Indice
- Il principio di capacità contributiva
- Applicabilità del principio della capacità contributiva
- Servizi divisibili e indivisibili
- La natura della carbon tax
- Natura precettiva e diretta efficacia
- Interesse Fiscale e tassazione ambientale
- Teorie della capacità contributiva
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1. Il principio di capacità contributiva
Il punto che occorre ora approfondire è che ha suscitato un vivace dibattito dottrinale, è quello relativo all’inquadramento giuridico-costituzionale dei tributi ambientali. Sul punto si registrano tesi diametralmente opposte da parte di autorevoli autori[1].
Gli elementi di discordanza riguardano, la qualificazione giuridica dei predetti tributi e, più in particolare, se essi siano omologabili tra le tasse o tra le imposte.
Il secondo, e più rilevante problema, è quello relativo alla loro compatibilità con il principio della capacità contributiva. Su quest’ultima problematica – che ai fini della presente indagine appare sicuramente «centrale» – il dibattito ha assunto toni addirittura aspri che hanno evidenziato posizioni dottrinali nettamente contrapposte «figlie», evidentemente, di culture ideologiche giuridiche di «segno» opposto.
La capacità contributiva è un principio fondamentale, espressamente sancito dall’art. 53 della Costituzione, che può avere due significati: dal punto di vista dello Stato, significa che le leggi tributarie non devono colpire fatti che non siano espressivi di capacità contributiva; dal punto di vista del contribuente, è una garanzia, in quanto il contribuente non può essere sottoposto all’imposizione, se non in presenza di fatti che esprimono capacità contributiva.
La tradizionale nozione di capacità contributiva come capacità economica qualificata, prevede una misurazione della stessa con il metro della (incidenza della tassazione sulla) proprietà; i tradizionalisti sono, perciò, favorevoli ad una forte limitazione della discrezionalità del legislatore tributario a garanzia della persona del contribuente; e coloro che, nel valorizzare la nozione di tributo in senso distributivo, non enfatizzano il criterio di appartenenza proprietaria e si affidano, invece, ai richiamati principi di ragionevolezza, coerenza e proporzionalità del sistema tributario, non riconoscono altri limiti alle scelte di riparto del legislatore che non siano quelli derivanti dall’applicazione di tali principi e dalla misurabilità economica dei presupposti[2].
I fautori della ricordata tesi non chiariscono sufficientemente e, comunque, in modo convincente quale sarebbe il collegamento tra il principio di capacità contributiva, inteso come capacità economica qualificata, e il principio del “concorso doveroso” alle pubbliche spese, ambedue enunciati nel primo comma dell’art. 53 Cost. Sembra, infatti, non del tutto soddisfacente e per certi versi contraddittorio, da una parte, accettare senza riserve la giustificazione del prelievo tributario in un’ottica distributiva e in termini di dovere sociale e di solidarietà; dall’altra, attribuire nel contempo alla capacità contributiva la funzione di limite oggettivo e indeclinabile al riparto medesimo, individuando tale limite assoluto nel solo fatto che manchi nel presupposto d’imposta la disponibilità patrimoniale sufficiente a pagare il tributo. In questa ottica, la capacità contributiva, assunta in termini soggettivi quale garanzia della “persona”, si traduce in termini oggettivi in un limite di natura patrimoniale che vieterebbe al legislatore fiscale di far concorrere alle pubbliche spese quei soggetti che, pure essendo titolari di rilevanti posizioni di vantaggio economicamente valutabili, tuttavia non hanno la suddetta disponibilità patrimoniale perché non hanno posto in essere un presupposto contenente in sé entità patrimoniali.
L’obbligazione tributaria è un’obbligazione monetaria e quindi vi deve essere un collegamento con un fatto economico, ossia un fatto che esprime “forza economica” (si pensi ad esempio al reddito, al patrimonio, ai consumi, ai trasferimenti ecc.).
Per minimo vitale, come detto, si intende che non può formare oggetto di prelievo tributario quel minimo di capacità economica necessario a soddisfare le esigenze primarie dell’individuo. Il “principio del minimo vitale” si afferma come riconoscimento della preminenza dei valori fondamentali dell’individuo o, in un’ottica più generale, del suo nucleo familiare, sostanziandosi in tal caso nelle c.d. “detrazioni per carichi di famiglia”[3].
In riferimento alla capacità contributiva quale limite al potere impositivo, sussistono infatti ad oggi due differenti teorie:
1) quella che individua il principio di capacità contributiva quale limite assoluto;
2) quella che individua il principio di capacità contributiva quale limite relativo alle scelte del legislatore.
Secondo i sostenitori della teoria della capacità contributiva quale limite assoluto, sono espressivi di capacità contributiva quei fatti o quelle situazioni che rivelano direttamente od indirettamente l’esistenza di una ricchezza in capo al contribuente. Il reddito, il patrimonio, i consumi sono indici di capacità contributiva, perché sono indici da cui direttamente o indirettamente si desume la ricchezza dei singoli. Un prelievo può esistere solo laddove vi sia ricchezza, laddove vi sia una fonte economica. Tale tesi, connessa all’art. 2 Cost., identifica la capacità contributiva con la titolarità di situazioni giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale, scambiabili sul mercato, che consentano in sé di estinguere l’obbligazione tributaria.
I sostenitori della teoria della capacità contributiva come limite relativo, invece, ragionano nella logica dell’art. 3 Cost., sposando un’ottica meramente distributiva. Ritengono che siano espressivi di capacità contributiva tutti quei fatti o quelle situazioni che siano in grado di “modificare la posizione” del consociato all’interno dell’ordinamento e che quindi possano essere soggetti passivi d’imposta anche coloro che pongono in essere presupposti socialmente rilevanti, purché espressivi di una capacita differenziata economicamente valutabile[4]. L’art. 53 Cost. avrebbe quindi una funzione di riparto e si limiterebbe ad imporre criteri distributivi equi e ragionevoli, che possono essere anche fatti non patrimoniali, purché naturalmente rilevabili e misurabili in denaro, senza che il presupposto contenga necessariamente in se la disponibilità economica per far fronte all’obbligazione tributaria.
Tali tesi, come ribadito all’inizio del presente paragrafo, sono anche strettamente connesse al rapporto tra l’art. 53 Cost. e il diritto di proprietà. Si tratta di un tema riconducibile ad una questione teorica di più ampia rilevanza: se i sistemi fiscali devono essere neutrali nei confronti del mercato ed essere rispettosi della persona quale titolare di fondamentali e naturali diritti di proprietà.
Secondo la teoria della capacità contributiva come limite assoluto, l’53 Cost. non può comprimere il diritto di proprietà dell’individuo, ma costituisce un limite al potere d’intervento del legislatore tributario per tutelare il diritto di proprietà stesso. Conseguentemente, l’imposta non potrebbe mai avere carattere espropriativo o comunque eccessivamente pregiudizievole per il diritto di proprietà. Esisterebbe dunque un limite massimo all’imposizione tributaria, nel senso che una determinata capacita contributiva, anche per effetto del concorso di imposte di diversa natura, non dovrebbe superare una “quota” del reddito complessivo del soggetto (talvolta identificata nel 50% del reddito complessivo, sulla base di una, non univoca, giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca) pena una vera e propria “natura espropriativa del prelievo”[5].
Secondo i sostenitori della capacità contributiva come limite relativo, la proprietà non è un diritto naturale intoccabile che preesiste all’intervento statale, bensì costituisce frutto di un riconoscimento dello Stato, dovendo dunque i diritti di proprietà “cedere” rispetto agli obiettivi solidaristici dell’ordinamento costituzionale.
La sua posizione, è stata nel corso del tempo oscillante, anche se parrebbe potersi individuare un progressivo spostamento vero la tesi della capacita contributiva come limite “relativo”.
2. Applicabilità del principio della capacità contributiva
Venendo alla prima questione (relativa alla natura del tributo), alcuni autori ritengono che il tributo ambientale abbia natura commutativa – e, dunque, catalogabile tra le tasse – con conseguente non applicabilità del il principio di capacità contributiva[6].
Altra «corrente» dottrinale ritiene, viceversa, di classificare il tributo predetto tra le imposte sottolineando, altresì, la piena rispondenza di esso al citato principio costituzionale[7].
Da questa premessa si intravede, in maniera evidente, la peculiarità della problematica che appare, come abbiamo già osservato, di sicuro interesse per l’interprete e, in genere, per i cultori e pratici del diritto tributario. Per tale ragione riteniamo di dover alimentare il dibattito dottrinale con l’auspicio di fornire ulteriori spunti di riflessione.
Va precisato, in via preliminare, che i tributi ambientali sono riferiti a rifiuti, scarichi ovvero emissioni di rumori o di gas inquinanti derivanti, principalmente, dalle attività d’impresa e professionali, purché «eco-sostenibili»; il tributo non si riferisce, cioè, ad attività produttive che generano i predetti residui non consentiti dalla legge e, come tali, soggetti all’applicazione di sanzioni sia amministrative che penali (vedi Titolo VI-bis del codice penale recante Dei delitti contro l’ambiente): sarebbe infatti antigiuridico congegnare un tributo come uno strumento di finanziamento del servizio di risanamento ambientale. Il primo interrogativo che si è posto l’interprete è stato quindi quello di inquadrare correttamente la nozione giuridica di tributo ambientale a livello sia nazionale che comunitario.
Il tributo viene corrisposto dal produttore a favore dell’ente pubblico affinché quest’ultimo effettui tutte quelle attività dirette ad evitare, e quindi a prevenire, che i residui determinati dall’attività prodotta producano negativi effetti ambientali.
Tradizionalmente si è inteso qualificare ambientali solo quei tributi «costruiti» dal legislatore secondo il principio comunitario del «chi inquina paga»[8] e, comunque, in modo da ricomprendere nel loro presupposto lo stesso fattore inquinante, e cioè lo stesso evento che produce il danno ambientale. Un tributo per essere qualificato ambientale, deve quindi essere caratterizzato dall’esistenza di un nesso di interrelazione tra lo svolgimento di un’attività professionale (d’impresa o arte e professione) ed il danno causato all’ambiente che, è utile ribadirlo, deve essere reversibile; in caso contrario la legge non potrebbe prevederne la tassazione trattandosi di un fatto penalmente perseguibile. Gli studi condotti a livello dell’Unione europea, pur senza definire il danno ambientale, hanno sottolineato che esso non deve generare un danno che non sia realmente reversibile; in caso contrario, come abbiamo appena precisato, al produttore del danno medesimo non potrebbero che essere inflitte sanzioni penali ed amministrative e queste ultime non potrebbero avere natura tributaria essendo necessario vietare e reprimere senz’altro le produzioni e/o i consumi che cagionano un deterioramento ambientale non sostenibile[9].
Gli studi comunitari hanno avuto certamente il pregio di operare una distinzione tra il tributo strutturalmente ambientale (tributo ambientale in senso stretto) che incorpora, nella fattispecie tributaria, la finalità di protezione dell’ambiente e il tributo con mera funzione ambientale il quale persegue una finalità extrafiscale, quale è l’internalizzazione dei costi ambientali, senza che ciò rilevi ai fini della ricostruzione in termini ambientali del presupposto impositivo. La definizione che si è data prima ricade nella prima delle ipotesi indicate.
La «politica» comunitaria, in relazione al tributo in parola, è chiaramente diretta a perseguire una razionalizzazione ed omogeneizzazione della tassazione ambientale, ancorché i singoli stati membri mantengano il potere discrezionale di scegliere le metodologie e i principi attraverso cui armonizzare la propria legislazione fiscale. Resta tuttavia fermo il principio secondo cui i singoli paesi sono tenuti ad esercitare la propria sovranità tributaria a condizione di non adottare diversificazioni che si traducano in discriminazioni, di non accordare aiuti e sussidi statali che alterino il corretto funzionamento del Mercato Unico[10].
In ambito comunitario l’istituto del «tributo ambientale proprio» è definito come quel tributo caratterizzato da una relazione diretta tra l’unità fisica espressiva del deterioramento ambientale ed il presupposto della fattispecie tributaria. Lo studio e l’elaborazione di un sistema di fiscalità ambientale, anche locale, rende necessaria, in primo luogo, la definizione dei limiti, nazionali e comunitari, entro i quali può essere esercitata la potestà tributaria degli Enti territoriali interessati (in particolar modo le regioni) per i quali appare fondamentale l’individuazione dei margini entro i quali essi possono esercitare la propria autonomia tributaria, nel rispetto dei vincoli di coordinamento con la potestà nazionale ed europea[11].
Dalle considerazioni che precedono, possiamo tentare di definire la fiscalità ambientale come il complesso dei tributi, tariffe, canoni, contributi e qualunque altra prestazione imposta dovuti dal produttore inquinatore ovvero dall’utilizzatore al fine di contribuire a prevenire, eliminare o ridurre una determinata attività inquinante[12]. Il tributo ambientale è pertanto finalizzato ad evitare, o quantomeno a ridurre alla «fonte», l’effetto dannoso di attività produttive e di consumo aventi un impatto negativo sull’ambiente (produzioni inquinanti, consumi di prodotti inquinanti o consumi di risorse naturali scarse); trattasi, in definitiva, di un tributo di scopo che può peraltro riverberarsi sui prezzi dei prodotti inquinanti, e quindi incidere il consumatore finale sempreché, beninteso, questi sia disposto ad acquistare i beni e servizi sui quali il produttore ha «trasferito» l’importo del tributo.
Un tipico tributo ambientale è stato, nel recente passato, la c.d. carbon tax istituita alla fine dell’anno 1998[13] con il fine di recare modifiche alla disciplina della tassazione dei prodotti energetici rimodulando, altresì, le aliquote delle accise sugli oli minerali, al fine di ridurre le emissioni di anidride carbonica, in ottemperanza ai principi contenuti nel Protocollo di Kyoto. Si procede all’analisi della prospettiva italiana
La carbon tax costituiva un’imposta sui consumi di carbone, coke di petrolio e bitume di origine naturale emulsionato con il 30 per cento d’acqua (orimulsion), impiegati nei grandi impianti industriali di combustione con potenza termica nominale pari o superiore a 50 megawatt. Il prelievo di cui trattasi doveva considerarsi, oltreché un’imposta di fabbricazione non armonizzata, un’imposta ambientale in senso proprio, in quanto avente un presupposto, costituito dal consumo di beni inquinanti, fortemente connotato in senso ambientale. Detto tributo ha costituito sicuramente uno dei principali strumenti di fiscalità ambientale che il nostro ordinamento abbia adottato risultando aderente al citato principio del «chi inquina paga» ed è stato abrogato nell’anno 2007[14] per effetto della Direttiva n. 2003/96/CE la quale ha previsto la tassazione nell’ambito delle accise armonizzate a livello comunitario anche del carbone, del coke di petrolio, della lignite, degli oli vegetali, del gas naturale, dell’energia elettrica, ecc., prodotti non compresi tra quelli armonizzati del 1992.
Il comma 3 dell’art. 21 della direttiva citata, prevede che i prodotti energetici individuati nel comma 1, diversi da quelli per i quali il comma 2 prevede una specifica aliquota di accisa, siano soggetti a vigilanza fiscale. Laddove i prodotti energetici del comma 3 vengano utilizzati o siano destinati ad essere utilizzati o messi in vendita come carburante per motori o combustibile per riscaldamento, sono sottoposti ad accisa in relazione al loro uso secondo l’aliquota prevista per il carburante per motori o il combustibile per riscaldamento equivalente. Dal solo punto di vista fiscale si chiarisce che per combustibile o carburante equivalente si intende quello che può essere sostituito nel particolare impiego al prodotto di che trattasi. Il criterio dell’equivalenza in parola trova applicazione anche rispetto a qualsiasi prodotto, diverso dai prodotti energetici di cui al comma 1 dell’art. 21, che venga impiegato come carburante per motori o additivo o per accrescerne il volume finale nonché rispetto ad ogni idrocarburo, diverso dai prodotti energetici suddetti, con esclusione della torba, impiegato come combustibile per riscaldamento, identificando, dunque, il tributo come imposta.
Tra i principali tributi ambientali attualmente in vigore nel nostro Paese citiamo la tares, il tributo provinciale per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell’ambiente, il tributo speciale per il conferimento dei rifiuti in discarica, la tariffa per la raccolta e la depurazione delle acque di rifiuto, l’imposta sulle emissioni di anidride solforosa e l’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili.
Sulla scorta di quanto affermato nel primo e nel secondo paragrafo, occorre precisare che la norma della Direttiva Dir. 12-07-2016, n. 2016/1164, poi, confligge altresì con il principio di capacità contributiva, riconosciuto dalla Corte di giustizia, quale species del principio europeo di eguaglianzae che prende le mosse dalle “tradizioni costituzionali” di Stati membri fondatori delle Comunità come la Francia, l’Italia, la Germania. È annoverabile fra i principi generali dell’Unione e risulta, perciò, dotato di portata giuridica precettiva a tutti gli effetti, ancorché non recepito in un articolato normativo[15].
A questo proposito, è appena il caso di rilevare che il principio europeo di parità di trattamento impone che “situazioni paragonabili non siano trattate in maniera diversa (…), a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato” e che, di conseguenza, “situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale[16].
3. Servizi divisibili e indivisibili
Le imposte sono destinate a finanziare quelle spese che la dottrina tributaria definisce “indivisibili”, nel senso che vanno a finanziare servizi rivolti alla pluralità dei cittadini.
A differenza delle imposte, le tasse devono quindi finanziare le cosiddette “spese divisibili”, ovvero quelle spese che sono destinate a finanziare specifici servizi rivolti ai cittadini.
Le imposte sono prelevamenti coattivi di ricchezza operati dallo Stato ai cittadini al fine di finanziare le cosiddette spese indivisibili (ovvero quelle per le quali non è possibile stabilire l’effettivo utilizzo da parte di ciascuno: si pensi all’istruzione o alla sicurezza); le tasse, invece, sono prelevamenti di ricchezza imposti ai cittadini sulla base di un provvedimento, bene o servizio pubblico effettivamente richiesto/utilizzato dai cittadini medesimi e che vanno a finanziare le cosiddette spese divisibili (si pensi alla raccolta ed allo smaltimento dei rifiuti).
4. La natura della carbon tax
Dobbiamo ora affrontare il primo interrogativo diretto ad accertare se il tributo de quo (la carbon tax)debba essere annotato tra le imposte o tra le tasse.
È ben noto che carattere fondamentale dell’imposta è quello di non essere correlata ad una specifica prestazione resa dall’ente pubblico, e ciò per effetto della natura «indivisibile» delle prestazioni da esso rese (generalis ratio contribuendi); è tuttavia evidente che la nozione, che dall’obbligo al concorso alle spese pubbliche potrebbe (facilmente) ricavarsi, risulterebbe fuorviante giacché il dovere di ciascun contribuente di partecipare alle pubbliche spese è comune a qualunque tipologia di tributo. È altresì noto che il concorso alle spese pubbliche è subordinato all’esistenza di una capacità contributiva in capo al singolo contribuente. L’imposta può quindi essere definita come una prestazione patrimoniale coattiva dovuta da ciascun componente di una collettività organizzata a favore dell’ente pubblico al verificarsi di un presupposto e destinata, l’imposta medesima, a sostenere in modo indivisibile le spese dell’ente dirette a soddisfare i bisogni della collettività. Da tale definizione deriva che la funzione di detto tributo può essere ricondotta ad una funzione-scopo in quanto costituisce lo «strumento» giuridico utilizzato dall’ente, in aderenza al principio di cui all’art. 53 Cost., necessario per lo svolgimento della sua peculiare attività di prestatore di pubblici servizi che l’ente medesimo è tenuto ad espletare per la stessa esistenza ed il regolare funzionamento dello Stato[17]. Ne deriva che il rapporto d’imposta è caratterizzato, oltreché dal potere di supremazia dell’ente pubblico che gli consente di richiedere una prestazione patrimoniale, dal suo dovere – e quindi non solo potere – di incamerare quelle somme (rectius, tributi) necessarie per l’esistenza stessa di un’organizzazione di una collettività. Il tributo viene quindi ad identificarsi in base ai seguenti elementi caratteristici e concorrenti:
- depauperamento della ricchezza del soggetto passivo d’imposta;
- coattività della richiesta della prestazione patrimoniale da parte dell’ente pubblico impositore;
- mancanza del rapporto di sinallagmaticità;
- destinazione i servizi pubblici indivisibili.
Dalla definizione del concetto di imposta e dai suoi elementi caratteristici, può altresì ricavarsi che la sua «struttura» si fonda essenzialmente sull’esistenza di una ricchezza, che ne costituisce il presupposto, nonché sulla relazione intercorrente tra la ricchezza medesima ed il soggetto tenuto alla contribuzione che ne diviene, quindi, debitore[18].
A differenza dell’imposta, il pagamento della tassa è correlato a determinate prestazioni rese dall’ente pubblico a favore del contribuente. E difatti la tassa è stata definita una prestazione pecuniaria che il soggetto passivo d’imposta è tenuto a corrispondere all’ente pubblico in relazione alla fruizione di un servizio pubblico o di un’attività divisibile pubblica (amministrativa o giurisdizionale)[19] ad esso diretto.
La peculiarità di questo tributo è quella di possedere i «connotati» di corrispettivo – ancorché nella generalità dei casi sproporzionato – dei benefici ricevuti dall’ente pubblico. Ed è appunto per tale motivo che l’interprete potrebbe essere (erroneamente) indotto ad escludere la tassa dal novero dei tributi. Ma tributi è concetto più generale Non ci sembra il caso di dilungarci ulteriormente su un tema ben conosciuto dai cultori del diritto tributario. È tuttavia opportuno rimarcare che le imposte, come abbiamo già osservato, sono dovute da ciascun membro della collettività per la sola esistenza del presupposto (manifestazione di ricchezza fiscalmente rilevante) e non sono collegate ad alcun beneficio ricevuto dall’ente pubblico; la tassa, invece, ha come presupposto essenziale l’esistenza di un nesso “sinallagmatico” tra prestazione ricevuta e somma (tassa) dovuta all’ente-prestatore[20].
Dalle sintetiche osservazioni che precedono si evince che il tributo ambientale in genere non presenta alcuna natura commutativa giacché il medesimo è dovuto all’ente pubblico affinché quest’ultimo effettui una prestazione a favore dell’intera collettività diretta ad evitare i negativi effetti prodotti dai residui, scarti, ecc. di un’attività all’ambiente: il tributo non può quindi che essere classificato tra le imposte[21].
5. Natura precettiva e diretta efficacia
Secondo l’OCSE sono da considerare strumenti economici per la tutela dell’ambiente “tutte quelle misure che incidono sulle scelte tra diverse alternative tecnologiche o di consumo, attraverso la modificazione delle convenienze in termini di costi e benefici privati”[22].
In particolare, stando a tale nozione, l’OCSE distingue almeno cinque categorie di strumenti economici volti alla tutela ambientale, e precisamente:
a) tasseo imposte e tariffe, che possono avere funzione dis/incentivante o di gettito o entrambe;
b) sussidi, che hanno funzione di aiuto finanziario per incoraggiare misure o attività volte alla riduzione dell’inquinamento;
c) depositi cauzionali, che consistono in sovrapprezzi sulla vendita di prodotti inquinanti che possono essere restituiti nel caso di raccolta e riciclaggio dei prodotti;
d) penalità, e altre misure di deterrenza (fideiussioni, performance bonds) applicabili ai soggetti che svolgono attività inquinanti;
e) permessi negoziabili, e altri interventi sul mercato, volti a limitare le produzioni inquinanti ovvero a favorire processi di innovazione produttiva verso procedure con minore impatto ambientale.
In base a tale classificazione[23] la tassazione ambientale è posta sullo stesso piano degli altri strumenti economici (sussidi, depositi cauzionali, permessi negoziabili) ed appare perciò relegata ad un ruolo sostanzialmente marginale a causa della sua natura, per di più equiparandosi – in termini di efficacia ambientale – gli strumenti tariffari a quelli tributari. In ogni caso la tassazione ambientale non va oltre il ruolo di strumento per il reperimento di risorse finanziarie per l’ambiente (ruolo che può sicuramente essere svolto con maggiore efficacia dalla tariffa – nella sua accezione di prezzo pubblico – piuttosto che dall’imposta o dalla tassa) o di tributo disincentivante, concorrente con gli altri strumenti economici ad indirizzare le scelte dei consumatori[24].
Nello schema OCSE non si prevede l’utilizzo dello strumento tributario come misura direttamente volta alla tutela dell’ambiente considerato di per sé come bene protetto. In effetti, il predetto schema si limita ad utilizzare lo strumento tributario come una delle tante misure che possono consentire di “internalizzare” le cosiddette “esternalità” ambientali, e cioè di agire sul costo dei prodotti inquinanti (con imposte sulla fabbricazione o sui consumi) al fine di indirizzare le scelte dei consumatori. Il fine ambientale rimane una finalità politico-sociale del tributo, finalità extrafiscale esterna al suo presupposto. Ciò comporta le seguenti riflessioni.
Tale riduttiva considerazione dello strumento tributario può agevolmente comprendersi, considerando l’estrema difficoltà in sede OCSE di pervenire ad una visione minimamente unitaria dei tributi ambientali utilizzati dai Paesi aderenti.
Sotto tale profilo, è facile avvedersi[25] che esiste una completa disomogeneità nell’utilizzo dello strumento tributario come misura economica a tutela dell’ambiente. Anche nei settori che, secondo la comune opinione, dovrebbero formare oggetto di interventi fiscali non vi è concordanza fra i Paesi OCSE: così, ad esempio, non tutti i Paesi OCSE differenziano la misura dell’imposta di fabbricazione sulla benzina in ragione della presenza o meno di piombo (tale differenziazione non esiste in Canada, Grecia, Giappone e USA); ovvero pochi Paesi applicano tributi (imposte di fabbricazione od accise) sul CO2, SO2 o NOx (quest’ultima, ad esempio, è applicata solo in Francia, Olanda e Svezia)[26]; o ancora, lo smaltimento dei rifiuti urbani od industriali non è uniformemente colpito da un prelievo tributario o tariffario (ad esempio, nessun prelievo risulta applicato in Lussemburgo, Messico e Nuova Zelanda).
La verità è che, come sopra si accennava, non sussiste nei Paesi OCSE (e dunque nei Paesi più industrializzati del pianeta) la convinzione che il tributo possa costituire in sé uno strumento di tutela ambientale. Il tributo è considerato al pari di altri strumenti economici come una misura utilizzabile per finalità di tutela ambientale. Ciò significa – come accennato – che la tutela ambientale rappresenta solo una funzione politico-sociale a cui può essere piegato un tributo: una volta individuato un tributo (sia esso un’imposta di fabbricazione, un’accisa, un’imposta di consumo, od altro) viene ad esso attribuita funzione ambientale, agendo o sulla destinazione del gettito o sulla misura (aliquota, prevalentemente) del tributo. Chiaramente la funzione economico-ambientale rimane estranea al presupposto del tributo, rilevando solo come finalità extrafiscale, configurandosi solo un tributo di scopo.
Stando al panorama che emerge dalle elaborazioni OCSE, sembra potersi affermare che prevalentemente non esistono nel mondo tributi ambientali, ma solo tributi con funzione ambientale[27] . Anticipando considerazioni che saranno più ampiamente svolte in seguito, si può affermare che fino a che il tributo ambientale viene visto dal lato della sua funzione politico-sociale di strumento di tutela ambientale, il bene ambiente rimane necessariamente estraneo alla fattispecie tributaria, al presupposto del tributo, potendo solo configurarsi tributi di scopo, ovverosia tributi che, rispondendo nella loro costruzione giuridica solo a canoni tributari, perseguano anche finalità extrafiscali di tutela dell’ambiente.
La situazione cambia completamente se si ha riguardo agli studi condotti dall’Unione europea e, in particolare, alle risoluzioni del Consiglio del 1987 e del 1993 e al Libro Bianco di Delors su “Crescita, competitività e occupazione”[28].
Innanzitutto, l’Unione europea pone l’accento sulla possibilità di utilizzare la tassazione ambientale come strumento di promozione dell’occupazione. Partendo dalla constatazione dell’uso insufficiente delle risorse di lavoro e dell’uso eccessivo delle risorse naturali, la tassazione ambientale, spostando la pressione fiscale dalle persone all’ambiente, potrebbe promuovere un’inversione di tendenza. Il ragionamento di Delors è molto semplice: l’utilizzo di strumenti portatori di uno sviluppo sostenibile – come riciclaggio, biotecnologie, energie rinnovabili – dovrebbe favorire l’occupazione; contemporaneamente la pressione fiscale sul lavoro dovrebbe essere alleggerita in proporzione al maggior prelievo fiscale sull’ambiente. La conseguenza di tale politica redistributiva dovrebbe essere la promozione di un circolo virtuoso, in grado di raggiungere come risultato il “doppio dividendo”[29] della protezione dell’ambiente e dell’aumento dell’occupazione.
Ma ciò che maggiormente interessa indagare in questa sede sono gli studi europei volti ad individuare la definizione generale in via teorica di tributo ambientale.
Al riguardo, la Commissione discute innanzitutto quali potrebbero essere gli indicatori per classificare un tributo come ambientale, osservando che essi potrebbero essere individuati:
– nell’imponibile: per cui la base materiale sulla quale la tassa è riscossa deve avere sull’ambiente un impatto negativo scientificamente verificabile;
– nell’azione incentivante: per cui la tassazione potrebbe agire come incentivo economico per il miglioramento ambientale;
– nello scopo dichiarato: per cui la volontà politica del legislatore è il miglioramento ambientale (per esempio, un obiettivo dichiarato e scritto nella stessa legislazione fiscale).
E giustamente la Commissione conclude che solo il primo (l’imponibile) può essere ritenuto un indicatore efficace; sia l’azione incentivante che lo scopo dichiarato sono fattori esteriori, non oggettivi, dipendendo dalle aspettative e dai giudizi soggettivi della collettività.
Di conseguenza, secondo la Commissione “una tassa rientra nella categoria delle tasse ambientali se l’imponibile è una unità fisica (o un suo sostituto o derivato) di qualcosa di cui si abbia prova scientifica di effetti negativi sull’ambiente quando è usato o rilasciato”. Per impatto negativo sull’ambiente va inteso un deterioramento di beni ambientali finora liberi, oppure, una riduzione della offerta di tali beni. L’unità fisica di riferimento potrebbe essere una unità di sostanza emessa, oppure, una unità sostitutiva o consequenziale per emissioni (per esempio 1 litro di benzina consumato in un motore standard oppure un veicolo con certe caratteristiche di emissioni), oppure una unità di specifiche risorse naturali (ad esempio di acqua dolce).
Perché si possa avere un tributo ambientale è, dunque, necessario – secondo la Commissione europea – che vi sia una relazione causale fra l’unità fisica, che determina uno specifico deterioramento o danno scientificamente dimostrato dell’ambiente, e l’”imponibile” del tributo (stando alla terminologia utilizzata dalla Commissione).
Sulla base di tale nozione generale la Commissione europea ha proceduto a tracciare un quadro della tassazione ambientale che potrebbe essere attuabile in tutti i Paesi dell’Unione, distinguendo innanzitutto – all’interno dei pagamenti obbligatori connessi con l’ambiente – fra:
– tasse (alias, imposte): pagamenti che non sono associati ad un flusso, non ricambiato, di ritorno di beni o servizi;
– tariffe (e/o tasse): pagamenti che sono associati ad un flusso, ricambiato, di ritorno di beni o servizi.
In secondo luogo, ha proceduto a distinguere in base al tipo di imponibile considerato fra tasse (tributi) ambientali sull’inquinamento e tasse (tributi) ambientali sui prodotti:
– nelle prime (imposte/tasse ambientali sull’inquinamento) l’imponibile è una unità fisica di uno specifico inquinante (ad esempio SO2) calcolata misurando le emissioni inquinanti o in base ad una stima del potenziale inquinante;
– nelle seconde (imposte/tasse ambientali sui prodotti) l’imponibile non è una unità di emissioni di uno specifico inquinante, ma una unità fisica di una risorsa, di un bene o di un prodotto che ha una qualche relazione con il deterioramento o danno dell’ambiente in senso generale (così come avviene quando è rilasciata o viene consumata).
Tali elaborazioni hanno portato la Commissione a redigere uno schema di tassazione ambientale, sotto forma di questionario, per verificare la sua adottabilità da parte dei Paesi dell’Unione.
Non solo la Commissione ha chiaramente distinto fra tasse (imposte) e tariffe (prezzi) ambientali, ma, nel tentativo di dare una definizione generale di tributo ambientale che possa essere accolta da tutti i Paesi dell’ Unione Europea, ha posto l’accento sulla relazione causale che deve sussistere fra il tributo e l’unità fisica che determina un deterioramento scientificamente dimostrato del bene ambientale.
6. Interesse Fiscale e tassazione ambientale
La ricostruzione fatta dalla Commissione europea in materia di tassazione ambientale rappresenta un passo avanti rispetto alle indicazioni che erano emerse in sede OCSE[30].
Se si esamina la definizione di tributo ambientale data dalla Commissione europea – sostituendosi all’atecnica espressione “imponibile della tassa”, la più tecnica locuzione “presupposto del tributo” – è facile avvedersi che per la prima volta si parla del tributo ambientale come di un tributo caratterizzato da una relazione diretta, causale, fra il suo presupposto e l’unità fisica (emissioni inquinanti, risorsa ambientale, bene o prodotto) che produce o può produrre un danno all’ambiente.
Due sono gli elementi innovativi di tale definizione. Innanzitutto aver posto la funzione ambientale o meglio il bene ambiente non più all’esterno, ma all’interno della fattispecie tributaria (relazione causale); in secondo luogo aver posto l’accento non tanto sulla tutela ambientale quanto piuttosto sul deterioramento scientificamente dimostrato dell’ambiente o, più correttamente, sull’unità fisica che determina o può determinare il deterioramento dell’ambiente (il danno ambientale).
Soprattutto quest’ultima nuova prospettiva appare fondamentale se si vuole procedere al tentativo di ricostruire un tributo ambientale e non solo un tributo con funzione ambientale. Come anticipato, la tutela dell’ambiente è una finalità – politica, culturale, sociale – per sua natura extrafiscale. Fino a che si ritiene che lo strumento tributario debba essere utilizzato per la tutela dell’ambiente, non si potrà mai avere un tributo ambientale in cui il bene ambientale si collochi all’interno della fattispecie tributaria. La tutela ambientale è un effetto, sperato, derivante dall’introduzione di un prelievo, anche fiscale, che, determinando un aumento del costo del bene o dell’attività inquinante, induca il consumatore a rivolgersi verso altri beni con minore impatto ambientale.
Si tratta di un effetto economico (cosiddetta interiorizzazione delle esternalità ambientali) estraneo alla fattispecie giuridico-tributaria, a cui viene anche attribuita la predetta finalità extrafiscale. Non per niente l’OCSE, che ha condotto i suoi studi sulla base di tale impostazione, considera la tassa con funzione ambientale uno dei tanti strumenti economici (non necessariamente il più efficace) cui può essere riconosciuta la predetta funzione di interiorizzazione delle esternalità ambientali[31].
L’avere spostato dalla tutela dell’ambiente all’unità fisica che determina il danno ambientale l’elemento di collegamento fra il tributo e l’ambiente può consentire di ricostruire in termini di presupposto ambientale il tributo ambientale. L’unità fisica che determina il deterioramento dell’ambiente non può ovviamente essere una funzione del tributo ambientale, ma è un fatto materiale e oggettivo sussumibile, a certe condizioni tutte ancora da verificare, nel presupposto del tributo ambientale.
Con ciò non si vuole dire che il tributo ambientale non possa assumere anche una funzione di tutela ambientale. Si vuole dire che il tributo ambientale è tale per la relazione diretta, causale, che sussiste fra il presupposto e il fatto materiale e oggettivo (unità fisica) che determina il deterioramento scientificamente accertato dell’ambiente, ferma restando la possibilità che tale tributo persegua come effetto economico ed extrafiscale anche funzioni di tutela ambientale[32].
È appena il caso di soggiungere che la nuova prospettazione data al problema ha consentito all’Unione europea, soprattutto nel Libro Bianco di Delors, di non valutare più la tassazione ambientale solo per i suoi effetti di tutela ambientale, ma innanzitutto per i suoi effetti di redistribuzione del carico fiscale.
7. Teorie della capacità contributiva
Affrontiamo ora il più delicato problema diretto ad accertare se il tributo in parola (rectius, tributo ambientale) sia o meno coerente con la capacità contributiva[33].
I tributi ambientali costituiscono una forma di «risarcimento» prevista dal legislatore tributario a carico dei produttori e da questi dovuti per effetto dell’intervento dell’ente pubblico diretto ad evitare danni ambientali provocati alla collettività (emissione di sostanze solforose, ossido di carbonio, inquinamento acustico ecc.). Si tratta di imposte quindi destinate a finanziare i servizi pubblici per prevenire (e non per risanare) il deterioramento ambientale; tale puntualizzazione assume rilevante importanza ai fini del problema in parola. Il legislatore tributario ha cioè inteso richiedere un tributo per le unità fisiche che potrebbero generare un danno ambientale senza l’intervento dell’ente pubblico, intervento che viene conseguentemente sopportato dalla collettività. Ne consegue che il criterio di riparto del relativo «costo» deve essere ispirato al ripristino delle condizioni preesistenti al danno causato dai prodotti inquinanti alla generalità dei consociati senza «generare» una correlazione tra il danno medesimo e l’opera di risanamento. Con ciò intendiamo dire che la misura del danno prodotto deve essere effettuata in relazione ai disagi provocati alla collettività[34].
Si è altresì accertato che il tributo ambientale non può che essere qualificato imposta; è infatti indubbio che il tributo medesimo, lungi dall’essere corrisposto a fronte di una specifica prestazione resa dall’ente pubblico (in tal caso esso avrebbe indiscutibilmente natura di tassa) a favore del soggetto passivo d’imposta, è diretto a prevenire e ridurre il deterioramento ambientale[35]. Il presupposto del prelievo ambientale consiste invece nella erogazione da parte dello Stato o di altro ente pubblico di un servizio di prevenzione del danno cagionato all’ambiente da una determinata attività inquinante posta in essere dal soggetto passivo del tributo, di cui questi abbia fatto richiesta, da finanziare attraverso la fiscalità generale non essendo riconducibile, è il caso di ribadirlo, ad una prestazione specifica resa da tali enti a fronte del pagamento di un tributo. Se il tributo ambientale avesse il fine di risanare il danno provocato dalle emissioni inquinanti il produttore si riterrebbe autorizzato ad inquinare impunemente l’ambiente essendo consapevole che tale suo operato è «giustificato» dal pagamento di una prestazione pecuniaria, conclusione, questa, che non esitiamo a ritenere inaccettabile.
L’impostazione che precede conferma che l’intervento dell’ente pubblico non deve essere finanziato con le tasse, ma con le imposte, vale a dire, con tributi contributivi, ancorché in dottrina si sia sostenuto che la finalità ambientale sia estranea al presupposto impositivo, con la conseguenza che il prelievo sarebbe qualificabile come tributo di scopo con funzione indennitaria e non invece come tributo ambientale vero e proprio[36].
Relativamente al problema «centrale» del nostro intervento – diretto a conoscere se il tributo (rectius, imposta) ambientale possa costituire un indice idoneo di capacità contributiva – dobbiamo osservare che alcuna dottrina tributaristica si limita ad intravedere l’esistenza di una capacità contributiva solo in presenza di indici che denotino una attitudine o forza economica che si individua nell’esistenza di un reddito, di un patrimonio o di un consumo.
Nel senso che questi ultimi valgono come criteri imposti dalla Costituzione per delimitare il potere discrezionale che il legislatore ordinario detiene nell’attuazione del principio di capacità contributiva.
Ora, che il tributo extrafiscale[37] debba essere espressione di capacità contributiva, tanto se questa è interpretata come capacità economica qualificata, quanto se è intesa in un’ottica meramente distributiva come criterio di riparto dei carichi pubblici equo e ragionevole, non è posto in dubbio[38].
Nessuna di queste due opzioni interpretative, comunque si intenda la capacità contributiva, esclude che questa debba trovare applicazione anche nei tributi extrafiscali.
Certo, se si adotta la seconda interpretazione (identificandolo come criterio di riparto dei carichi pubblici equo e ragionevole) la strutturazione di un tributo extrafiscale potrebbe essere più agevole.
Infatti, detta impostazione teorica giunge alla conclusione che il riferimento alla capacità contributiva si limita ad imporre al legislatore di selezionare i presupposti anche in relazione a situazioni, condizioni e differenze sociali, che se pur prive di elementi patrimoniali, sono tuttavia espressive, a suo giudizio, dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese e rispondenti a criteri distributivi equi, coerenti e ragionevoli[39].
Ed allora, se è così, i fini costituzionalmente rilevanti che con i tributi extrafiscali si possono perseguire, potranno essere più agevolmente raggiunti – e di riflesso trovare una equa e ragionevole giustificazione ex artt. 3 e 53 Cost. – stante la non necessaria ricorrenza dell’attitudine patrimoniale del presupposto impositivo al fine della istituzione del tributo.
La tassazione ambientale e le problematiche che essa ha comportato in ordine alla individuazione del suo presupposto possono dimostrare quanto appena detto.
Nei tributi ambientali sin dalla loro introduzione una delle tematiche che ha impegnato la dottrina è stata quella di individuare la situazione-base che rispettasse il principio di capacità contributiva[40].
Le difficoltà maggiori si sono poste per coloro che ritengono la capacità contributiva nel senso di capacità economica qualificata, in quanto si sono trovati difronte allo stabilire se l’unità fisica che determina (o può determinare) un danno che incide sull’ambiente possa essere assunto, ex art. 53 Cost., come atto o fatto che esprime una ricchezza attuale e concreta.
È evidente che nella loro prospettiva se le unità fisiche sono costituite dall’uso di un prodotto che crea inquinamento si può sostenere che l’indice di capacità contributiva è espressa dal consumo; lo stesso ragionamento non possono svolgerlo per quelle ipotesi in cui vi è la produzione ed emissione di gas inquinanti, ossia entità non reddituali che non possono essere collegabili al consumo di beni utili scambiabili sul mercato[41].
In tali difficoltà concettuali, con implicazioni pratiche notevoli, non si è trovata invece quella dottrina che intende la capacità contributiva come riparto dei carichi pubblici fondato su equi e ragionevoli criteri distributivi; questa identifica i fatti e le situazioni socialmente rilevanti e concretamente espressive di potenzialità economica nello stesso comportamento umano che procura un danno all’ambiente.
In questo caso se il principio di uguaglianza, sottinteso all’art. 53 Cost., vuole che chi provoca un pregiudizio sociale alla collettività, scaricando su di essa il relativo danno, debba compensare il pregiudizio arrecato, il tributo ambientale è uno strumento idoneo a soddisfare questo principio. Detto tributo è posto a carico del soggetto che produce le emissioni inquinanti e provoca il danno da compensare; il criterio di riparto è costituito dal rapporto tra le emissioni nocive e il possibile danno sopportato dalla collettività.
D’altronde non si può nemmeno ignorare che l’altra impostazione teorica della capacità contributiva, di cui al paragrafo 1, ha gioco facile per dimostrare la legittimità – o sarebbe meglio dire la necessità – dei tributi extrafiscali.
Questa infatti ponendo a fondamento della capacità contributiva una capacità economica qualificata da un dovere di solidarietà, ossia da un dovere finalizzato e caratterizzato da un prevalente interesse collettivo, non considera la ricchezza del singolo separatamente dalle esigenze collettive[42].
Essa muovendo dal pregnante valore solidale che permea la capacità contributiva ritiene che proprio per via di questa qualificazione l’art. 53 Cost. imponga che capacità economiche dimostranti diverse attitudine a soddisfare fini collettivi siano trattate corrispondentemente a questi ultimi.
In tale prospettiva il fine redistributivo è connaturato all’imposta; con la conseguenza che il carattere solidale permea tutta la sua disciplina tanto sul piano qualitativo – in ordine alla scelta del presupposto di fatto – quanto sul piano quantitativo – in relazione al quantum della contribuzione[43].
Siamo tuttavia convinti che il «perimetro» dell’art. 53, 1° comma, Cost. sia da valutarsi con una maggiore «elasticità» che consente di includervi anche altri indici di capacità contributiva che si colleghino con l’essenziale principio del concorso dell’intera collettività all’obbligo del riparto delle spese pubbliche. Una tale conclusione appare perfino ovvia se si considera che la capacità contributiva appare un «contenitore» o, se si preferisce, una «scatola vuota» che va di volta in volta «riempita» con indici ritenuti idonei a concorrere alle pubbliche spese atteso che il precetto costituzionale non individua (ovviamente) fattispecie tipizzate di capacità contributiva, ma si riferisce, implicitamente, alla situazione personale in cui versa il soggetto; situazione che deve naturalmente consentire al soggetto medesimo di partecipare alle spese pubbliche.
Ad una non dissimile conclusione è pervenuto un autorevole autore[44] secondo cui l’art. 53 Cost. non risulta necessariamente violato da quelle norme che delimitano o estendono l’ambito di applicazione di determinati tributi individuando indici di potenzialità economica in ragione di considerazioni ulteriori rispetto alla mera capacità patrimoniale dei soggetti passivi «… e, in specie, in funzione della incentivazione o disincentivazione di determinati comportamenti dei consociati. In queste ipotesi, il cui tipico esempio è quello dei c.d. tributi extrafiscali (…), le norme tributarie concorrono a soddisfare ulteriori specifiche esigenze, riconosciute e tutelate dall’ordinamento, con le quali la funzione fiscale può essere coordinata». Ed in effetti, se l’interprete si limitasse a delimitare la nozione di capacità contributiva esclusivamente sulla esistenza di indici di forza economica in senso stretto, il principio di capacità contributiva concepito dai Padri costituenti risulterebbe svilito nella sua «essenza» la quale, viceversa, non può che accogliere, in considerazione della sua necessaria «neutralità», qualunque elemento da cui si desuma l’esistenza di una attitudine a concorrere alle spese pubbliche[45].
Gli autori contrari alla tesi appena sostenuta sembrano non voler prendere atto che il principio della capacità contributiva non può che essere inteso in senso «dinamico» e non certamente «statico»; è un principio che deve quindi adattarsi alle continue metamorfosi che registra la società in tutti i settori dell’attività umana.
In tal senso, un tangibile esempio è stato il caso dell’irap ritenuta da moltissimi autori incostituzionale[46] in quanto l’esistenza della capacità contributiva è rappresentata da un’attitudine a produrre reddito e non invece dall’esistenza del reddito medesimo, così come statuito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 156 del 2001[47]. Il Giudice delle leggi ha in particolare precisato che il valore aggiunto prodotto rappresenta un nuovo indice di capacità contributiva diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta che, tuttavia, non appare in contrasto con i principi contenuti nell’art. 53 Cost. La scelta di un siffatto indice, ha aggiunto il Giudice delle leggi, «non può dirsi irragionevole, né comunque lesivo del principio di capacità contributiva, atteso che il valore aggiunto prodotto altro non è che la nuova ricchezza creata dalla singola unità produttiva che viene, mediante l’irap, assoggettata ad imposizione ancor prima che sia distribuita ai fini di remunerare i diversi fattori della produzione, trasformandosi in reddito per l’organizzazione dell’attività, i suoi finanziatori, i suoi dipendenti e collaboratori». L’imposta, concludeva la Corte, «… colpisce, con carattere di realtà, un fatto economico diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione».
Un autore si è mostrato nettamente contrario a ricomprendere tra gli indici di capacità contributiva quegli elementi privi di disponibilità di mezzi economici i quali costituiscono presupposto essenziale per l’individuazione dalla capacità contributiva. L’Autore ha quindi ritenuto «tributi da poco nati (irap) certamente incostituzionali sulla scorta del principio di capacità contributiva nella interpretazione avente pacifico corso in quel momento storico»[48].
Con riferimento ai tributi ambientali lo stesso Autore – che li ha definiti di stampo commutativo – ha perentoriamente escluso che in essi possa ravvisarsi il principio di capacità contributiva. L’autore si è tuttavia limitato ad illustrare i negativi effetti provocati all’ambiente senza svolgere alcuna considerazione in merito all’asserita estraneità dei tributi in parola al principio della capacità contributiva affermando, laconicamente, che appare «del tutto inappropriato (oltre che errato) invocare per tali prelievi di stampo commutativo il principio di capacità contributiva, ad essi estraneo». Tale tesi è stata sostanzialmente condivisa da chi ha ritenuto le imposte ambientali estranee (e non contrarie) al principio di capacità contributiva ritenendole – pur senza affermarlo esplicitamente – tributi commutativi[49].
È innegabile che le imposte ambientali, pur non rispondendo alla concezione tradizionale (ed ormai «datata») della nozione di capacità contributiva, si giustificano in base al principio comunitario del «chi inquina paga», concepito come uno dei possibili razionali criteri di riparto; è infatti fuori discussione che il legislatore tributario, nell’ambito dei suoi ampi poteri, può individuare l’esistenza di capacità contributiva in quei soggetti passivi di imposta ritenuti idonei a concorrere alle pubbliche spese in quanto pongano in essere presupposti dotati di valenza economico-sociale, non necessariamente di natura (anche) patrimoniale, affidando il raggiungimento dell’obiettivo dell’equa ripartizione delle spese pubbliche al solo rispetto del principi di ragionevolezza, imparzialità, coerenza e congruità, previsti dall’art. 3 Cost. e presupposti dall’art. 53, 1° comma, Cost.
L’art. 53 Cost. è stato «congegnato» dai Padri costituenti con l’obiettivo di ripartire tra tutti i consociati le pubbliche spese in modo «ragionevole» intendendosi, con tale aggettivo, una distribuzione delle pubbliche spese operata in maniera coerente, razionale e, soprattutto, ispirata a principi di solidarietà ed uguaglianza. Nelle intenzioni del Costituente, il vero problema era (e lo è tutt’ora) costituito dalla «metodologia» della ripartizione delle spese stesse e non certamente dall’individuazione della capacità contributiva il cui «compito» è demandato al potere discrezionale del legislatore ordinario[50]: anche in mancanza dell’espressione «in ragione della loro capacità contributiva» la distribuzione non poteva che essere effettuata con riferimento alla situazione soggettiva dei consociati. Sotto questo profilo il riferimento alla capacità contributiva appare perfino superfluo essendo pacifico che alla distribuzione delle spese pubbliche sono tenuti a concorrere soprattutto i soggetti maggiormente abbienti[51].
«Metodologia» di ripartizione delle pubbliche spese operata in aderenza ai predetti principi, sta a significare che il legislatore deve tenere conto di tutti gli indici, nessuno escluso, da esso ritenuti idonei a concorrere a detta ripartizione comprendendovi anche quelle utilità derivanti dalla disponibilità di beni di pubblica utilità specialmente se questa utilità è goduta sottraendo, seppur legittimamente, alla collettività il godimento di beni pubblici come nel caso di beni ambientali i quali costituiscono, senza ombra di dubbio, beni fondamentali dei consociati attenendo alla integrità fisica, e alle occasioni di svago[52], nel rispetto del principio di uguaglianza. È evidente, ad esempio, che l’attività svolta dall’Ilva di Taranto ha generato a numerosi abitanti del luogo fenomeni cancerogeni e, nel contempo, privato ad essi il godimento dei beni ambientali il cui deterioramento ha peraltro prodotto anche una forte riduzione del turismo con conseguenti ricadute sull’economia locale[53].
Ebbene non si comprende la ragione per la quale la disponibilità di tali beni pubblici non dovrebbe costituire un indice di capacità contributiva dal momento che risulta del tutto incontestato che i produttori di sostanze inquinanti si trovano in una situazione di vantaggio rispetto ad altri che non godono affatto di tali condizioni, senza dimenticare che sono proprio gli stessi produttori la causa esclusiva dell’intervento dello stato diretto a prevenire danni all’ambiente.
È quindi evidente che in siffatte ipotesi il tributo ha il preminente fine di ridurre le disuguaglianze tra i soggetti appartenenti ad una collettività.
Non può infine non evidenziarsi come nelle imposte ambientali possa ravvisarsi anche l’elemento dell’economicità da intendersi, nella particolare fattispecie, come misura di un potere di modificazione ambientale in quanto idoneo ad incidere nei rapporti intersoggettivi. Sotto tale profilo la posizione di vantaggio in cui versa un soggetto per effetto del «potere» di svolgere un’attività imprenditoriale utilizzando prodotti inquinanti incide, innegabilmente, sui diritti della collettività «privandoli» del godimento di beni pubblici (rectius, risorse naturali)e tale circostanza può ragionevolmente costituire un fatto-indice di capacità contributiva valutabile economicamente, anche in assenza di qualsivoglia consistenza patrimoniale del presupposto del tributo, tale, comunque, da giustificare l’istituzione di un’imposta ambientale a carattere generale. La relazione tra scelta del presupposto e capacità contributiva risulta quindi meno complessa se si assume che sia possibile realizzare l’imposizione ambientale attraverso l’istituzione di imposte ambientali di consumo e di tasse ambientali. Nel primo caso, la compatibilità del tributo con il principio di capacità contributiva è assicurata dal consumo di un prodotto inquinante o di un bene ambientale scarso, economicamente valutabile, che assurge a presupposto dello stesso. Al contrario, il tributo che colpisce il consumo di prodotti inquinanti o di beni ambientali scarsi, presenta un presupposto apprezzabile sotto il profilo patrimoniale (il consumo, per l’appunto), e dunque suscettibile di valutazione economica.
Note:
[1] Falsitta, Considerazioni conclusive, in Studi in onore di Gaspare Falsitta (a cura di Beghin, Moschetti, Schiavolin, Tosi e Zizzo), Padova, 2012, 271 ss.; Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, in Rass. trib., 2010, 309 ss.; Gallo-Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1999, 115 ss.; Moschetti, «Interesse fiscale» e «ragioni del fisco» nel prisma della capacità contributiva, in Studi in onore di Gaspare Falsitta, cit., 157 ss.
[2] Moschetti, «Interesse fiscale» e «ragioni del fisco» nel prisma della capacità contributiva, cit., 170.
[3] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 46.
[4] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 52 ss.
[5] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 52 ss.
[6] Falsitta, Considerazioni conclusive, cit.; Moschetti, «Interesse fiscale», cit.
[7] Gallo, Profili critici, cit.; Gallo-Moschetti, I presupposti, cit.
[8] Vedi articoli 174 e 175 del Trattato Ce. Il principio «chi inquina paga» costituisce il fondamento della istituzione di tributi ambientali in ambito europeo. In base a tale principio le diseconomie esterne prodotte da attività umane che cagionano danni all’ambiente devono essere poste a carico dei soggetti responsabili dell’inquinamento. L’enunciazione del principio è avvenuta per la prima volta in ambito internazionale ad opera della Raccomandazione OCSE del 26 maggio 1972, n. 128, secondo la quale «all’inquinatore devono imputarsi i costi della prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento come definite dall’Autorità pubblica al fine di mantenere l’ambiente in uno “stato accettabile”».
[9] Gallo-Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 122 ss., osservano che l’assunzione a presupposto del tributo ambientale in senso stretto di unità fisiche che determinano un deterioramento ambientale irreparabile sarebbe una inaccettabile giustificazione morale a produrre danni irreversibili all’ambiente.
[10] De Falco, L’armonizzazione fiscale e le tasse ecologiche, in Riv. Giur. Ambiente, 2004, 643 ss.
[11] MELIS, Manuale di diritto tributario, Giappichelli, edizione 2020, 164.
[12] Sacchetto, voce Tassa, in Enc. dir., XLIV, Milano.
[13] In particolare il tributo è stato introdotto ad opera della l. 23 dicembre 1998, n. 448.
[14] In particolare dall’art. 7 del d.lgs. n. 26 del 2006.
[15] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 58 ss.
[16] Corte di giustizia, 9 marzo 2017, causa C 406/15, Milkova, punto 55.
[17] Del Federico, Il concorso dell’utente al finanziamento dei servizi pubblici, tra imposizione tributaria e corrispettività, in corso di pubblicazione in Rass. trib., 2013.
[18] La «struttura» così da noi ricostruita è analoga a quella concepita da De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2004, 13 ss.
[19] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit. 170.
[20] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit. 170.
[21] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit. 171.
[22] OCSE, Instruments économiques pour la protection de l’environnement, Paris, 1989. Cfr. anche Ministero dell’ambiente, Spesa pubblica ambientale e incentivi economici, in “Relazione sullo stato dell’ambiente”, Roma, 1997.
[23] TURNER, PEARCE, BATEMAN, Economia ambientale, Bologna, 1996, classificano gli strumenti economici per l’ambiente in: imposte sulle emissioni, imposte di sfruttamento, imposte sulla produzione, permessi negoziabili e depositi cauzionali.
[24] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit. 173.
[25] Cfr. Relazione sullo stato dell’ambiente, cit.
[26] Cui deve aggiungersi oggi l’Italia a seguito dell’introduzione dell’imposta sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e di ossidi di azoto (NOX) (L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 17, commi da 29 a 33).
[27] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit. 177.
[28] Ci si riferisce alla Risoluzione del Consiglio 23 gennaio 1987, n. 485, in G.U.C.E., n. C 328 del 7 dicembre 1987, contenente il “Quarto programma di azione delle Comunità Europee in materia di ambiente”; alla Risoluzione del Consiglio 1° febbraio 1993, in G.U.C.E., n. C 138 del 17 maggio 1993, contenente il “Quinto programma di azione ambientale dell’Unione Europea”; al Libro Bianco di Delors su Crescita, competitività e occupazione, pubblicato nel 1994.
[29] Secondo Delors l’utilizzo di strumenti portatori di uno sviluppo sostenibile (come riciclaggio, biotecnologie, energie rinnovabili) dovrebbe favorire l’occupazione; contemporaneamente la pressione fiscale sul lavoro, sotto forma di contributi sociali a carico dei datori di lavoro, dovrebbe essere alleggerita in proporzione al maggior prelievo fiscale sull’ambiente.
[30] Non particolarmente significativi appaiono altri schemi proposti sempre in sede internazionale. Ci si riferisce principalmente allo schema proposto dal SERIEE, Sistema Europeo di Raccolta di Informazioni Economiche sull’Ambiente, in “Economia e Ambiente”, 1991, 3, pagg. 24-27, secondo cui le tasse ambientali vanno suddivise in “tasse specifiche” e “tasse a finalità ambientale” a seconda che il gettito che da esse deriva sia utilizzato direttamente per finanziare la spesa per la protezione dell’ambiente oppure confluisca con le altre entrate dello Stato.
In particolare vengono definite come tasse specifiche: “i pagamenti non restituiti, ricevuti da unità residenti e non residenti, che contribuiscono al finanziamento di attività caratteristiche ed all’utilizzo di prodotti specifici o costituiscono una compensazione per perdite di reddito o di capitale collegate alla protezione ambientale”. Invece vengono definite tasse a finalità ambientale quelle tasse che: “non costituiscono un elemento della spesa nazionale né contribuiscono al finanziamento della spesa nazionale. Così ad esempio: le tasse sulle emissioni che non sono finalizzate per spese di protezione ambientale. Ciò che deve essere tenuto in considerazione è la base della tassa e l’obiettivo che il legislatore ha considerato al momento della sua adozione. Se questa persegue finalità ambientali è definita tassa a finalità ambientale. Non sono classificate come trasferimenti specifici ma fanno parte del carico finanziario ambientale”.
[31] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit. 210.
[32] In effetti se il tributo ambientale si dovesse identificare solo per la funzione extrafiscale di tutela dell’ambiente non vi sarebbe alcun bisogno di sforzarsi a ricostruire tributi ambientali in senso proprio, caratterizzati dall’esistenza di un “presupposto ambientale”, essendo sufficiente aggiungere la predetta funzione extrafiscale a qualunque tipo di tributo.
[33] Icolari, Per una dogmatica dell’imposta ambientale, Editoriale Scientifica, 2018, 112.
[34] Icolari, Per una dogmatica dell’imposta ambientale, cit., 132.
[35] Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 311 ss.
[36] Ficari, Prime note sull’autonomia tributaria delle regioni a Statuto speciale (e della Sardegna in particolare), in Rass. trib., 2001, 1307.
[37] Oltre alla finalità di procacciare un’entrata allo Stato, un tributo può essere preordinato anche ad uno scopo extra fiscale. La struttura ordinaria del tributo viene così modificata in vista dello scopo politico che si vuole raggiungere, in modo da ottenere un assetto incentivante o disincentivante dell’imposizione.
[38] Melis, “Capacità contributiva (principio di)”, in Dig. Dis. Pubbl., Milano, 2017, pag. 106.
[39] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 67 e ss.
[40] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 68.
[41] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 70.
[42] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 71.
[43] MELIS, Manuale di diritto tributario, cit., 67 e ss.
[44] Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, I, Torino, Giappichelli ed., 2003, 31 ss.; Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, cit., 110.
[45] Icolari, Per una dogmatica dell’imposta ambientale, cit., 200.
[46] Icolari, Per una dogmatica dell’imposta ambientale, cit., 201.
[47] Sulla stessa «lunghezza d’onda» vedi ordinanze n. 286 del 2001 e n. 103 del 2002.
[48] Falsitta, Considerazioni conclusive, cit., 276 ss. Senza voler sollevare inutili polemiche non possiamo non rilevare come l’autore si ostini a non voler prendere atto che sulla legittimità costituzionale del tributo regionale si è espressa in più occasioni la Corte costituzionale (vedi sentenza n. 156 del 2001 ed ordinanze n. 286 del 2001 e n. 103 del 2002). Lo stesso autore, a dimostrazione della sua evidente avversione per questo tributo, si era inoltre espresso sulla incompatibilità comunitaria dell’irap affermando che «l’oggetto imponibile dell’irap coincide in tutto e per tutto con quello dell’iva» (Una sovrapposizione contraria all’Europa, in Il Sole 24 Ore del 17 marzo 2005). Tesi, questa, nettamente smentita dalla Corte di giustizia la quale, con la nota sentenza 475/2003 del 18 marzo 2005 ha dichiarato la piena compatibilità comunitaria dell’irap.
[49] Moschetti, «Interesse fiscale» e «ragioni del fisco», cit., 197 ss. Anche questo autore non illustra in modo convincente le ragioni del suo dissenso in ordine alla estraneità delle imposte ambientali rispetto alla capacità contributiva.
[50] Moschetti, «Interesse fiscale» e «ragioni del fisco», cit., 198.
[51] Moschetti, «Interesse fiscale» e «ragioni del fisco», cit., 199.
[52] Gallo, Disuguaglianze, giustizia distributiva e principio di progressività, in Rass. trib., 2012, 288 ss.
[53] Gallo, Disuguaglianze, giustizia distributiva e principio di progressività, cit., 290.
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