La Suprema Corte, con la recente sentenza n. 29007 del 17.12.2020, ha abilmente sciolto diversi nodi connessi, in primis, alla corretta applicazione dell’art. 1344 c.c. ed, in secundis, al regime di decadenza relativo all’impugnazione del trasferimento, quando tale evento modificativo si pone in rapporto di stretta consequenzialità e connessione diretta con una previa sentenza di condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore.
Il caso
Le origini della vicenda, oggetto della pronuncia in esame, sono da ricercare nel “primo” licenziamento intimato al lavoratore il 22.12.2014, poi dichiarato illegittimo dal Tribunale di Roma con sentenza n.8938/2016, in esito al procedimento ex lege n. 92/2012, con condanna della società datrice alla reintegra. In esecuzione di detta sentenza, il datore di lavoro provvedeva a reintegrare tempestivamente il lavoratore nel proprio posto di lavoro ma presso un diverso punto vendita, sito in Trieste, distinto dalla unità produttiva ove era occupato in origine, prima della risoluzione del rapporto. La società adduceva come causa del detto trasferimento il mutamento degli assetti organizzativi, produttivi e commerciali che erano intervenuti nelle more del giudizio di impugnativa del licenziamento.
Tuttavia, appena cinque giorni dopo dal trasferimento del dipendente, la società avviava in tale nuova unità produttiva una procedura per riduzione del personale mediante licenziamento collettivo, ex art. 24 L. n. 223/1991, di nove dipendenti, tra cui il lavoratore da poco reintegrato, sulla base di un affermato esubero strutturale di personale rispetto alle esigenze della società.
Impugnato il licenziamento, in primo grado, il Tribunale dichiarava l’illegittimità del (secondo) licenziamento, con condanna alla reintegra del lavoratore ex art. 18, co. 4 St. Lav.. In sede di reclamo, la Corte d’Appello di Roma, in accoglimento del reclamo proposto in via incidentale dal lavoratore ed in parziale riforma dell’impugnata sentenza, rigettava il gravame proposto dal datore e dichiarava la nullità del licenziamento perché intimato in frode alla legge, condannando la società alla reintegra “forte” di cui all’art. 18, co. 1 St. Lav., accompagnata dalla corresponsione di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra. La Corte motivava, in tal senso, sull’assunto che l’atto risolutivo del rapporto di lavoro era da inquadrarsi nella fattispecie degli atti in frode alla legge; posto che l’operazione complessivamente realizzata, in combinato disposto con il previo trasferimento presso il punto vendita di Trieste, consisteva in un mezzo per eludere l’applicazione delle disposizioni imperative in materia di limitazione alle facoltà datoriali di recesso e per sottrarre la società all’ordine di reintegra disposto dalla sentenza del Tribunale di Roma.
Avverso la sentenza di reclamo proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro eccependo, fra le varie motivazioni, l’erroneità della pronuncia di merito per non aver la Corte dichiarato la decadenza del lavoratore dall’impugnazione del trasferimento ex art. 32 L. 183/2010.
La Corte di Cassazione decideva con la sentenza indicata in epigrafe.
Le questioni giuridiche
2.a) La prima questione analizzata dalla Corte riguarda l’istituto giuridico del contratto in frode alla legge, di cui all’art. 1344 c.c, ritenuto applicabile anche al negozio unilaterale del licenziamento ed in particolare al caso di specie.
Tale norma dispone l’illiceità della causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, ossia quando le parti hanno inteso realizzare un risultato equivalente a quello che la norma imperativa vuole impedire, mediante un mezzo diverso e generalmente lecito.[1] Tale schema fraudolento, nella prassi, si realizza soprattutto attraverso il collegamento in senso tecnico tra due o più contratti- ciascuno in sé lecito- che nella loro peculiare combinazione danno vita al risultato vietato dalla norma.
La Corte, richiamando tale nozione, ha confermato l’interpretazione data dalla Corte distrettuale che, analizzando gli elementi costitutivi e gli indici sintomatici del meccanismo fraudolento, ha correttamente inquadrato l’intera operazione posta in essere dalla società datrice (trasferimento + licenziamento collettivo) nell’alveo dell’art.1344 c.c.[2] Di contro, si ha violazione di disposizioni imperative, ex art. 1343 c.c. (non ricorrente nel caso di specie) qualora le parti perseguano il risultato vietato dall’ordinamento mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con disposizioni di tale natura.
Invero, ferma la garanzia posta dall’art. 41 Cost. alla libertà imprenditoriale, nel caso in esame si riscontrano plurimi indici sintomatici, oggettivi e soggettivi, ai fini della tipizzazione del comportamento alla stregua di una concreta elusione delle conseguenze tanto dell’ordine di reintegrazione quanto della disciplina di cui alla L. n. 223/1991. Inoltre, prima ancora che fosse disposto il trasferimento del ricorrente presso la sede triestina, era noto alla parte datoriale la strutturale esuberanza della sede di destinazione, in perdita da anni, come fatto presente dalla società stessa in seno alla comunicazione di licenziamento.
Sulla base di tali presupposti, la Corte, valorizzando il collegamento negoziale tra il trasferimento (in un’unità produttiva con personale notoriamente in esubero) ed il successivo licenziamento collettivo alla luce dell’art. 1344 c.c., ha concluso per l’irrilevanza del carattere unilaterale del negozio giuridico ai fini della realizzazione della frode alla legge, condividendo in tal modo quanto statuito dalla Corte d’Appello.
2.b) La seconda, nonché centrale, questione giuridica affrontata in sentenza verte sulla censura mossa dalla società in ordine alla violazione o falsa applicazione dell’art.12 preleggi, dell’art.6 L n.604/1966, dell’art.32 co.1 lett. c) L. n.183/2010.
In particolare, la datrice ha censurato la sentenza di merito in quanto la Corte avrebbe erroneamente (a suo dire) ritenuto inapplicabile al caso di specie il termine di decadenza di cui all’art. 32 L. 183/2010 con riferimento all’atto di trasferimento, ancorché il lavoratore non avesse formalmente impugnato entro detto termine il citato provvedimento datoriale, essendosi limitato ad impugnare unicamente il licenziamento. In mancanza di formale impugnazione del trasferimento entro il termine di decadenza ex lege previsto, si deduceva infine che nessuna pronuncia giudiziale poteva al riguardo essere emessa.
Giova premettere che il citato art. 32 della l. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) ha esteso il termine di decadenza stragiudiziale di sessanta giorni per l’impugnazione, già esistente per i licenziamenti, a diverse fattispecie tra cui i trasferimenti ex art. 2103 c.c. Grava, dunque, sul lavoratore illegittimamente trasferito l’onere di tempestiva impugnazione stragiudiziale, il cui dies a quo inizia a decorrere dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento.
La Corte, in adesione agli assunti a cui era già pervenuta la Corte d’Appello, ha ritenuto il motivo privo di pregio posto che la censura di illegittimità del trasferimento non può essere letta ed analizzata correttamente se non alla luce della lente di interpretazione sistematica, “in quanto ineludibile passaggio giuridico per addivenire alla declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo e strumentale all’accoglimento del petitum mediato”.
Il trasferimento, infatti, rappresenta un elemento costitutivo integrante la complessa fattispecie della frode alla legge, ragion per cui non era configurabile alcuna necessaria autonoma impugnazione di un singolo atto della fattispecie frodatoria, considerato lo stretto nesso logico-giuridico intercorrente tra i due provvedimenti, modificativo ed espulsivo. L’operazione, secondo la Corte, artificiosamente costruita nella reintegrazione del dipendente in un punto vendita differente rispetto a quello di prima assegnazione, con il suo conseguente trasferimento in altra unità produttiva, e nel successivo avvio della procedura di licenziamento collettivo, doveva essere congiuntamente intesa quale strumento per eludere l’applicazione delle disposizioni imperative in materia di limitazione alle facoltà datoriali di recesso e, soprattutto, per sottrarsi all’ordine di reintegra disposto dalla sentenza del Tribunale di Roma con cui era stato deciso il primo giudizio di impugnativa del licenziamento.
Pertanto, avendo il lavoratore tempestivamente impugnato l’atto finale della condotta illecita assunta dalla parte datoriale, tanto bastava ad escludere il parallelo onere di contestare altresì la legittimità del provvedimento emanato dalla società nell’esercizio dello jus variandi. Di conseguenza, la Corte d’Appello ha correttamente deciso nella parte in cui ha escluso l’operatività del termine decadenziale di cui all’art. 32 L. 183/2010 con riferimento all’impugnazione del trasferimento, in quanto il lavoratore ricorrente non ne era onerato.
Orientamento giurisprudenziale
Tale interpretazione, peraltro, si pone in linea di continuità con altre pronunce nelle quali la Corte di legittimità ha ritenuto la sussistenza dello schema fraudolento nell’insieme degli atti posti in essere dal datore di lavoro, ove si ribadisce la necessità che il giudice di merito conduca il relativo accertamento in base ad una valutazione unitaria e non atomistica di ulteriori indici sintomatici dell’intento elusivo, quali ad esempio la mancata ottemperanza del datore all’ordine giudiziale di reintegra e la contiguità temporale del secondo recesso.[3]
Particolare menzione, alla luce della questione trattata, merita la sentenza n. 649 del 04.11.2020 della Corte d’Appello di Milano che, da un lato, richiama l’orientamento tradizionale della Suprema Corte secondo il quale l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro emanato dal giudice nel sanzionare un licenziamento illegittimo esige che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel luogo e nelle mansioni originarie, salva la facoltà per il datore di lavoro di disporne con successivo provvedimento il trasferimento ad altra unità produttiva, laddove ne ricorrano le condizioni tecniche, organizzative e produttive (cfr. in tal senso Cass. n. 27844/2009 nonché Cass. n. 11927/2013, 19095/2013). Dall’altro, precisa che l’eventuale provvedimento di trasferimento disposto unitamente alla reintegra, ma comunque in sequenza temporale successiva benché immediata, non può essere dichiarato illegittimo a priori a prescindere dall’esame delle ragioni che lo sostengono; con la conseguenza che, al di fuori di tali condizioni, il trasferimento integra un inadempimento contrattuale e giustifica, quale attuazione dell’eccezione di inadempimento, il rifiuto del dipendente ad assumere servizio nella sede diversa alla quale sia stato destinato.
A fortiori, il trasferimento presso un’unità produttiva, già in esubero, diversa da quella precedente non poteva che tradursi in una palese manifestazione degli scopi elusivi del provvedimento giudiziale di reintegra ottenuto dal lavoratore nel precedente contenzioso.
Conclusioni
In conclusione, con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha compiuto un importante passo in avanti nel delineare i contorni (in concreto) della fattispecie fraudolenta perpetrata ai danni del lavoratore. Risulta, altresì, evidente come la preliminare qualificazione della vicenda complessivamente intesa e la sua sussunzione entro lo schema degli atti in frode alla legge sono stati determinanti, in quanto, in mancanza, difficilmente il lavoratore avrebbe potuto sfuggire ad una declaratoria di intervenuta decadenza di impugnazione del trasferimento in altra sede di lavoro.
Note
[1] V. Roppo, Il Contratto, Giuffrè Editore, Milano 2011
[2] Corte Appello Milano, 08.01.2020, sentenza n.40 “Perché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie anche ai fini della nullità dell’intero procedimento negoziale per illiceità del motivo o della causa ai sensi degli art.1344 e 1345 c.c, è necessario che ricorra sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, che il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti, pur se non manifestato in forma espressa, di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi, in concreto posti in essere, ma anche il collegamento ed il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore”
[3] Cassazione civile sez. lav., 03/10/2019, n.24772; Cassazione civile sez. lav., 26/09/2018, n.23042
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento