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I controversi rapporti tra fatto tipico e circostanze del reato in breve
L’individuazione degli elementi costitutivi del reato, ovvero la chiara definizione del concetto di tipicità ha da sempre esercitato un certo fascino tanto in dottrina quanto in giurisprudenza tanto da aver dato luogo, nel corso degli anni, ad accesi dibattiti.
Non a caso, al fine di fornire una risposta univoca all’implicito quesito volto a scandagliare il contenuto del fatto tipico, la dottrina ha elaborato nel corso del tempo una serie di teorie prima inerenti la qualificazione del concetto di reato e, poi, il concetto di azione.
Si è partiti dalla teoria bipartita secondo la quale la nozione di reato comprende il fatto in sé considerato e la colpevolezza per giungere all’eccesso della teoria della quadripartizione, secondo la quale la fattispecie incriminatrice consiste in un fatto antigiuridico, colpevole ed anche punibile.
In una posizione intermedia si è collocata la teoria tripartita prevalente, secondo la quale il reato è composto dall’azione, dalla antigiuridicità della stessa e dal coefficiente di colpevolezza, riconducibile, ai sensi dell’art. 42 comma secondo, normalmente al dolo, che deve sorreggere ogni elemento della fattispecie.
E’ evidente, dunque, come la dottrina abbia di fatto inteso attribuire un ruolo di fondamentale rilievo al fatto e, dunque, alla azione tipica, presente in ciascuna delle teorie del reato.
Pur tuttavia, anche la definizione di cosa sia l’azione tipica è stata particolarmente controversa.
Basti pensare che, anche in relazione ad esse si sono elaborate tre teorie.
Secondo la teoria causale, l’azione tipica altro non sarebbe se non una modificazione della realtà esterna.
Per quanto chiara, tuttavia, la predetta definizione non consentiva di delineare i confini della omissione penalmente rilevante che, secondo la concessione normativa, è proprio una non – azione.
Per ovviare a tale inconveniente, la dottrina elaborò una seconda teoria, la teoria finalistica o dello scopo, secondo la quale l’azione consisterebbe nello scopo ultimo perseguito dal soggetto agente.
La definizione, tuttavia, non convinse dal momento che non riusciva a ricomprendere in sé i reati commessi con dolo d’impeto, in cui l’arco di tempo tra previsione e volizione è talmente breve da far si che l’azione si esaurisca in una condotta priva di scopo reale.
Sulla base delle predette critiche si propose la teoria sociale, secondo la quale l’azione è una risposta agli stimoli del mondo esterno.
Anche tale ultima teoria, tuttavia, non acquisì alcun rilievo pratico effettivo, dal momento che si presentava eccessivamente generica e priva di vero riscontro pratico nella realtà empirica.
A sopperire alle difficoltà di definizione chiara ed unitaria del concetto di azione sembra, tuttavia, intervenire spesso il legislatore nel momento in cui conia le fattispecie incriminatrici mediante l’uso di elementi descrittivi, ovvero mediante l’uso di terminologie facilmente percepibili che trovano riscontro costante nella realtà materiale e che consentono di percepire quale sia di fatto la condotta tipica. Cosa resa particolarmente difficile laddove si usino elementi normativi, ovvero termini di stampo giuridico.
Le difficoltà ricostruttive e definitorie si accentuano nel momento in cui occorre capire se un determinato elemento sia costitutivo e, dunque, integrativo della condotta tipica ovvero ruoti intorno ad essa senza, tuttavia, integrarla, rappresentando pertanto mera circostanza del reato.
Le circostanze, infatti, non costituiscono segmento della fattispecie, ovvero “azione tipica” ,bensì, accedono ad un reato già perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, in via principale benché non esclusiva, aumentandone la pena edittale (circostanze aggravanti) o riducendola (circostanze attenuanti).
L’esigenza di certezza raggiunge il suo apice nell’ambito dei cd. reati eventualmente complessi, ovvero nei reati in cui, oltre a costituire ciascun segmento di azione, di per sé considerato, un autonomo reato, presentano anche segmenti che, nel complessivo reato, pur costituendo anch’essi autonoma fattispecie, si atteggiano in questo caso alla stregua di circostanze aggravanti.
Le ricadute pratiche della qualificazione di un determinato elemento (o segmento, nel caso del reato complesso) come condotta tipica o come semplice aggravante/attenuante sono di non poco momento e difficilmente potrebbero essere elencate in un brevissimo scritto.
Pertanto si vuole, in questa sede, porre l’accento solo sulle questioni di più immediata comprensione.
Si pensi, al riguardo, al coefficiente soggettivo. Gli elementi costitutivi del reato devono essere tutti sorretti dal coefficiente soggettivo richiesto dalla norma, fatte salve le ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva, in cui, per ricondurre le fattispecie nell’alveo del principio di colpevolezza, si ritiene sufficiente per alcuni segmenti solamente il coefficiente minimo della colpa.
Gli elementi circostanziali per contro, ai sensi, dell’art. 59 cp, quando comprendono una attenuazione di pena, sono attribuiti al soggetto agente anche se da lui non conosciuti o ritenuti inesistenti, residuando una addebitabilità soggettiva solamente delle aggravanti (art. 59 comma secondo).
Ancora le differenze si riscontrano anche nel momento in cui si intende affrontare la più ampia questione del concorso di persone.
Il fatto tipico può essere commesso congiuntamente da due o più persone e, mediante la portata espansiva del 110 cp, anche mediante più condotte atipiche.
Se, tuttavia, il reato è commesso anche con il concorso di aggravanti o attenuanti, queste ultime si comunicano (e quindi accedono alla condotta tipica o atipica che sia) posta in essere da ciascuno dei correi, qualora, ai sensi dell’art. 70 cp, possano essere qualificate come oggettive. Accedono (e quindi comunque si differenziano da) alla condotta tipica dei singoli correi quelle soggettive.
Si pensi, ancora, al rilievo peculiare dell’art. 59 comma quarto, riguardante le circostanze putative, ovvero le circostanze che per errore l’agente considera esistenti.
La norma dispone che le stesse si valutano comunque a favore dell’agente. E’ chiaro, tuttavia, che se per errore l’agente ritenesse di aver posto in essere un segmento di condotta tipica, una “azione tipica”, nessun procedimento penale potrebbe mai essere aperto nei suoi confronti dal momento che il nostro ordinamento giuridico non ammette il reato putativo in ragione della vigenza dei principi di legalità, tassatività ed offensività.
Si pensi, ancora, nell’ambito dei controversi rapporti tra art. 59 e art. 60 cp, al caso in cui il soggetto agente, a titolo esemplificativo, abbia erroneamente pensato di aver cagionato la morte di una determinata persona.
In tali contesti la tipicità ed il dolo non sono esclusi nell’ipotesi in cui, ex post, si accorga di aver cagionato la morte di persona diversa, ma, quanto alle circostanze, le aggravanti che riguardano la persona offesa non potranno accedere al fatto tipico.
Tutte le considerazioni precedentemente svolte possono dirsi funzionali ad evidenziare anche per quale ragione la dottrina e la giurisprudenza abbiano apprestato particolare attenzione alla individuazione dei criteri discretivi nei casi di dubbia qualificazione giuridica di una norma come autonoma fattispecie o fattispecie circostanziale o, nel reato complesso “aggravato”, di un segmento come “azione” o come “aggravante”.
Si pensi, al riguardo, alla teoria della accessorietà, secondo la quale la circostanza accede alla condotta principale, e, pertanto, si individua in ragione della sua funzione ancillare.
Si pensi al raffronto tra beni giuridici tutelati al fine di valutare se la circostanza mantenga in tale ottica una sua autonomia oppure no.
Si pensi, ancora, al raffronto tra fattispecie astratte al fine di valutare se la norma si limiti ad operare un rinvio alla norma principale, la sola a contenere la azione tipica.
La giurisprudenza sembra aver fatto, in particolare, larghissimo uso dei suddetti criteri.
Più precisamente, la Suprema Corte ha spesso evidenziato come non sia sufficiente esaminare il nomen iuris (in altri termini, la rubrica della norma), né la sua collocazione sistematica, bensì occorre più che altro valutare se la norma rappresenti una semplice modalità descrittiva di quella contenente il fatto tipico.
Sulla base di tale ultima tecnica si è ritenuto che l’art. 640 bis altro non sia che una circostanza aggravante del delitto di truffa.
Viceversa, i criteri sin qui descritti hanno acceso un profondo dibattito in ordine alla qualificazione come circostanza aggravante o autonomo reato (e quindi come azione penalmente rilevante) il comma sesto dell’art. 74 del Dpr 309/1990, il quale recita che “se l’associazione è costituita per commettere i fatti descritti dal comma quinto dell’art. 73, si applicano il primo ed il secondo comma dell’art. 416 cp.”.
Secondo un primo orientamento, il rinvio alla norma della associazione di stampo mafioso sarebbe già di per se solo sufficiente a qualificare il comma come circostanza.
Ciò in quanto la norma opera un rinvio ad una fattispecie autonoma, pertanto non conterrebbe essa stessa una azione tipica.
Secondo altro e diverso orientamento, oggi avallato anche dalle SSUU, la norma opererebbe un rinvio meramente quantitativo e non qualitativo all’art. 416 cp, pertanto sarebbe opportuno qualificarlo alla stregua di una autonoma fattispecie di reato.
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La qualificazione giuridica rileva anche ai fini dell’applicazione dell’art. 56 cp
La qualificazione come autonomo reato dell’art. 74 comma sesto poc’anzi richiamato ma, più in generale, di qualunque fattispecie, automaticamente pone il problema della qualificazione giuridica del delitto come consumato o tentato.
Questione che, per contro, non si pone nel momento in cui l’opera di qualificazione abbia prodotto come esito l’esistenza di un elemento circostanziale.
Solo in relazione alle condotte tipiche, infatti, occorre, nell’ottica dell’arretramento della soglia di punibilità operata dal legislatore ai sensi dell’art. 56 cp, valutare se, effettivamente, quella condotta abbia integrato gli estremi del “cominciamento della azione esecutiva”.
Ovvero abbia assunto una consistenza illecita tale da poterla considerare, secondo la prognosi postuma o ex ante in concreto, potenzialmente offensiva del bene giuridico tutelato o, quantomeno, idonea ad esporre a pericolo il predetto bene.
A tale elemento della idoneità deve poi affiancarsi quello della univocità della direzione dell’atto al compimento del proposito criminoso.
L’univocità, secondo una componente oggettiva, si concretizza nella manifestazione della pericolosità criminosa.
Secondo la concezione soggettiva, costituisce elemento probatorio della condotta criminosa.
Appurato, sulla base di tutto quanto sin qui esposto, che il reato è autonomo (e quindi identificato in una fattispecie autonoma unitaria, sia essa identificabile in un unico reato frutto della unione di più reati) e che lo stesso è rimasto allo stadio del tentativo, resta da domandarsi, al fine di evidenziare ancora una volta la rilevanza della distinzione tra fatto tipico e circostanza, se, invero, sia ammissibile che una circostanza, sia essa aggravante o attenuante, si accompagni ad un delitto tentato.
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Le Sez. Unite n. 28243 del 28.06.2013: una possibile lettura
Al fine di fornire una risposta al quesito con il quale si è inteso chiudere il precedente paragrafo, occorre preliminarmente chiedersi se siano ammissibili tentativi circostanziati di delitto, in cui la circostanza accede ad una condotta solamente “cominciata” ma non compiuta.
E se, ancora, siano ammissibili tentativi di delitto che, se giunti a consumazione, sarebbero stati circostanziati e se, infine, siano fattibili delitti circostanziati tentati circostanziati, in cui alcune circostanze hanno avuto verificazione ed altre no.
Al fine di esplicare il primo quesito, occorre muovere dalla considerazione secondo la quale le differenze strutturali evidenziate tra condotta tipica ed elemento circostanziale non rendono problematico un aumento di pena o una diminuzione laddove la circostanza, di per sé, non abbia quale presupposto un delitto consumato.
Ciò in quanto, a ben vedere, il giudizio di prognosi postuma o ex ante in concreto, si effettua secondo l’orientamento prevalente su base parziale, ovvero tenendo conto delle circostanze conosciute o conoscibili dall’agente al momento dell’inizio di condotta tipica.
Pertanto, niente esclude che l’agente potesse conoscere ex ante l’esistenza di una aggravante che, per ciò solo, gli sarà imputabile al momento dell’inizio di esecuzione, così come nulla esclude che l’agente potesse star “cominciando” l’azione per motivi di particolare valore morale o sociale che, pertanto, rendono ancora più tenue il cominciamento di fase esecutiva, mediante applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 comma primo.
La soluzione non si presta ad essere diversa nel caso in cui si dovesse voler prendere in considerazione una valutazione di idoneità della condotta ex ante su base totale ovvero considerando tutte le circostanze presenti al momento del compimento dell’atto anche quando le stesse si manifestano come non conosciute o conoscibili dall’agente.
Tali criterio, oltre a meglio rispondere al principio di offensività rispetto al criterio su base parziale che rischia di qualificare offensivo ex ante ciò che potrebbe essere inoffensivo ex post, consente di confermare la piena applicabilità delle attenuanti, le quali, come precisato consentono di ridurre la pena anche a prescindere dalla loro conoscibilità e si estendono ai correi che possono aver concorso nel tentativo di delitto.
Più problematica appare, invero, la seconda ipotesi ovvero il caso in cui la circostanza che dovrebbe accedere al tentativo faccia in realtà riferimento ad un delitto consumato.
Sul punto autorevole dottrina (ad esempio, Fiandaca) ha sempre considerato non compatibile la circostanza con il segmento di azione posta in essere.
Ciò in quanto il principio di legalità impone di non andare oltre la norma e, dunque, di non estendere (spesso in malam partem, laddove si tratti di aggravanti) l’elemento circostanziale richiedente la consumazione al delitto meramente tentato.
Ancora, secondo questa ricostruzione apparirebbe arduo rendere compatibile una circostanza che richiede e postula un grado di offensività maggiore con una condotta che, già di per sé solo, si configura come dotata di minimo disvalore, in quanto capace di provocare solamente una esposizione a pericolo del bene protetto, benché potenzialmente anche offensiva dello stesso.
La pacificità di tali considerazioni è stata, tuttavia, recentemente messa in discussione a livello giurisprudenziale.
Secondo alcune recenti pronunce, le circostanze che richiedono il raggiungimento dello stadio della consumazione, di fatto non impediscono, secondo il criterio della prognosi postuma di verificare ex ante che quel segmento di azione, se fosse giunto a consumazione, avrebbe di fatto integrato gli estremi applicativi della circostanza stessa.
Si pensi, al riguardo, alla circostanza attenuante della particolare tenuità del danno patrimoniale.
Secondo l’orientamento prevalente tale circostanza non richiede una valutazione soggettiva delle condizioni della vittima, bensì si basa su un dato oggettivo.
Pertanto, nel momento in cui si riesce a valutare ex ante che – a questo punto si può usare il caso delle Sezioni Unite – il furto avrebbe riguardato solo una minima parte della patrimonio del soggetto, l’organo giudicante, una volta appurato che l’azione avrebbe potuto essere concretamente offensiva e che, pertanto , non si verte in ipotesi di tipicità apparente, potrà applicare l’attenuante in parola, tanto che si aderisca alla valutazione su base parziale, quanto e soprattutto che si aderisca alla base totale.
Pertanto, una volta individuata la pena edittale per il reato semplice, quantificato la stessa in concreto ed applicata la diminuzione del tentativo, nulla vieta di applicare lo scomputo connesso all’attenuante.
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Conclusione: alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali, anche il delitto circostanziato tentato circostanziato può dirsi ammissibile
La predetta soluzione, consente conseguentemente e conclusivamente, di sciogliere i nodi inerenti la configurabilità del delitto circostanziato tentato circostanziato.
Se, infatti, sia la prima che la seconda forma di commistione tra segmento di azione e circostanza possa dirsi oggi ammesse, appare arduo ritenere esistenti ragioni ostative alla compatibilità con il tentativo di casi in cui alcune circostanze sono state integrate ed altre, invece, richiedono la medesima verifica svolta per la configurabilità del furto tentato con danno di particolare tenuità.
Conseguentemente saranno valutate ai fini della quantificazione finale della pena le circostanze pienamente integrate e quelle che, secondo un giudizio ex ante, sarebbero state integrate se il delitto fosse giunto a consumazione.
Resteranno non applicabili le circostanze non integrate e non verificabili neppure con il giudizio di prognosi postuma.
Volume consigliato
Bibliografia principale
Fiandaca M., Diritto penale parte generale, VII ed., 2014;
Marinucci G., Dolcini E., manuale di diritto penale parte generale, V ed., 2015;
Garofoli R., Manuale di diritto penale parte generale, XV ed., 2018/2019;
Sentenza n.28243 del 28-06-2013 Sezioni Unite.
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