Translatio Iudicii e campo di applicazione dopo la L. 162/2014

ARTICOLO ESTRATTO DAL VOLUME GUIDA PRATICA ALLE ULTIME NOVITA’ DEL PROCESSO CIVILE

MAGGIOLI EDITORE

1. Art. 1 della l. 162/2014: translatio iudicii e campo di applicazione
Il capo I della l. 10 novembre 2014, n. 162, che ha convertito, con modifiche, il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, consta del solo articolo 1, il quale prevede il possibile trasferimento – su base volontaria – dalla sede giudiziaria a quella arbitrale di alcune tipologie di cause civili in corso, c.d. translatio iudicii.
In particolare, il comma 1 stabilisce che nelle cause civili dinanzi al Tribunale o in grado d’appello, pendenti alla data di entrata in vigore del d.l. 132/2014 (13 settembre 2014), le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro
IV del codice di procedura civile (riferite all’arbitrato).
Il trasferimento è, tuttavia, soggetto ad un limite temporale e a uno di materia essendo escluso:
per le cause già assunte in decisione;
per le cause che hanno ad oggetto diritti indisponibili (Il riferimento ai diritti indisponibili dovrebbe indicare quei diritti che soddisfano interessi personali e non negoziabili. Si tratterebbe, ad esempio, dei diritti attinenti alla libertà personale, alla manifestazione del pensiero, allo status familiae (padre, figlio, coniuge); dei diritti della personalità, come il diritto al nome; dei diritti patrimoniali che scaturiscono da rapporti familiari, come il diritto agli alimenti; del diritto alle ferie nel corso del rapporto di lavoro.);
per le cause in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale.
La ratio di tale norma è quella di transitare le cause in corso dalla sede giurisdizionale a quella arbitrale; infatti, ciò si pone sostanzialmente in linea con la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra arbitrato e processo ordinario. Sul punto, è interessante citare:
a) la sentenza n. 376 del 2001 (Corte Cost., 28 novembre 2001, n. 376, in Giur. Cost., 2001, n. 6, p. 245.), in cui la Corte Costituzionale ha riconosciuto che “l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli Organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie” ed ha affermato, altresì, che il giudizio degli arbitri “è potenzialmente fungibile con quello degli Organi della giurisdizione”;
b) la sentenza n. 223 del 2013 (Corte Cost., 19 luglio 2013, n. 223, in www.giurcost.it.), in cui la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo del c.p.c. Secondo il giudice delle leggi, infatti, “nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione (ove assunta nel
rispetto delle norme del codice di procedura civile) ha l’efficacia propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente
competente, una decisione sul merito della lite. Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse.
Una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro. Ed invece la norma censurata, non consentendo l’applicabilità  dell’art. 50 c.p.c., impedisce che la causa possa proseguire davanti
all’arbitro o al giudice competenti e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda”.
Va precisato che il contenuto dell’art. 1 del d.l. 132/2014, da un lato, risultava simile a quello sull’arbitrato dell’art. 806, comma 1, c.p.c., secondo cui “ le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge”; dall’altro, invece, si dimenticava del comma 2 dell’art. 806 c.p.c., il quale sancisce che “le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi
di lavoro”. Tale dimenticanza è stata colmata, in sede di conversione del d.l. 132/2014, in quanto la legge di conversione (l. 162/2014) ha previsto la possibilità di trasferire la causa agli arbitri alle cause di lavoro che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, ove il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale. Inoltre, l’attuale art. 1 della l. 162/2014 ha stabilito che, per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il
pagamento di somme di denaro, la richiesta di arbitrato della parte privata si presume accettata quando controparte sia una pubblica amministrazione; la P.A. può, tuttavia, dissentire per iscritto entro 30 giorni dalla richiesta.

CRITICITA’
L’art. 1, comma 1, della l. 162/2014, così formulato, a mio avviso, potrebbe dar vita a profili di criticità sia sul piano dell’effettiva utilità dello strumento in esame rispetto all’auspicata finalità deflattiva, e sia sul piano strettamente processuale. Per quanto concerne i dubbi sul primo piano, ossia dell’efficacia dello strumento deflattivo, si osserva che la devoluzione al collegio arbitrale di una controversia già pendente in sede giurisdizionale presuppone necessariamente, per esplicita previsione
normativa, l’accordo di tutte la parti in causa, dovendo la relativa richiesta essere formulata con apposita “istanza congiunta”. Ne consegue, pertanto, che l’effetto devolutivo, al quale dovrebbe teoricamente conseguire l’auspicato risultato deflattivo, è interamente rimesso alla volontà delle parti. Sennonché, è davvero poco realistico ipotizzare che esse, dopo aver già sostenuto ingenti spese (contributo unificato, acconti per eventuali CTU, anticipi di compenso ai difensori) e dopo aver atteso diverso tempo per una pronuncia
giurisdizionale, decidano, magari in prossimità della pronuncia, di abbandonare la sede naturale del processo e di devolvere la relativa controversia ad arbitri. Ancor più improbabile è che una simile eventualità si verifichi in grado di appello, ove solo si consideri che in tal caso la devoluzione al collegio arbitrale presupporrebbe il consenso anche della parte non soccombente, la quale difficilmente sarà disposta a percorrere la via del procedimento arbitrale in presenza di una sentenza favorevole di primo grado, peraltro provvisoriamente
esecutiva. Occorre poi considerare, secondo la comune esperienza delle aule giudiziarie civili, che non sempre tutte le parti di un giudizio condividono l’uguale desiderio di abbreviare i tempi per pervenire rapidamente ad una applicazione rigorosa del diritto nei rapporti tra di loro, essendo piuttosto la resistenza in giudizio talvolta uno strumento utilizzato da debitori consapevolmente inadempimenti per procrastinare ed eventualmente sfuggire ai propri doveri (V., Parere del CSM del 18 settembre 2014). Inoltre, l’art. 1 in esame non prevede alcun beneficio che
possa stimolare le parti ad una devoluzione della controversia pendente alla sede arbitrale, non potendo certo, a mio avviso, ritenersi sufficiente la previsione di cui al comma 5, art. 1 della l. 162/2014, in ordine alla mera possibilità di stabilire con decreto regolamentare del Ministro della giustizia, da adottare entro 90 giorni dall’entrata in vigore della l. 162/2014 (11 novembre 2014), riduzioni dei parametri relativi ai compensi degli arbitri.
Quanto al profilo strettamente processuale, come si è già detto, l’art. 1 della l. 162/2014 presenta alcuni aspetti di incertezza. In primis, la disposizione non chiarisce quale debba essere la forma dell’istanza congiunta che richiede l’arbitrato (scritta, orale in udienza, proponibile solo dalle parti o anche dai loro avvocati). In secondo luogo, non vengono indicati i termini di un eventuale accordo per il trasferimento in sede arbitrale in una serie di casi
quali, ad esempio, le controversie plurisoggettive, i litisconsorzi, le unioni di cause. Infine, l’attuale testo non suggerisce una modalità di sollecitazione dell’eventuale convenuto – o appellato – contumace.

Staiano Rocchina

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