Premessa
Esiste una questione che non ha trovato ancora una soluzione definitiva e che riguarda la libertà di corrispondenza dei cittadini stranieri trattenuti all’interno dei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR). Il tema non è nuovo ma è opportuno parlarne perché è tornato alla ribalta negli ultimi mesi, sia per le ulteriori privazioni legate al Covid19 sia in ragione di una ordinanza emessa dal Tribunale di Milano.
Nel corso di questi anni, sono state evidenziate violazioni che attengono ai diritti delle persone trattenute nei Centri di permanenza anche con riferimento alla prassi, considerata illegittima da molti, di sequestrate i telefoni cellulari dei cittadini straniera in entrata, limitando così fortemente la possibilità di comunicare con il mondo esterno.
Cosa sono i Centri di Permanenza per i Rimpatri
I Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) sono strutture che compaiono in Italia nel 1998 con la denominazione di Centri di permanenza temporanea (CPT). Tra il 2008 e il 2017 vengono trasformati in Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) e, in ultimo, in Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) con le più recenti modifiche legislative (Legge n. 46/2017 di conversione del Decreto legge n. 13/2017).
Si tratta sostanzialmente di strutture in cui vengono trattenuti cittadini stranieri in attesa di essere espulsi ma che non hanno compiuto alcun reato. Quindi questi “ospitano” essenzialmente cittadini stranieri irregolare che subiscono una privazione della libertà personale senza aver violato alcuna legge penale. Le ragioni della permanenza all’interno di questi Centri sono di carattere esclusivamente amministrativo e sono connesse alla gestione delle politiche migratorie da parte del nostro Paese.
La necessità di creare queste strutture nasce a seguito della normativa che è stata pensata in Italia per contrastare o, comunque, governare il fenomeno della immigrazione irregolare. Infatti, quando ragioni attinenti alle politiche migratorie ostacolano l’esecuzione immediata di un provvedimento di espulsione dello straniero, il Questore competente territorialmente ne dispone la permanenza provvisoria all’interno appunto di uno dei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR).
I Centri non sono luoghi di detenzione
I Centri non sono luoghi di detenzioni perché, come abbiamo detto, i cittadini stranieri trattenuti non sono colpevoli di alcun reato e non viene loro contestato la commissione di fatti che possono avere valore dal punto di vista del diritto penale. Per questi è stata allora immaginata una diversa forma di detenzione che è stata appunto definita “amministrativa” proprio per segnare la differenza tra carcere e Centro di permanenza.
La Corte costituzionale con Sentenza n. 105 de 2001 ha però specificato che la detenzione amministrativa è pur sempre una misura che incide sulla libertà personale, al pari di quella detentiva, e, quindi, è soggetta al disposto dell’articolo 13 della Costituzione in base al quale “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Principi confermati dall’art. 5 lett. f CEDU: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti (lett. f: caso di espulsione ed estradizione) e nei modi previsti dalla legge”.
In base alla Costituzione repubblicana e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quindi, i casi in cui è consentito il trattenimento amministrativo presso una struttura siffatta e le modalità di tale trattenimento trovano espressa disciplina nella legge. Da questo punto di vista, nel nostro ordinamento vengono in rilievo gli articoli 13 e 14 del Testo Unico sull’Immigrazione. L’art. 14 comma 2 D. lgs. 286/1998, chiarisce le modalità del trattenimento e dispone che allo straniero trattenuto in un Centro debbano essere assicurati adeguati standard igienico-sanitari e abitativi; l’informazione relativa al proprio status; l’assistenza; il rispetto della sua dignità; la libertà di corrispondenza, anche telefonica, con l’esterno.
Il problema della libertà di corrispondenza all’interno dei CPR.
Proprio con riguardo al diritto di corrispondenza con il mondo esterno, da più parti, sono state sollevate obiezioni rispetto a presunti abusi compiuti all’interno dei CPR italiani. E’ stata oggetto di contestazione soprattutto la prassi di molti Centri di privare i cittadini stranieri, al momento dell’ingresso e per tutta la durata della loro permanenza, della possibilità di utilizzare i propri dispositivi di comunicazione mobile.
Tale prassi in effetti, oltre ad essere stata contestata dagli avvocati dei trattenuti e da diverse associazioni, è stata oggetto delle attenzioni del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
Da ultimo, poi, su ricorso presentato da un cittadino tunisino, anche il Tribunale di Milano si è espresso sulla questione. Ma andiamo con ordine.
A) La posizione del Garante.
Quanto al Garante, va detto che, in una prima raccomandazione del 2016-2017, si era espresso affinché venisse garantita agli ospiti la possibilità di telefonare all’esterno fin da subito, superando ogni difficoltà di ordine burocratico-organizzativo[1].
Successivamente, nel Rapporto sulle visite effettuate nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (2019 – 2020) è intervenuto nuovamente sul punto per sottolineare e chiarire che “La libertà di corrispondenza telefonica è uno dei principi essenziali del trattenimento stabiliti dalla legge ed è strettamente correlata al diritto di difesa, di mantenimento dei vincoli familiari e in generale di comunicazione con il mondo esterno, rimanendo totalmente estranea alla detenzione amministrativa qualsiasi esigenza di isolamento da esso”. In conclusione, il Garante ha evidenziato che l’impossibilità di mantenere la disponibilità dei dispositivi mobili di proprietà dei cittadini stranieri trattenuti appare, pertanto, una limitazione non conforme alla lettera della norma, ingiustificata rispetto alle finalità della detenzione amministrativa.
Si legge nella raccolta di raccomandazioni del Garante Nazionale, “Norme e Normalità – Standard per la privazione della libertà delle persone migranti”, che:
Deve essere garantita agli ospiti dei Centri “la possibilità di telefonare all’esterno fin da subito, superando ogni difficoltà di ordine burocratico-organizzativo che possa ostacolare il pieno esercizio di tale diritto”[2]
“Deve essere garantita alle persone migranti, dal momento in cui sono poste in detenzione amministrativa, la possibilità di comunicare senza restrizioni, sia oralmente – anche mediante l’uso di apparecchi telefonici – che per iscritto, con qualsiasi persona di loro scelta.
Le comunicazioni fra le persone migranti in detenzione amministrativa e il mondo esterno non devono essere sottoposte a controlli o censure, a meno che tali misure siano disposte da un organo giudiziario allo scopo di tutelare interessi pubblici prevalenti”[3].
Sul punto, il Garante Nazionale conclude affermando che, a meno di interventi da parte dell’autorità giudiziaria, non può essere impedito alle persone migranti in detenzione amministrativa l’uso di strumenti di chiamata o videochiamata, anche se collegati con reti telematiche esterne.
B) La giurisprudenza di merito.
Nonostante le indicazioni del Garante Nazionale la questione non ha trovato soluzione e la prassi in voga nei Centri di permanenza di sequestrare i telefonini degli ospiti è continuata nei mesi successivi e continua, in verità ancora oggi, nonostante la recente pronuncia del Tribunale di Milano. Con ricorso depositato in data 29.01.2021, infatti, è stato chiesto al Tribunale di Milano di ordinare ai convenuti (Prefettura e Questura di Milano, nonché l’ente gestore del Centro) di restituire al ricorrente il telefono cellulare di sua proprietà.
Il giudicante chiamato a decidere il ricorso, nel dare ragione al ricorrente, ha offerto un quadro preciso e dettagliato della normativa e della situazione di fatto esistente, partendo proprio con l’evidenziare che, nonostante nell’ordinamento non esistano previsioni espresse volte a limitare il diritto alla corrispondenza del migrante trattenuto (l’articolo 14 co 2 D. Lgs. 286/98 parla di “libertà di corrispondenza” che deve essere “in ogni caso assicurata”), nel corso degli anni si è registrata a più riprese la prassi di confisca del telefono personale, seppure implementata con modalità differenti ed arbitrarie, a seconda dei CPR in cui trova attuazione. Il Tribunale chiarisce inoltre che la limitazione in questione ha trovato conforto soltanto nella Circolare DLCI del 26 marzo 2020, ma non ha alcuna altra base legale[4]. Stando così le cose, alla stregua delle norme legislative e regolamentari, “la libertà di corrispondenza telefonica, diritto fondamentale sancito dall’art. 15 della Costituzione, è espressamente riconosciuta e deve essere garantita anche nel Centro”[5]. Se limitazioni ci possono essere, queste devono trovare giustificazioni in ragioni di ordine pubblico, sicurezza e incolumità delle persone. Ogni altra limitazione, invece, deve essere considerata arbitraria e non corrispondente alle previsioni del nostro ordinamento giuridico. D’altra parte, chiarisce il Tribunale adito che, il rispetto della libertà di corrispondenza comporta necessariamente anche assicurare i contratti con tutta una serie di soggetti, che a vario titolo e per diverse ragioni, hanno diritto ad incontrare la persona trattenuta. In primo luogo proprio il difensore con cui deve essere assicurato un continuo e costante dialogo sia in entrata che in uscita.
Conclusioni
Nonostante la decisione del Tribunale di Milano, la questione è ancora tutta aperta e diversi Centri continuano a sequestrare i cellulari dei trattenuti al momento del loro ingresso.
Lo stesso Centro di Permanenza di Milano, nonostante la decisione citata avrebbe dovuto ottemperare all’ordinanza emessa, di fatto ha aggirato la decisione prevedendo, con modifica del proprio regolamento interno, l’utilizzo del telefono per una decina di minuti con cadenza non quotidiana.
È evidente che, per tutto quanto detto in precedenza, per le argomentazioni portate a sostegno dell’Ordinanza del Tribunale di Milano e, ancor prima, ribadite dal Garante Nazionale nelle sue raccomandazioni, non si può ritenere quest’ultima prassi, rispettosa dei diritti del trattenuto.
Non resta che vedere cosa accadrà nel prossimo futuro consapevoli che saranno necessari ulteriori interventi da parte della giurisprudenza per garantire maggiormente i diritti dei soggetti sottoposti al trattenimento amministrativo all’interno dei Centri di permanenza.
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Note
[1] Rapporto tematico Cie e hotspot 2016-2017
[2] Norme e Normalità – Standard per la privazione della libertà delle persone migranti, pag. 20
[3] Norme e Normalità – Standard per la privazione della libertà delle persone migranti, pag. 109
[4] Sul punto è corretto evidenziare che la circolare richiamata fa riferimento ad un “divieto di detenere negli alloggi i telefoni cellulari”. La conseguenza di tale limitazione è che gli stranieri non hanno alcuna possibilità di mettersi in contatto con chi desiderano, se non attraverso apparecchi comuni utilizzabili tramite schede a pagamento, e soprattutto non possono ricevere chiamate dall’esterno. Ne deriva una seria compressione dei diritti alla corrispondenza (art. 15 Cost.) e alla difesa (art. 24 Cost.), e alla vita privata e familiare (art. 8 Cedu). Inoltre, le limitazioni si riflettono anche sul godimento del diritto all’informazione e all’accesso a internet, considerato “diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo psicofisico”.
[5] Tribunale di Milano – ordinanza 15 marzo 2021 – pag. 9
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