Il trattamento medico-chirurgico è uno degli ambiti in cui più frequentemente si pone un problema di rilevanza giuridica del consenso dell’avente diritto.
Nonostante dottrina e giurisprudenza neghino che il consenso informato sia riconducibile al paradigma ex art. 50 c.p., v’è un generale accordo tra le stesse sul fatto che il trattamento medico sia lecito se compiuto sulla base del consenso del paziente o del suo legale rappresentante.
Nondimeno, in difetto di una normativa ad hoc che disciplini la liceità di tale materia, non si può fare a meno di inquadrarlo nell’alveo delle fattispecie per le quali è consentito applicare l’art. 50 c.p. .
Ciò posto, con l’espressione “presupposti di liceità del trattamento medico” si fa riferimento ad un insieme di regole di condotta dalla cui osservanza dipende la liceità dell’atto.
Queste ultime vanno tenute distinte rispetto alle c.d. “legis artis”, ossia regole tecniche, non giuridiche, finalizzate alla massimizzazione della tutela della salute del paziente tramite l’atto medico, il rispetto delle quali esclude che lo stesso produca, in concreto, un danno alla salute del paziente medesimo.
Ambedue i requisiti in esame mirano alla tutela del diritto fondamentale del paziente all’autodeterminazione terapeutica ex art. 32, comma due, Cost. in via diretta, ma la tutela di detto bene/interesse giuridico è parimenti garantita da altre norme concernenti l’integrità fisica, quali l’art. 2 COT e l’art. 3 CEDU, gli artt. 2 e 13 Cost., etc …, e garantisce al singolo di non subire interventi indesiderati sul proprio corpo da parte di chiunque.
Tale diritto fondamentale ingloba il riconoscimento al paziente di un’area di libertà entro cui decidere della propria salute e del proprio corpo insieme con il proprio medico, c.d. “alleanza terapeutica”, ed inoltre tutela l’inviolabilità del corpo, che viene concepito come recinto riservato solo alla sovranità dell’individuo e protetto, dunque, contro interferenze indesiderate da parte di terzi, seppur bene intenzionati, qualificato “quale diritto della personalità”.
Può dunque inferirsi che, mentre le leges artis tutelano il diritto alla salute dell’individuo nel senso ricondotto usualmente all’art. 32, comma primo, Cost, cioè quale buon funzionamento dell’organismo secondo l’oggettivo apprezzamento della scienza medica, i presupposti in esame sono riconducibili alla previsione dell’art. 32, comma secondo, Cost., che affida al paziente stesso la decisione ultima se consentire o meno l’intervento sul proprio corpo con qualsiasi atto medico, sia esso terapeutico, palleativo, etc… ovvero di cura.
Pertanto, si tratta di presupposti giuridici che devono essere definiti dall’interprete, il quale deve dedurli, per lo più, dai principi costituzionali.
Il mancato rispetto della regola de qua comporterà l’illiceità dell’atto sanitario, a prescindere dalla sua conformità o meno alle leges artis, vista la lesione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica.
Tale eventualità ha conseguenze sia civili, concernenti il risarcimento del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. e non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., differenti rispetto a quelle che concretano il danno alla salute che concerne un errore secondo le leges artis, poiché derivato dall’illecita condotta del medico, come chiarito dalla Corte di Cassazione con la sent. n. 2847 del 2010, ove si legge che il danno risarcibile può aversi anche quando il trattamento medico ha esito positivo, visto che il paziente avrebbe potuto scegliere di voler sopportare eventuali conseguenze secondo una scelta che solo lui può compiere, oppure se si verificano conseguenze del tutto inaspettate rispetto a quelle paventate anche se normali nel decorso post trattamento.
Per quanto concerne il danno non patrimoniale, in tale materia fanno scuola le sentenze numeri 26874 e 26972 del 2008, che menzionano espressamente, come danno risarcibile, quello derivante dalla lesione fondamentale all’autodeterminazione terapeutica desumibile dagli artt. 2, 13 e 32, comma secondo, Cost., mentre in passato la giurisprudenza si orientava a riconoscere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria nel caso di violazione dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente ancorché il trattamento fosse legittimo secondo le leges artis, valutando il pregiudizio nel danno subito alla salute del paziente secondo i consueti parametri medico-legali usati nel settore del danno biologico, escludendo il risarcimento se il trattamento, quantunque illegittimo, avesse prodotto beneficio.
Dal punto di vista penale, il problema della giustificazione dell’atto medico si pone se, preliminarmente, sia positivamente affermata la questione che l’atto medico, in sé considerato, sia penalmente rilevante secondo una qualsivoglia norma incriminatrice, visto che la sanzione nella materia de qua, a differenza di quella civile che consegue a qualunque atto compiuto in violazione dell’autodeterminazione terapeutica che cagioni un danno, presuppone che il giudice abbia verificato la rispondenza della fattispecie ad una norma incriminatrice.
Qualora non ricorra detta ipotesi, l’eventuale indagine sull’operato ulteriore del medico è superflua, visto che manca l’elemento tipico della condotta.
La vexata quaestio è stato oggetto di uno strenuo dibattito dottrinario-giurisprudenziale, che le Sezioni Unite non hanno concretamente risolto.
Il nodo gordiano attiene alla parte speciale del codice Rocco e, nello specifico, ai requisiti delle norme incriminatrici di applicazione nei casi di trattamento medico arbitrario, argomento strettamente correlato al problema della giustificazione dell’atto medico.
Invero, è necessario comprendere se e quando il trattamento medico sia suscettibile di integrare il paradigma delle lesioni personali o dell’omicidio, o anche di uno di quelli dei delitti contro la libertà personale, posto che solo delimitandone l’ambito operativo, si può conseguentemente esaminare il profilo giustificativo dell’atto medico.
E’ circostanza incontroversa che un atto medico compiuto in violazione delle leges artis possa esporre il medico ad una responsabilità penale per lesioni personali, qualora l’atto produca esito infausto, cioè un danno alla salute del paziente, inteso quale malattia nel corpo e nella mente ex art. 582 c.p., e che possa anche rispondere per omicidio, se l’esito sia la morte.
Per quanto concerne l’imputazione soggettiva, la violazione delle leges artis conduce, usualmente, ad un’imputazione colposa, con applicazione, quindi, degli artt. 589 e 590 c.p. .
Tuttavia, non si può a priori escludere una responsabilità dolosa nel caso di violazione delle leges artis per finalità non terapeutiche ma in funzione di propri od altrui interessi, preventivando la verificazione di eventi collaterali avversi sul paziente.
E’ controverso, ancora, se ed in che misura un atto medico compiuto non in violazione delle leges artis, ma in assenza dei presupposti di liceità funzionali alla tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente, integrando indi un’ipotesi di c.d. “trattamento arbitrario”, possa portare all’imputazione per omicidio o lesioni.
Secondo un’opinione consolidata e sovente proposta in dottrina e giurisprudenza, l’intervento medico finalizzato, sul piano soggettivo, alla salvaguardia ovvero al miglioramento complessivo della salute del paziente ed eseguito secondo le leges artis non integrerebbe mai la fattispecie delle lesioni, indipendentemente dall’esito fausto od infausto dello stesso o dalle conseguenze effettivamente migliorative o peggiorative delle complessive condizioni di salute del paziente.
L’assunto in esame è stato motivato differentemente a seconda dei casi.
Invero, è stato sostenuto sia sulla scorta del fatto che il trattamento ex leges artis è attività socialmente adeguata, c.d. “autolegittimazione all’attività medico-chirurgica secondo leges artis”, che sarebbe sostenuta ed incoraggiata, perché tutela effettivamente la vita del paziente, indipendentemente dall’esito.
Un’altra teoria afferma che il trattamento è legittimo quando, ex ante, si sia mantenuto nei limiti segnati dalle leges artis per la tutela della salute del paziente.
Ambo le tesi escludono che il trattamento terapeutico eseguito lege artis possa integrare gli estremi delle lesioni o dell’omicidio, indipendentemente dall’esito e dalla presenza o meno dei presupposti di liceità del trattamento, quale ad esempio il c.d. consenso informato.
Al massimo, nel caso di trattamento lege artis arbitrario, può configurarsi, de iure condito, una responsabilità del sanitario per le norme incriminatrici che tutelano la libertà individuale del paziente, come ad esempio l’ipotesi di violenza privata, qualora tuttavia ricorra l’esplicito dissenso del paziente.
Secondo un’altra teoria, occorrerebbe distinguere le ipotesi in cui il trattamento medico abbia avuto esito positivo da quelle in cui il risultato sia stato invece infausto, cioè se sia migliorata la salute del paziente, ovvero lo stato morboso sia peggiorato o se ne sia innescato uno nuovo, ovvero ancora si sia arrivati alla morte.
In caso di esito fausto, si esclude la responsabilità del sanitario per mancanza del requisito oggettivo della causazione della malattia, indipendentemente da qualunque verifica sulle leges artis o sulla liceità del trattamento.
In caso di esito infausto, invece, il medico avrebbe cagionato una malattia, o l’avrebbe aggravata, dunque le ipotesi menzionate possono integrare gli estremi delle lesioni personali ovvero dell’omicidio.
La ricorrenza della responsabilità penale, in questi casi, va individuata e vagliata sul terreno dell’elemento soggettivo.
Nello specifico, si ritiene che un addebito dell’evento a titolo di dolo o pretereintenzione sia da escludere se il medico agisca con finalità terapeutiche.
Viceversa, la responsabilità colposa dipenderà dall’eventuale violazione delle leges artis, come indicato nella sentenza Barese, nella quale la Corte di Cassazione si pronunciò sul caso di un medico che cagionò la morte di un paziente dopo una condotta operatoria eseguita in violazione delle leges artis, poiché esperita senza l’autorizzazione del paziente.
Il sanitario venne condannato per omicidio colposo, non preterintenzionale, perché gli atti eziologicamente connessi non erano diretti a ledere, ma finalizzati a scopi terapeutici.
Le due tesi giungono al medesimo risultato, pur con diversi inquadramenti sistematici, poiché il trattamento lege artis è sempre penalmente irrilevante.
Un’ulteriore tesi assume anch’essa che, se il trattamento ha avuto un esito positivo, non si ha responsabilità del medico ma, qualora l’esito sia stato infausto, il sanitario risponde per lesioni o omicidio colposo non solo se viola le leges artis, ma anche qualora agisca in violazione dei requisiti di liceità del trattamento, cioè senza c.d. “consenso informato”.
Invero, l’aver agito nei termini anzidetti sarebbe sufficiente ad integrare una responsabilità per colpa, anche laddove non sia possibile muovere un rimprovero per negligenza, imprudenza o imperizia, come sancito dalla Corte di Cassazione nella sentenza Ghisellini, anche se il Supremo Consesso si è espresso in senso opposto nella pronuncia Ruocco.
La teoria è motivata nel senso che l’acquisizione del consenso informato del paziente delimiterebbe, insieme con il rispetto delle leges artis, l’area di rischio consentito inerente al legittimo esercizio della professione medica.
Se il trattamento esula da tale area di rischio, e ciò si avvera qualora si agisca senza consenso informato, l’evento avverso va imputato al medico sul piano oggettivo e, dal punto di vista soggettivo, l’imputazione sarà colposa non potendosi affermare che il medico abbia voluto intenzionalmente cagionare l’evento.
Secondo un’ulteriore tesi, dovrebbe ritenersi che da ogni trattamento medico scaturisca sempre un’apprezzabile alterazione funzionale dell’organismo che integra gli estremi oggettivi e soggettivi del delitto di lesioni personali dolose anche qualora il medico abbia rispettato le leges artis e l’esito sia stato fausto.
Sul piano oggettivo, la teoria in esame ritiene che gli effetti della quasi totalità dei trattamenti medici sull’organismo del paziente integrino la nozione di malattia ex art. 582 c.p., intesa quale qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non generale.
Sul piano soggettivo, poi, il medico conosce i risultati del suo operato, e vuole che essi si producano, sia pure se orientati verso un futuro miglioramento dello status del paziente.
Ergo, detto costrutto interpretativo assume la normale sussistenza del dolo delle lesioni personali non richiedendo animus nocendi e non essendo compatibili con la finalità terapeutica del suo operato.
Di norma, la responsabilità del medico sarà esclusa in forza del consenso informato del paziente o del rappresentante, o di uno degli altri presupposti di liceità funzionali all’autodeterminazione, che assicurano la liceità dell’agire medico anche qualora arrechi il suo operato un esito infausto, purché non violi le leges artis.
Se l’atto medico, però, non è coperto da alcuna causa di giustificazione, il medico dovrà rispondere a titolo di lesioni dolose indipendentemente dall’aver rispettato le leges artis o dall’esito fausto od infausto.
Si avrebbe una responsabilità per lesioni colpose ex art. 59, comma quarto, c.p., quando il medico si rappresenti erroneamente e colposamente sussistenti i presupposti di legittimità o, per errore dovuto a colpa, ritenga di aver dato al paziente tutte le informazioni necessarie, ma in realtà lo ha indotto ad esprimere un consenso non informato, ovvero ancora ai sensi dell’art. 55 c.p. qualora il medico ecceda colposamente i limiti segnati al suo intervento dai presupposti di liceità.
Nel caso in cui l’evento abbia prodotto la morte del paziente, come conseguenza non voluta dell’operato medico nella consapevolezza dell’assenza delle condizioni di legittimità dello stesso, il sanitario sarebbe imputabile per omicidio preterintenzionale, visto che l’evento sarebbe stato causato da atti diretti a cagionare l’alterazione funzionale dell’organismo del paziente necessariamente connessa al trattamento.
Questa teoria fornisce dunque un rilievo decisivo alla presenza o meno dei requisiti di liceità, e nello specifico al consenso informato, per i quali non rilevano né il rispetto delle leges artis, né l’esito fausto od infausto dell’operato, visto che gli estremi oggettivi e soggettivi ricorrono sempre quando vi sia un trattamento che abbia un impatto apprezzabile sull’organismo del paziente.
Solo la presenza delle condizioni di liceità può escludere l’addebito a titolo di dolo, lasciando intatta la rimproverabilità colposa ex artt. 43, 55 e 59, comma quarto c.p. .
Dalle teorie esposte, si evince come il punctum pruriens sia la definizione del concetto di malattia ai sensi delle norme incriminatrici delle lesioni personali.
Infatti, al di là della prima che esclude ogni rilievo penale del trattamento medico, la seconda e la terza da un lato, e la quarta dall’altro, dibattono sulla possibilità di sussumere entro il concetto di malattia qualsiasi conseguenza di un trattamento che produca un impatto sul corpo del paziente o solo quelle che si risolvono in un esito infausto.
L’alternativa ha un riverbero nell’aspetto soggettivo, perché adottando la quarta tesi, si avrà che il medico agisce secondo coscienza e volontà, ed è dunque imputabile a titolo di dolo, fattore che facendo prevalere la seconda o la terza teoria, invece, è di meno agevole cristallizzazione.
A dirimere il dibattito teorico è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sent. Giulini del 2008, optando per la seconda tra le tesi esposte, che differenzia trattamenti con esito fausto ed infausto, affermando che il trattamento che in concreto non abbia prodotto un peggioramento complessivo della salute non può configurarsi quale malattia ex art. 582 c.p., ed è penalmente irrilevante, anche se posto in essere in assenza dei requisiti di liceità.
Pertanto, la nozione di malattia della scienza penalistica è inadeguata, essendo più pregnante quella che richiede l’innescarsi nel soggetto passivo di un processo patologico evolutivo che comprometta l’organismo.
Si dovranno dunque escludere dall’alveo delle malattie tutti i trattamenti che tendano a produrre un beneficio per il paziente.
L’assenza di consenso informato, in questi casi, può dar luogo solo ad una responsabilità civilistica, non penalistica, difettando la tipicità dell’illecito.
Una conclusione differente causerebbe una torsione ermeneutica dei requisiti della fattispecie, in spregio al principio di tassatività.
La pronuncia ha però lasciato impregiudicato il problema della rilevanza penale del trattamento con esito infausto in relazione alle lesioni personali.
Sul piano oggettivo, secondo l’impianto argomentativo paventato, si avrà malattia.
Su quello soggettivo, le Sezioni Unite della Suprema Corte affermano che tutti i trattamenti con finalità terapeutiche, anche in difetto dei presupposti di legittimità ed in spregio al principio della libertà di cura, siano logicamente incompatibili con il dolo.
Invece, la colpa si ritiene sussistente sia quando si violino le leges artis, sia quando difettino i presupposti di legittimità, accogliendo la teoria per cui il trattamento medico non trovi quale fonte di legittimazione la causa di giustificazione ex art. 50 c.p., bensì una causa non codificata, costituzionalizzata, che parrebbe operare proprio in relazione ai trattamenti con esito infausto. L’operatività di tale scriminante sembra sussistere in presenza dei presupposti di liceità dell’agire, richiesti in funzione dell’autodeterminazione terapeutica del paziente.
Qualora questi manchino, non opera, ed il medico è imputabile per lesioni colpose.
A motivo di ciò, la Suprema Corte ammette la responsabilità del medico nelle ipotesi di colpa impropria di cui agli artt. 55 e 59, comma quarto, c.p. .
Nell’eventualità in cui il medico agisca nella piena consapevolezza dell’assenza dei presupposti di liceità, esclusa l’imputabilità dolosa, parrebbe doversi propendere per l’imputazione colposa, che risiede nella violazione delle regole giuridiche funzionali all’autodeterminazione terapeutica.
La giurisprudenza successiva fa trasparire una certa disparità di vedute in merito a tale assunto.
Invero, nella sentenza Petretto, fattispecie alla base della quale si è configurata una macroscopica violazione delle leges artis per un intervento chirurgico oculare che ha prodotto un danno al paziente, che aveva esplicitamente manifestato il suo dissenso, la Corte di Cassazione ha rifiutato l’accusa per lesioni meramente colpose, asserendo come in questo caso la violazione sia dolosa, perché la condotta è stata tanto anomala da esorbitare la normale negligenza imprudenza ed imperizia, tale da far credere che il medico abbia agito volontariamente accettando il rischio in via preventiva di verificazione dell’evento, ed imputandolo dunque a titolo di dolo eventuale.
La finalità terapeutica perseguita non rileva sufficientemente, visto che v’è una consapevole violazione dell’autodeterminazione terapeutica.
Riepilogando quanto sin qui esteso, può dirsi che il trattamento medico che si sia risolto in un esito fausto è penalmente irrilevante, sia anche operato senza i presupposti di legittimità o in violazione delle leges artis, non avendo causato alcuna malattia.
Nel caso in cui il trattamento produca esito infausto e quest’ultimo avrà cagionato una malattia, il medico sarà esente da responsabilità, in forza della scriminante costituzionale citata dalle Sezioni Unite, qualora abbia agito in presenza dei presupposti di liceità del trattamento ed abbia rispettato le leges artis.
Viceversa, il sanitario risponderà per lesioni colpose qualora abbia agito in assenza dei presupposti di liceità, ritenendoli erroneamente sussistenti, integrando l’ipotesi di cui all’ art. 59, comma quarto c.p., ovvero qualora li ecceda colposamente, secondo la previsione dell’art. 55 c.p..
Inoltre, il medico risponderà per lesioni dolose se la sua condotta è perseguita a scopi non terapeutici o quando abbia agito, indipendentemente dalle leges artis, nell’assenza consapevole dei presupposti di legittimità dell’atto medico, prevedendo ed accettando il rischio di verificazione dell’evento, profilandosi una responsabilità per omicidio preterintenzionale o di omicidio doloso, commesso con dolo eventuale.
Nondimeno, quest’impostazione dovrebbe essere rimeditata, perché ha alla base una concezione della salute superata dalle riflessioni bioetiche contemporanee, visto che la connatura al livello che la scienza medica afferma quale sussistente e non tiene fede alla percezione del benessere psicofisico propria di un soggetto determinato.
Quindi, l’esito fausto o infausto è ricostruito sulla scorta di valutazioni standardizzate di carattere tecnico, che la scienza medica ricostruisce sul parametro del paziente modello.
A ciò si obietta che una concezione soggettivizzante della salute non sarebbe in linea con il requisito normativo dal quale dipende la responsabilità penale del medico.
Anche le Sezioni Unite, però, riconoscono l’infungibilità di una soluzione meramente oggettiva, finendo per usare una definizione aperta anche a soluzioni soggettive, intendendo con esito fausto il giudizio operato non solo dalla scienza, ma anche dal paziente, incidendo anche la volontà di quest’ultimo, seppur in via indiretta, sulla riuscita dell’intervento, consentendo al giudice di ravvisare un esito infausto, anche quando secondo la scienza medica tutto è andato per il meglio, anche se ciò porta ad una definizione del termine malattie in ottica meramente soggettiva.
Ciò posto, però, non si spiega perché nei casi in cui il paziente non sia stato neanche interpellato per l’esecuzione di un trattamento, egli debba avere voce in capitolo in merito agli esiti dello stesso, anche se le conseguenze dello medesimo, quantunque ottime e produttive di miglioramento, possano essere percepite dal paziente quali troppo gravose od intollerabili, e quindi lo si sarebbe dovuto interpellare ex ante.
Inoltre, non convince neanche l’impostazione per cui dovrebbe guardarsi solo all’esito finale del trattamento, cioè se esso produca o meno una malattia, risultando irrilevanti le tappe intermedie.
Un approccio del genere trascura che ogni intervento medico provoca, nell’immediato, una perturbazione al benessere psico-fisico del paziente, ed anche che ciascuno di essi interferisce con il diritto all’integrità fisica, cioè l’inviolabilità del recinto “sacro ed inviolabile” di cui solo il legittimo titolare può disporre, che costituisce il bene tutelato in via primaria dalle norme in materia di lesioni personali.
Infine, non pare neanche corretto affermare che gli effetti immediati sul benessere psico-fisico non siano una vera e propria malattia, perché poi portano al miglioramento: tali effetti, infatti, incidono sempre sulla funzionalità dell’organismo e dunque costituiscono malattia.
Quindi, è forse più corretta un’impostazione nei termini per cui l’esecuzione di un trattamento medico, specie chirurgico, integra gli estremi oggettivi del delitto di lesioni personali, nella misura in cui cagioni anche solo nell’immediato un’alterazione psicofisica del paziente, il che fa ritenere ricorrenti gli estremi ex artt. 582 e 583 c.p. e lede il bene giuridico da questi ultimi tutelato, indipendentemente dalla qualificazione finale dell’intervento secondo i canoni medici.
Il medico agisce con dolo quando è consapevole di provocare questi effetti sul benessere del paziente e lo faccia accettando il rischio della loro causazione.
L’antigiuridicità del fatto doloso di lesioni è esclusa quando vi siano i presupposti che rendano lecito il trattamento.
Tuttavia, se non ricorre alcuna di queste ipotesi, il trattamento sarà punibile ex artt. 582 e 583 c.p., a seconda della gravità delle conseguenze, a meno che il medico non abbia erroneamente ritenuto presente la sussistenza del presupposto che avrebbe legittimato l’intervento o non abbia agito eccedendo colposamente i limiti fissati da quei presupposti, per il qual caso potrebbe comunque essere imputato ex art. 590 c.p. se l’errore o l’eccesso siano dovuti a colpa, integrando una delle ipotesi di cui agli artt. 55 e 59, comma quarto, c.p. .
Nel caso in cui l’intervento medico compiuto in assenza consapevole dei presupposti di liceità abbia cagionato la morte del paziente, poterà ravvisarsi, interpretando l’art. 584 c.p., nell’ottica del principio di colpevolezza, una responsabilità a carico del sanitario per omicidio preterintenzionale solo se la causazione dell’evento letale gli sia imputabile per colpa.
Deve esservi un rischio rilevante di esito letale associato all’intervento ed alle sue concrete modalità di esecuzione, in base ad una valutazione ex ante sulla base del parametro di un medico avveduto. Qualora il medico agisca supponendo erroneamente il presupposto di legittimità, ovvero eccedendolo volontariamente, allora viene meno il fatto base delle lesioni dolose.
E’ meno complesso sancire se il trattamento eseguito in assenza dei presupposti di liceità possa integrare le fattispecie contro la libertà individuale, quali la violenza privata, il sequestro di persona, etc…, eventualmente in concorso con il reato di lesioni o d’omicidio.
Per quanto concerne la violenza privata, è pacifico che il medico potrà risponderne se costringe con la forza il paziente a subire un trattamento, senza un’autorizzazione.
Contrariamente ad una prassi consolidata, le Sezioni Unite hanno escluso che il delitto sia integrato quando il trattamento sia integrato senza il consenso del paziente o senza i presupposti di liceità, difettando la condotta violenta che costringe il paziente a sottoporsi al trattamento.
Inoltre, lo stesso concetto di costrizione pare alludere ad un contrasto con la volontà reale, e non solo potenziale, tanto che il progetto di legge del 1992 della commissione Pagliaro, ricalcando il modello austriaco, voleva introdurre la fattispecie di attività medica su persona non consenziente.
E’ ancora più problematico il caso in cui il paziente abbia espresso un dissenso all’intervento, poi eseguito dal medico, mentre il primo era in stato di incoscienza.
In questo caso, c’è contrasto reale tra la volontà del medico e quella del paziente, che potrebbe portare al ricorrere di una costrizione, ma non sarebbe agevole verificare la condotta violenta.
Quanto allo stato di incapacità procurato mediante violenza ex art. 613 c.p., va rilevato come lo schema di tale delitto esiga che il fatto avvenga in assenza del consenso, mentre nella maggior parte dei casi il paziente acconsente all’anestesia, rappresentandosi la stessa come funzionale ad un intervento, quantunque lo stesso risulti differente da quello poi realizzato.
In questi casi il consenso non è invalido, visto che non rientrano nel novero le ipotesi in cui il medico taccia al paziente le sue reali intenzioni o il mutamento del piano operatorio in corso d’opera.
Ciò posto, una volta stabilito che un dato atto medico è penalmente rilevante ai sensi di una o più norme incriminatrici, bisogna vedere a quali condizioni ed in forza di quali atti la condotta del medico sarebbe giustificata.
L’orientamento delle Sezioni Unite pone un problema di giustificazione solo per il trattamento con esito infausto, visto che quello fausto è penalmente irrilevante, a meno che non si ritenga che se questo sia imposto con la forza, vi sia un’alterazione del precedente equilibrio psicofisico che porti all’integrazione degli estremi oggettivi del delitto di lesioni personali, ma il problema permane. Quella citata rappresenta una vexata quaestio per la dottrina, come testimoniato dalle differenti posizioni in materia: alcuni autori sostengono l’irrilevanza tout-court del trattamento penale autolegittimante, invocando di volta in volta la scriminanti ex artt. 50 o 51 c.p., ovvero una speciale causa di giustificazione ad hoc, opinione quest’ultima suffragata apparentemente dalle Sezioni Unite.
L’impressione è che il dibattito abbia natura eminentemente classificatoria, senza differenze pratiche, con un consenso largo di fondo sui requisiti cui il medico deve attenersi.
Tutte le impostazioni concordano infatti sulla necessità del consenso del paziente al trattamento.
Al riconoscimento di una diretta efficacia all’art. 50 c.p. sembra ostare il carattere indisponibile su cui incide il trattamento medico: il mero consenso, invero, non potrebbe giustificare lesioni fisiche permanenti.
Ma tali dubbi sono infondati, vista la previsione dell’art. 5 c.c., che esclude un limite se la menomazione è funzionale ad un miglioramento dello stato complessivo dell’agente.
Il richiamo al consenso dell’avente diritto non esclude che l’agire del medico possa essere oggetto di un dovere di agire come tale rilevante ex art. 51 c.p., il che vale in tutti i casi in cui il medico rivesta una posizione di garanzia, conferitagli dal paziente nell’ambito della propria autonomia contrattuale.
Anche in questo caso, l’operatività del dovere di agire è subordinata alla sussistenza di un valido consenso del paziente.
Gli artt. 50 e 51 c.p. sono inestricabilmente legati.
Si deve fare invece riferimento solo al secondo dei due nei casi in cui il medico sia autorizzato a compiere un trattamento senza il consenso del paziente in forza della situazione di particolare urgenza terapeutico o ex artt. 33 e ss. della l. n. 833 del 1978.
Il richiamo a tali scriminanti codificate non deve far credere che i presupposti di legittimità dell’atto medico possano essere dedotti dall’ambito testuale di queste due norme, ma vanno ricostruiti dall’interpretazione paventabile sulla scorta di indicazioni provenienti dall’intero ordinamento, compreso quello sovranazionale, nel quale riveste importanza preminente la Convenzione di Oviedo del 1996, strumento universale che fissa i tratti essenziali della tutela dell’uomo nei trattamenti medici.
Detta convenzione non è stata ancora ratificata in Italia, ma vale quale criterio d’ausilio interpretativo molto pregnante cui orientare le norme interne.
L’importanza di tale atto è data dalle previsioni degli articoli che vanno dal cinque al nove, ove v’è una rassegna esaustiva dei presupposti di liceità del trattamento in relazione al consenso informato del paziente capace, di quello incapace, il trattamento coattivo delle infermità psichiche, le situazione di urgenza terapeutica e la rilevanza delle manifestazioni di volontà anticipata del paziente.
L’art. 5 parla del trattamento medico che ha come presupposto il consenso informato, tutte le altre norme rilevano per i pazienti incapaci.
Su questo principio v’è concordanza unanime, vista la previsione dell’art. 32, comma secondo, Cost. .
Ex art. 5 della convenzione in esame, il consenso deve essere libero ed informato sulle conseguenze ed i rischi dell’intervento, il che è coerente con i requisiti di validità del consenso come causa di giustificazione.
Assume rilievo la necessità che il consenso non sia viziato da errore, che si ha quando v’è difetto di informazione sull’intervento.
In merito alla comunicazione al paziente dei rischi del trattamento, si ritiene non necessaria un’informazione dettagliata, essendo sufficiente l’esposizione dei pericoli tipici, la cui verificazione appaia non improbabile.
L’informativa deve essere più dettagliata, invece, quando l’intervento sia necessario per la vita del paziente.
Un problema delicato concerne la prova del consenso.
La prassi ospedaliera di far sottoscrivere moduli prestampati non può ritenersi imposta dalla legge, se non nei casi previsti, né esaurisce l’obbligo del medico di fornire chiarimenti verbali in termini comprensibili al paziente secondo il suo status socio-culturale.
Il codice di deontologia medica, agli artt. 33 e 35, raccomanda la documentazione scritta nei casi di particolarità delle prestazioni diagnostiche e terapeutiche.
Corollario ovvio del consenso informato è l’illegittimità dell’intervento medico in presenza di rifiuto a prestare il consenso da parte del paziente, il che è esplicitato dall’art. 35, comma quarto, del citato codice di deontologia, che non soffre alcuna eccezione nel nostro ordinamento, essendo in linea con gli artt. 2, 13 e 32 Cost., posto che l’unica legittimazione ad un trattamento coattivo è che venga posto in essere nei confronti di soggetti incapaci, il cui rifiuto eventuale li esponga ad un immediato pericolo di vita.
L’incapacità del paziente non autorizza sempre il medico ad agire, ma gli consente di applicare differenti regole.
Il consenso prestato può inoltre essere sempre liberamente revocato, ex art. 5 della Convenzione di Oviedo, con l’ obbligo per il medico di sospendere il trattamento iniziato, dopo aver esposto al paziente le conseguenze della sua scelta.
La revoca del consenso fa venire meno la liceità del trattamento che diviene sprovvisto di giustificazione e se perseguito viola l’autodeterminazione.
Nel caso di paziente incapace, l’art. 6 della convenzione in esame afferma che il trattamento può essere praticato solo a beneficio diretto del paziente e previo consenso del suo legale rappresentante, il che è confermato dagli artt. 357 e 424 c.c., nella parte in cui attribuiscono potestà genitoriale a tutore e curatore, il cui esercizio dovrà essere orientato nell’ottica del “best interest” per l’incapace.
Al legale rappresentante vanno fornite le stesse informazioni che verrebbero date al paziente capace e, nei limiti del possibile, l’incapace andrà coinvolto nella decisione ed il peso della sua opinione va connaturato all’età, alla maturità, etc…
Il “best interest” non dipende solo dall’appropriatezza del trattamento secondo la scienza medica, ma anche da un complesso di fattori di natura soggettiva, connaturati ai desideri dell’incapace, espressi prima della perdita delle sue facoltà in riferimento alle convinzioni etiche, religiose, personali, culturali, etc… in modo da garantire che la decisione sia il più possibile rispondente al volere dell’incapace.
Questo compito del rappresentate è prima umano che giuridico, e non può prescindere dall’analisi del passato del malato.
La figura di cui si tratta deve calarsi nei suoi panni il più possibile e prendere quella che ritiene essere la decisione più rispondente ai suoi canoni di vita.
Se il rappresentante legale oppone un rifiuto ingiustificato al trattamento, il medico dovrà segnalare il caso all’autorità giudiziaria, ex art. 37 del codice di deontologia medica.
Un esempio classico dell’ipotesi de qua è quello dei testimoni di Geova che rifiutano le trasfusioni.
L’art. 7 della Convenzione di Oviedo consente di sottoporre, con le garanzie ex lege previste, i pazienti affetti da grave disturbo psichico ad un trattamento sanitario finalizzato alla cura del loro disordine senza il loro consenso, allorché sussista un rischio serio per la loro salute. Nell’ordinamento italiano, gli artt. 33 e ss. della l. n. 833 del 1978 prevedono questa possibilità, con la previsione di iniziative che assicurino la partecipazione dell’interessato, ma attuabili senza il consenso di quest’ultimo.
Tale previsione soddisfa il portato dell’art. 32, comma due, Cost, ed anche dell’art.13 Cost. .
Non è risolta ex lege la questione su quali siano i limiti di imposizione lecità di un trattamento di emergenza al paziente psichiatrico, prima di attivare l’iter previsto dalla legge da ultimo menzionata.
Pur riconducendo la prassi all’urgenza terapeutica, manca una base legislativa idonea a soddisfare la duplice riserva di legge ex artt. 13 e 32 Cost.
L’art. 8 della Convenzione di Oviedo prevede, infine, che il medico possa intervenire a beneficio della salute del paziente in situazioni di emergenza senza il consenso suo o del suo legale rappresentante quando tale consenso non possa essere ottenuto.
L’eventualità indicata si ha di solito in due casi: stato di incapacità, anche temporanea, ed assenza di nomina di un legale rappresentante; quando il legale, seppur nominato, non è reperibile con la tempestività che richiede la condizione del paziente.
L’impostazione consolidata orienta tali ipotesi nell’alveo dell’art. 54 c.p., ma ciò non convince, perché intanto in questi casi non rileva la facoltà, ma il dovere del medico di agire, che sarebbe punibile ex art. 40, comma secondo, c.p., vista la posizione di garanzia del medico, ed inoltre il concetto di urgenza terapeutica è più elastico rispetto ai rigidi requisiti di cui all’art. 54 c.p., che confinerebbero la liceità dell’intervento del sanitario alle sole ipotesi di immediato e grave pericolo di vita.
In realtà, dovrà ritenersi doveroso per il medico il trattamento ogniqualvolta si possa ragionevolmente ritenere che il paziente avrebbe prestato il proprio consenso all’intervento, se avesse potuto.
Ergo, bisogna tenere conto di eventuali manifestazioni di volontà anticipate; in caso di teorico rifiuto, questo non è tout-court vincolante, ma concorre per la ricostruzione della volontà, nella quale vanno inseriti i possibili benefici ed i rischi dell’intervento, oltre che gli indicatori soggettivi di volontà del paziente ad un trattamento, per quanto medicalmente indicato.
Allora, pare condivisibile la decisione per cui è illecita la sterilizzazione tubarica decisa durante un parto cesareo a paziente anestetizzata per prevenire la rottura delle pareti dell’utero, legato ciò però ad una situazione futura ed eventuale.
Il campo degli interventi medici urgenti è quello di principale applicazione degli argomenti di consenso presunto, consolidati anche nella giurisprudenza tedesca.
Invero, questo rappresenta il naturale sviluppo dell’autodeterminazione terapeutica, che supera la vecchia impostazione paternalistica del rapporto medico paziente, che comporta che il giudizio non possa basarsi solo su fattori di appropriatezza clinica, ma vada orientata nell’ottica del rispetto del volere del paziente.
Tale valutazione è tanto più agevole quanto più grave è il pericolo connesso al rinvio dell’intervento e quanto meno importanti siano le conseguenze ed i rischi collaterali.
Tuttavia, è molto delicata se vi siano conseguenze per la vita futura dell’agente, che rende necessaria una previa consultazione con i familiari del paziente, strumento essenziale per avere informazioni preziose e necessarie per capire se l’intervento medicalmente indicato corrisponda anche alla presunta volontà del paziente.
Le difficoltà probatorie e le conseguenze nefaste fanno si che un ampio spazio vada riconosciuto all’erronea supposizione dei presupposti ex art. 59, comma quarto, c.p., od all’eccedenza colposa dei limiti ex art. 55 c.p., con conseguente responsabilità colposa del medico se le erronee valutazioni erano evitabili.
Tutti questi principi operano nell’ipotesi in cui il paziente non possa prestare un valido consenso, non anche quando il paziente rifiuti l’intervento.
In questo caso, ex art. 32, comma due, Cost., in combinato disposto con gli artt. 2 e 13 Cost., il medico non può procedere al trattamento, altrimenti integra almeno la fattispecie di violenza privata, o lesioni, oltre a responsabilità civile ex art. 2059 c.c. .
E’ dubbio, però, se tale veto sia superabile quando il rifiuto alle cure determini un pericolo per la vita del paziente, che è un bene di indubbia rilevanza costituzione.
Nella prassi, ciò riguarda soprattutto i testimoni di Geova che rifiutano le trasfusioni come sopra esposto, ma anche in casi di rifiuto di amputazioni di arti che poi, andando in cancrena, hanno causato la morte del paziente.
Il richiamo all’art. 54 c.p. è improprio, perché va risolto un conflitto tra doveri, la violazione di ciascuno dei quali può portare a responsabilità penale: quello ex art. 40, comma secondo, c.p. di tutelare la vita e la salute del paziente e quello di praticare trattamenti sanitari contro la sua volontà.
Da ultimo, non si può non fare menzione della promulgazione della legge 189 del 2012, c.d. “legge Balduzzi”, la quale afferisce alla questione della responsabilità professionale per colpa medica.
L’art. 3 di tale legge ha introdotto un’innovazione in base alla quale è stata esclusa la rilevanza penale di tutte le condotte tenute dal sanitario nell’espletamento della sua attività professionale connotate da mera colpa lieve.
Sostanzialmente, il legislatore ha decriminalizzato parzialmente le fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 589 e 590 c.p., con applicazione dell’art. 2 c.p. .
Il primo problema relativo a tale questione è quello di comprendere l’ambito applicativo della disposizione in esame, specie con riferimento alla rilevanza esimente del rispetto dell c.d. linee guida indicate dalle direttive comunitarie.
La Corte di Cassazione, nella sent. n. 16237 del 2013, ha specificato che dette linee guida non costituiscono regole cautelari, ma vanno intese quali mere direttive con valenza meramente indicava per il sanitario poi chiamato ad adattarle al caso concreto, in ragione della loro incertezza contenutistica e dell’eterogeneità degli interessi che ne orientano la determinazione.
Indi, le linee guida sono prive del requisito di prescrittibilità tipico delle regole cautelari.
Da ciò discende che la condotta del medico uniformata alle linee guida non esclude in automatico la punibilità del medesimo, anche in ragione della stessa formulazione della norma, che punisce il sanitario che si conformi alle linee guida ma ponga in essere una condotta comunque colposa, ipotesi non configurabile se le linee guida avessero valore cautelare, perché tale caratteristica escluderebbe in nuce la colpa.
Ergo, bisogna necessariamente valutare la scelta in concreto operata dal sanitario.
Infatti, le linee guida contengono delle indicazioni riferibili al caso astratto, che sarà compito del medico, in base alle sue conoscenze professionali, adattare al caso concreto, sicché si configura in capo a detto professionista un obbligo di discostarsi dalle previsioni delle linee guida qualora le circostanze concrete glielo imponga.
Quindi, il sanitario che si attiene alle linee guida e cagiona comunque un danno va esente da responsabilità solo se si tratta di casi di colpa lieve, così come è possibile che non venga punito qualora il discostarsi dalle linee guida comunitarie sia necessitato dal caso concreto.
In sostanza, il legislatore con l’art. 3 della legge Balduzzi ha determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose inerenti all’attività medica, escludendo la rilevanza penale delle condotte tenute dal sanitario che si connotino in termini di colpa lieve per imperizia, qualora lo stesso si sia attenuto alle linee guida ed alle pratiche virtuose accreditate presso la comunità scientifica.
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