Tribunale di sorveglianza per il distretto della Corte di Appello di Torino, Ordinanza del 06 febbraio 2008

Ordinanza 21/02/08
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REPUBBLICA ITALIANA
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
per il distretto della Corte di Appello di
T O R I N O
 
                                                                                                         N.    SIUS   2007/3178
                                                                                                          
in persona dei Signori:
Dott.          ***************               – Presidente 
Dott.ssa    ****************            – Magistrato di Sorveglianza
Dott.ssa    ********************     – Esperto Componente
Dott.ssa    *************                  – Esperto Componente
Emette la seguente
O R D I N A N Z A
 
all’udienza del     06 febbraio 2008
 
nel procedimento di sorveglianza relativo alla concessione di
AFFIDAMENTO IN PROVA AL SERVIZIO SOCIALE (art. 47, L. n. 354/75)
 
promosso da           D. P. D.
nato a                   il  
detenuto Casa Circondariale di    VERCELLI;
condannato con: Sent. Corte Appello Messina 23.04.2004;
difesoda ****** come in atti;          
VISTO il parere    come da verbale_____ del P.G.;
VISTI gli atti del procedimento di sorveglianza sopra specificato;
CONSIDERATE le risultanze delle documentazioni acquisite, delle investigazioni e degli accertamenti svolti, della trattazione e della discussione di cui a separato processo verbale;
 
O S S E R V A
 
               ********  ha formulato istanza di affidamento in prova al Servizio Sociale ai sensi dell’art. 47 comma 3 della L. 26.07.1975, n. 354, ma tale domanda è inammissibile.
Risulta, infatti, che l’istante si trova attualmente in espiazione di condanna per violazione dell’art. 74,d.p.r. n. 309/90, per fatto commesso nel 1999.
Come è noto, la misura richiesta non può essere concessa, in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter, ord.pen., ovvero di circostanze particolari che integrano la c.d. “collaborazione impossibile o inesigibile”, previste dalla  legge  penitenziaria e dalla giurisprudenza costituzionale, in favore di coloro che
 
 
 
hanno subito condanna per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis, comma 1, prima parte, ord.pen. (Corte cost., 27 luglio 1994 n. 357; Corte cost., 1 marzo 1995 n. 68).
In  particolare,  l’art.  4 bis,  ord.pen., individua due tipologie di condannati, in
rapporto ai reati commessi:
1) una prima fascia involge i condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui all’articolo citato, nonché per i delitti di cui agli artt. 416 bis, 630 c.p., 291quater T.U. 43/73, 74 D.P.R. 309/90;
            2) una seconda fascia comprendente attualmente i condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, ovvero per i delitti di cui agli artt. 575, 628 comma 3, 629, comma 2, 291 ter T.U. 43/73, 416 realizzato allo scopo di commettere i delitti di cui al libro II, titolo XII, capo III, sezione I e dagli artt. 609 bis, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies del codice penale, nonché per il delitto di cui all’art. 73 aggravato nell’ipotesi di cui all’art. 80, comma 2, D.P.R. 309/90.
            In relazione alla prima tipologia di condannati, caratterizzati da un elevatissimo indice di pericolosità, la legge pone il divieto assoluto della concessione di benefici penitenziari (salva la liberazione anticipata) in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter, ord.pen., ovvero nei casi di collaborazione impossibile o inesigibile ovvero oggettivamente irrilevante enucleati in parte dalla stessa norma citata, nella sua più recente formulazione, ed integrati dalla giurisprudenza costituzionale.
In particolare, l’apporto dichiarativo del collaborante deve avere i connotati dell’ utilità e della decisività in rapporto agli accertamenti dei fatti e delle responsabilità degli illeciti commessi (sull’ampiezza della collaborazione utile al riconoscimento della qualità di collaboratore, cfr. Cass. Sez. I, n. 3176 del 26.6.97, ********, CED Cass.:Ai fini della concessione dei benefici penitenziari, l’utile collaborazione non può intendersi limitata ai delitti ostativi a tale concessione, ma è estesa a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati, sicché non è rispondente alla "ratio legis", alla quale sono sottesi un ravvedimento operoso e la volontà di emenda, ammettere l’accesso ai benefici in presenza di una collaborazione parziale da cui dovessero restare esclusi taluni delitti che, pur essendo estranei alla previsione dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, costituiscono elementi di un medesimo piano operativo e forme attuative di criminalità organizzata (Fattispecie relativa alla deliberata omissione di qualsiasi collaborazione, da parte del detenuto – pur occupante una posizione di rilievo nell’associazione criminale – in ordine alle circostanze di fatto relative all’acquisto di partite di droga e al successivo smercio). Per una esemplificazione in tema di delitti concernenti gli stupefacenti: SS.UU. 11.3.99, n. 13, **********, CED Cass.: in tema di reati concernenti le sostanze stupefacenti, non costituiscono presupposto idoneo per il riconoscimento dell’attenuante della collaborazione prevista dal comma 7 dell’art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990,  n. 309,  ammissioni  o   comportamenti  non   conducenti   all’interruzione    del
 
 
 
circuito di distribuzione degli stupefacenti, ma limitati al rafforzamento del quadro probatorio o al raggiungimento anticipato di positivi risultati di attività di indagine già in corso in quella direzione).
Qualora si versi nell’ipotesi di collaborazione riferita a delitti c.d. “associativi”, la condotta di colui che collabora all’individuazione dei correi componenti il sodalizio criminoso rappresenta, per facta concludentia, la prova del distacco del soggetto collaborante dall’organizzazione malavitosa.
Nel caso di specie, non risulta che l’interessato abbia collaborato con l’autorità giudiziaria, né al tempo del processo né successivamente, risultando anzi che abbia rifiutato l’opzione collaborativa adducendo timori per la propria incolumità.
Non è stato, inoltre, allegato dal condannato alcun elemento dal quale possa desumersi la sussistenza delle sopra richiamate fattispecie di “collaborazione inesigibile” che consentirebbero di superare la preclusione posta dalla norma restrittiva dell’art. 4-bis, cit., e tale onere, come ha stabilito consolidata giurisprudenza, incombe sull’interessato (da ultimo, cfr. Cass. Sez. I, 26.10.07, n. 39795, Rv. 237741, Gioco, in CED Cass.).
 La Cassazione, con tale sentenza, torna ad occuparsi di legislazione sui c.d. “collaboratori di giustizia”, affrontando, questa volta, il profilo della preclusione assoluta all’applicazione dei benefici penitenziari, stabilita nei confronti di quei soggetti che – condannati per i delitti di particolare gravità indicati nell’art. 4-bis, comma 1, prima parte, l. 26 luglio 1975, n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario), non hanno collaborato con l’autorità giudiziaria e nei cui confronti non vi è stata la declaratoria di cui all’art. 58-ter, ord. penit. 
In assenza del formale accertamento dell’ avvenuta collaborazione con la giustizia secondo la previsione dell’art. 58-ter, cit. – questo il principio affermato dalla Corte – incombe sull’interessato l’onere di allegazione delle situazioni che, integrando la collaborazione c.d. “impossibile” o “irrilevante” determinano la derogabilità alle preclusioni poste dalla legge penitenziaria.
Il principio sancito dai supremi giudici, che si discosta consapevolmente da altra difforme opinione espressa dalla medesima Sezione in precedenti occasioni, rappresenta un importante arresto su una questione assai controversa nella materia della normativa sui collaboratori e, inserendosi nell’alveo di un orientamento allo stato maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, può dirsi in via di definitivo consolidamento.
L’indirizzo più rigoroso, che pare prevalere nella più recente giurisprudenza, si attesta sull’affermazione della necessità che, nell’istanza volta all’applicazione di un beneficio penitenziario, il condannato prospetti, almeno nelle linee generali, “elementi specifici” circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione, tanto da consentire il superamento delle condizioni ostative all’esame del merito alla luce dei principi espressi nelle sentenze costituzionali n. 306/1993, 357/1994 e 68/1995, poi trasfusi quasi alla lettera nell’attuale versione dell’art. 4-bis, comma 1, prima parte, ord. penit.
Secondo altra pronunzia, pur non contestandosi che, ai fini della prova della collaborazione con la giustizia, sussiste il potere-dovere in capo al giudice di accertare, anche di ufficio, gli elementi qualificanti di tale condotta, alla parte incomberebbe pur sempre l’onere di allegazione e di prospettazione di circostanze idonee a dimostrare l’impossibilità di un’utile collaborazione.
Una volta, infatti, che il giudice abbia rilevato l’inammissibilità della domanda poiché formulata da soggetto che non è titolare della declaratoria di cui all’art. 58-ter, ord.pen.it., non sarebbe anche tenuto a protrarre l’indagine, attivandosi d’ufficio, “per verificare e valutare la sussistenza o meno di circostanze atte a consentire il superamento del requisito della mancata collaborazione oggettivamente sussistente e, come tale, ostativo all’accoglimento della domanda già di per se inammissibile.”
Tutti i precedenti conformi all’indirizzo cui anche questo Tribunale si ispira, inoltre, hanno ribadito il principio che tali elementi devono essere allegati dall’interessato fin dalla originaria istanza di beneficio, a nulla rilevando che detta prospettazione sia offerta una volta esaurito il procedimento di sorveglianza, con la conseguenza che un’eventuale attività integrativa non potrebbe utilmente essere effettuata, per la prima volta, in sede di reclamo avanti al tribunale di sorveglianza.
Diametralmente opposta è la lettura proposta da altro orientamento della medesima Sezione, benché si tratti – come già accennato – di opinione espressa nei più risalenti arresti, e ormai di fatto abbandonata.
Secondo tale ricostruzione, il tribunale di sorveglianza, a fronte della richiesta di benefici penitenziari da parte di condannato per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis, ord.penit., deve verificare d’ufficio, ove non vi sia stato il formale accertamento della avvenuta collaborazione con la giustizia, l’eventuale oggettiva impossibilità o irrilevanza della collaborazione stessa, ai fini del possibile accoglimento, comunque, della summenzionata richiesta, indipendentemente dalle eventuali prospettazioni difensive e, anche nel caso in cui il condannato sostenga di non aver potuto collaborare in quanto innocente del reato ascrittogli. 
In altro arresto, si è fatta derivare la conseguenza che il fatto dell’impossibilità di un’utile collaborazione ai fini della concessione delle misure alternative alla detenzione non deve necessariamente essere oggetto di specifica allegazione da parte dell’interessato in forza della considerazione che, in materia di benefici penitenziari, il tribunale di sorveglianza può e deve procedere, sulla base dell’esame della documentazione agli atti, ai necessari accertamenti anche di ufficio.
            Come è agevole notare, i due orientamenti contrapposti si fondano su una concezione apparentemente diversa del ruolo del condannato-istante nell’ambito del procedimento di sorveglianza di cui all’art. 678, c.p.p.
            Per l’opinione più risalente, invero, l’interessato riveste un ruolo tutto sommato passivo, non interloquisce – né è tenuto a farlo – con il giudice, il quale, vero dominus del processo, verifica e accerta motu proprio ogni profilo ritenuto rilevante nella fattispecie.
            Tale vera e propria “onnipotenza” del giudicante, che si sviluppa tanto nella circoscrizione dell’oggetto del procedimento quanto nella scelta dei mezzi e degli strumenti di accertamento delle condizioni di ammissibilità e di concedibilità de benefici  penitenziari,  è  bilanciata  dalla  facoltà, attribuita all’interessato, di invocare
l’intervento della Cassazione nei confronti di una decisione eventualmente assunta senza che il giudice abbia accertato ogni aspetto rilevante, anche “in negativo” ( è il caso, appunto, della verifica dell’insussistenza della collaborazione “impossibile” o “irrilevante”).
            Secondo l’orientamento più recente, ribadito dalla citata giurisprudenza, i rapporto giudice-parte si svilupperebbe su un piano maggiormente dialogico, laddove, pur residuando in capo al primo estesi poteri officiosi, sull’istante incombe il c.d. “onere di prospettazione” dei temi rilevanti nel procedimento, sui quali si costruisce l’impianto decisorio.    
            Si tratta di una ricostruzione armonica con il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di esecuzione penale, all’istante non incombe un onere probatorio in senso stretto, essendogli piuttosto fatto carico di allegare alla domanda l’indicazione di quegli elementi da cui il giudice possa trarre spunto per le acquisizioni istruttorie ritenute necessarie ai fini della decisione, di tal che l’organizzazione del procedimento, sotto il profilo istruttorio, risulta contraddistinta dall’onere di prospettazione che grava sulla parte, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi alla autorità giudiziaria  il compito di procedere ai relativi accertamenti.
            Ed effettivamente tale lettura trova conforto nel disposto normativo, atteso che l’art. 666, comma 5, c.p.p., applicabile al procedimento di sorveglianza giusta il disposto dell’art. 678, c.p.p., non pone a carico dell’interessato alcun onere probatorio, bensì, appunto, un mero onere di allegazione, nei termini sopra precisati. 
            Ne deriva che, non essendovi ragioni per opinare il contrario, tale principio deve ritenersi correttamente applicato anche nell’ambito della cognizione attribuita alla magistratura di sorveglianza in tema di legislazione speciale per i collaboratori di giustizia.
             Dalla lettura dell’art. 58-ter, ord.penit., infatti, si desume che le condotte collaborative "sono accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni” di tal che se ne deve desumere la sussistenza di un potere-dovere del giudice di sorveglianza di esercitare i propri poteri istruttori per acquisire i dati probatori necessari alla decisione.                                                
            Peraltro, dall’esame della sentenza di condanna, emerge che il soggetto, lungi dal rivestire una posizione di minimo rilievo nell’organizzazione criminale, era il “braccio desto” del promotore, fornendo un contributo rilevante alla vita del sodalizio criminoso.
Per tali motivi, dovendosi ritenere l’istante in espiazione di condanna per reati assolutamente ostativi alla concessione dei benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia, e non potendosi riconoscere in capo all’interessato la situazione riconducibile alla collaborazione c.d. “impossibile” o “inesigibile”, ne consegue l’inammissibilità dell’istanza ai sensi dell’art. 4-bis, ord.pen. 
 
 
P.Q.M.
 
Visti gli Artt. 4-bis, 47, 58-ter  della Legge 26.07.1975, n. 354, 677 e segg. del c.p.p.;
 
DICHIARA   INAMMISSIBILE
 
l’istanza.
Torino, così deciso il 06 febbraio 2008
 
 
                                                                                                              IL PRESIDENTE      
                                                                                                     (*******************)   
 
 
 

Ordinanza

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