequente riscontrare come la diffusione di un’ondata di violenza spesso prosegua ben oltre il progressivo smantellamento delle sue organizzazioni egemoni. I cd. cani sciolti possono presentare, tanto sotto il profilo criminogeno quanto in prospettiva comparatistica, una perlomeno triplice condizione di partenza: a) può trattarsi di attentatori isolati e occasionali, privi di qualunque rete associativa a supporto che, nella scentrata adesione a un programma terroristico tutto personale, manifestano il proprio disagio[16]; b) può trattarsi di cellule sostanzialmente spontaneistiche, che concludono il proprio programma terroristico nelle attività di gruppo, in null’altro proiettando la propria capacità di intervento (non svolgono proselitismo, non programmano attentati plurimi, non hanno rapporti con altre organizzazioni, da cui spesso non sono riconosciute, e tali rapporti non ambiscono ad avere nel futuro); c) può trattarsi di gruppi formatisi anche in modo prettamente spontaneistico, ma dediti alla ricerca di una connessione di più largo raggio con realtà omologhe cui associarsi o con realtà logisticamente superiori cui finiscono, a medio termine, per inerire[17].

L’approccio rigorosamente multidisciplinare che si cerca di costruire in concreto, in presenza di un adeguato sostrato tecnico e metodologico, coinvolgendo saperi criminologici, istituzioni giuridiche e contributi delle scienze umane e sociali, dovrebbe articolarsi almeno secondo i seguenti temi di intervento:  1) distinguere il modus operandi nella singola azione delittuosa riconducibile al terrorismo internazionale[18], associandola a un probabile profilo di aggressore (del bene giuridico tutelato); 2) evidenziare la componente extra-religiosa delle azioni di propaganda, in modo da stimolare una riflessione sul contributo di pacificazione del dialogo interreligioso e interculturale rispetto al preteso rinnovarsi di uno scontro tra civiltà[19]; 3) ricalibrare l’analisi della motivazione religiosa fondamentalista nell’azione terroristica, in modo da evidenziarne la strumentalizzazione e, se del caso, la comunque persistente capacità di mobilitazione[20]; 4) potenziare gli istituti di produzione normativa nel contrasto del terrorismo internazionale, inserendoli però nel quadro di una cooperazione inter-statale, volta in primo luogo a evitare l’insorgenza di compressioni atecniche e scarsamente produttive dei diritti di libertà; 5) confrontare il percorso di formazione di soggetti a “radicalizzazione intervenuta” con le condizioni di vita di soggetti di nuovo reclutamento, allo scopo di favorire una rilettura anche sociologica e psicologica del jihadismo in Occidente[21], purché produttiva di vere ricadute operative.

Questo programma non appare artificiosamente vasto, né compiaciuto nella sua stringatezza, pur limitata in prima battuta a questioni concernenti la scientificità dell’analisi. Anzi, a partire dalla cura di studio che tale programma impone, potrebbe scaturire una riflessione collettiva certamente non disutile ai fini della pubblica incolumità.

 

(*) docente di “Diritto & Religioni” e “Enti ecclesiastici, enti non profit e attività culturali” presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro

[1] Alcuni esempi di questa problematica transizione: M. N. Campagnoli, I nuovi volti del terrore. Dal terrorismo islamico al cyber terrorismo. Fenomenologia di una perturbante forma di violenza, Key, Vicalvi, 2017, pp. 37 e ss.; L. Marini, Pirateria marittima e diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2016, pp. 117 e ss.

[2] O. V. Rosas, The Emotional Framing of Terrorism in Online Media: The Case of Charlie Hebdo, in C. Wassmann, ed., Therapy and Emotions in Films and Television. The Pulse of Our Times, Palgrave-Macmillan, Basingstoke-New York, 2015, pp. 140 e ss.; A. Rudi, Charlie Hebdo. The West and the Sacred, in A. Zagato, ed., The Event of Charlie Hebdo: Imaginaries of Freedom and Control, Berghahn, New York-Oxford, 2015, p. 28.

[3] Rischio già segnalato in R. Bettini, Allah tra terrorismo e diritti umani, Franco Angeli, Milano, 2006, pp. 105-106.

[4] Questo trend non riguarda soltanto il reclutamento di miliziani in Occidente. Cfr. R. Callimachi, Does Al-Qaeda have Feared Weapon?, in Associated Press, June 11 2013; T. O. Howard, The Tragedy of Failure. Evaluating State Failure and its Impact on the Spread of Refugees, Terrorism and War, ABC, Santa Barbara, 2010, pp. 82-83.

[5] S. Colaiocco, Le nuove norme antiterrorismo e le libertà della persona: quale equilibrio?, in Archivio Penale, 2, 2015, pp. 1-7; G. Leo, Nuove norme in materia di terrorismo, in http://www.penalecontemporaneo.it.

[6] Su questi profili, D. Bilotti, Disposizioni antiterrorismo. Croce e delizia dell’incolumità pubblica (fisica e virtuale), in Diritto & Diritti (https://www.diritto.it), 23 Marzo 2016.

[7] La dottrina più attenta, però, è da tempo scettica sulla ultimatività di interventi similari, allorché se ne osservino le contraddizioni, i limiti e gli opposti interessi che ne favoriscono l’inefficacia o ne rallentano l’operatività. V., per tutti, G. Corm, L’egemonia americana nel vicino Oriente, Jaca Book, Milano, 2004, p. 201.

[8] U. Cizre, ed., The Turkish AK Party and its Leader, Routledge, London-New York, 2017; A. Schuchter, ISIS. Containment & Defeat, Universe, Bloomington, 2015.

[9] L. Attanasio, Per le donne la primavera araba è appena cominciata, in Limes – Rivista Italiana di Geopolitica, 17 Ottobre 2012; G. Battiston, Primavere arabe, i giovani pronti a una nuova ribellione, in Pagina 99, 12 Gennaio 2017; T. L. Bedini, L’inverno delle primavere arabe, ovvero una perdita della laicità che preoccupa, in www.totalita.it.

[10] Il dato è recepito in modo discontinuo dagli osservatori internazionali. Cfr. H. Cooper, Boko Haram and ISIS Are Collaborating More, U. S. Military Says, in The New York Times, April 20 2016; R. Maclean, Isis Tries to Impose New Leader on Boko Haram in Nigeria, in the Guardian, 5 August 2016.

[11] Un processo simile ha interessato anche il proselitismo cristiano, come ben ricostruisce in termini giuridico-confessionali e gius-internazionalistici  C. N. Nathan, The Changing Face of Religion and Human Rights, Martinus Nijhoff, Leiden-Boston, 2009, pp. 133 e ss.

[12] Sull’attuale conformazione degli schieramenti belligeranti G. Porzio, Nello Yemen distrutto dalla guerra civile, in la Repubblica, 24 Marzo 2017; L. Tortello, Yemen, i tentacoli di Al Qaeda nello scontro tra Iran e Arabia Saudita, in la Stampa, 1 Aprile 2017.

[13] Non rassicura il modo, troppo spesso superficiale, col quale molti grandi partners dello Stato siriano incoraggiano a fasi alterne dei processi di costituzionalizzazione o di revisione costituzionale al fine di secondare una pacificazione comunque tardiva. Cfr., per restare a problematiche recenti, G. Stabile, Siria, la nuova costituzione sarà meno “araba e islamica”, in la Stampa, 25 Gennaio 2017.

[14] Anche perché l’operato di queste guide religiose difficilmente è riconducibile a sistema e risente di condizionamenti e consuetudini locali, spesso giustificate anche sul piano teologico. V., per tutti, la lunga, ancorché molto accessibile nel linguaggio, ricostruzione storico-critica di R. Bhala, Understanding Islamic Law, LexisNexis, New York, 2011.

[15] La radicalizzazione penitenziaria si unisce, nell’ordinamento italiano, ai profili problematici dell’esecuzione della pena. Uno sguardo al fenomeno in P. Gonnella, Mettere al centro i diritti per combattere la radicalizzazione in carcere, in Open Migration, 25 Gennaio 2017.

[16] D. L. Altheide, Terrorism and the Politics of Fear, Altamira, Lanham-New York-Toronto-Oxford, 2006, pp. 207 e ss.; M. Creenshaw, Have Motivations for Terrorism Changed?, in J. Victoroff, ed., Tangled Roots: Social and Psychological Factors in the Genesis of Terrorism, IOS, Amsterdam-Berlin-Oxford-Tokyo-Washington, 2006, p. 55.

[17] Questo fenomeno è noto agli analisti più attenti, che ne trattano gli aspetti criminologici, comunicativi e giuridico-forensi più rilevanti. Cfr. J. Matusitz, Terrorism & Communication. A Critical Introduction, Sage, Los Angeles-London-New Delhi-Singapore-Washington, 2013, pp. 244 e ss.; M. Sageman, Understanding Terror Networks, Penn, Philadelphia, 2004, pp. 152 e ss.

[18] Una metodologia del genere è, ad esempio, suggerita in A. Syder, Terrorism. Criminological and Psychological Theories, Grin, Verlag, 2017.

[19] Spunti teorici, in una prospettiva di studi prevalentemente dedicata al caso nigeriano, in E. E. Ezegbobelu, Challenges of Interreligious Dialogue. Between the Christian and the Muslim Communities in Nigeria, Peter Lang, Frankfurt, 2009,  pp. 217 e ss.

[20] Si veda J. Jones, Blood that Cries Out from the Earth. The Psychology of Religious Terrorism, Oxford University Press, Oxford-New York, 2008; ancor prima A. M. al-Khattar, Religion and Terrorism. An Interfaith perspective, Praeger, Westport-London, 2003.

[21] Preme sin d’ora segnalare l’utilità del contributo editoriale offerto da analisi e inchieste che, su larga scala, indagano ragioni psicologiche affini nell’area afro-mediterranea. V., per tutti, A. Migotti, S. Miretti, “Non aspettarmi vivo”. La banalità dell’orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti, Einaudi, Torino, 2017.

 

 

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