Tutela della posizione contributiva. Rinuncia a diritti futuri ed emersione dal sommerso: una analisi comparativa

Redazione 30/01/04
Antonio Federici

1-.Il diritto alla regolarità della posizione contributiva. 2.-La rinunciabilità delle posizioni contributive future: a proposito di una recente sentenza. 3.-La rinunciabilità dei diritti futuri in generale. 4-La rinunciabilità dei diritti futuri in ambito previdenziale. 5.-La posizione contributiva come fattispecie a formazione progressiva. 6.-La ricostruzione del problema nella prospettiva dell’art. 2113 c.c: l’accertamento generico e la condanna futura. 7.-Il punto di vista della dottrina giusprevidenzialistica. 8.-La intangibilità della posizione contributiva e l’art. 1 della legge n. 381 del 2001: la dichiarazione di emersione del lavoro irregolare ed il concordato previdenziale per gli anni pregressi. 9.-La tutela del lavoratore “emergente” e non “aderente”: l’ottica dell’art. 2116, secondo comma, cod. civ.

1.- Il diritto alla regolarità della posizione contributiva. A prescindere dalla rilevanza pubblicistica della fattispecie, da tempo in dottrina e giurisprudenza è emersa l’idea che il lavoratore è titolare nei confronti del datore di lavoro di un vero e proprio diritto soggettivo alla regolarità della posizione contributiva ([1]).
Un tale diritto può essere qualificato come “diritto alla integrità della posizione contributiva”; esso trova il suo fondamento nell’art. 38 della Costituzione e la sua specificazione nell’art. 2116 cod. civ.
Tale ultima disposizione si compone di due commi: il primo opera sotto il profilo funzionale e garantisce, attraverso il meccanismo della automaticità delle prestazioni, l’effettività del sistema previdenziale; il secondo, invece, opera sotto il profilo della tutela e costituisce, attraverso la previsione del risarcimento del danno, la norma finale di chiusura del sistema previdenziale.
Infatti, laddove non opera il principio della c.d. automaticità delle prestazioni, il lavoratore perde la posizione contributiva e, in sostituzione, acquisisce il diritto al risarcimento del danno.
Questo perché il principio della automaticità del rapporto assicurativo non sempre implica il medesimo automatismo nel versante della prestazione: ciò avviene, ad esempio, nel regime per la assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti, nel quale la regola dell’automaticità vige sempre e comunque nel momento costitutivo, quello genetico del rapporto, ma non sempre trova uguale corrispondenza e speculare applicazione nel momento funzionale, quello finale delle prestazioni: ciò avviene sicuramente in relazione ai contributi per i quali non è più possibile il versamento perché prescritti ([2]).
In questa ipotesi il diritto alla posizione assicurativa esce dal rapporto previdenziale e si colloca nel più generale settore del rapporto di lavoro e l’omissione del datore di lavoro si pone sul versante della responsabilità per inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro.
Ne consegue che la responsabilità del datore di lavoro si trasferisce dal piano previdenziale a quello della responsabilità civile e ad essa si applicano le regole, sostanziali e processuali, proprie di essa.

2. – La rinunciabilità delle posizioni contributive future: a proposito di una recente sentenza. Le riflessioni che seguono trovano il loro movente in una recente sentenza delle corti di merito, per la quale “Il principio di automaticità delle prestazioni trova applicazione a condizione che esista in capo al datore di lavoro un obbligo contributivo ed in quanto il lavoratore non abbia rinunciato ex art. 2113 c.c. al versamento dei contributi. Non può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta del diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto previdenziale, in quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto” ([3]).
La sentenza in commento si inserisce nell’ambito di quell’indirizzo giurisprudenziale che, anche se recentemente riproposto dalla Corte di Cassazione, può ormai considerarsi recessivo.
Il principio ordinatore della pronuncia in esame è dato dalla presupposta “rinunciabilità” da parte del lavoratore delle posizioni contributive allorquando detta rinuncia trova collocazione nell’ambito di un accordo transattivo concluso dal lavoratore con il consenso assistito.
A parte una variante sul tema della prescrizione, la sentenza recepisce il meccanismo della estinzione dell’obbligazione contributiva per effetto di un atto dispositivo di rinuncia del lavoratore.
In ciò la pronuncia ricalca le motivazioni di un recente intervento in materia della Corte di Cassazione ([4]), il quale, a sua volta, rappresenta l’occasione per rivedere alcuni principi ormai acquisiti al patrimonio dell’ordinamento giuridico, quasi che fossero il codice genetico del diritto del lavoro.
Questo perché i principi fondamentali in materia orbitanti attorno al diritto del lavoratore alla integrità della posizione contributiva, con un recente intervento normativo settoriale rischiano di avviarsi al declino e di refluire nella comune disciplina dell’attività negoziale regolata dal c.d. principio liberale proprio dei rapporti negoziali non presidiati dalle esigenze di solidarietà a rilevanza costituzionale.
La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla indisponibilità della posizione contributiva del lavoratore, fatto cenno ad alcune precedenti pronunce in materia ([5]), ha definito negativamente la questione, in quanto “.. nel caso di omissione contributiva, se è vero che il diritto al risarcimento del danno, fondandosi sul duplice presupposto dell’inadempimento contributivo da parte del datore di lavoro e della perdita della pensione, sorge nel momento in cui sarebbe maturato il diritto del lavoratore alla prestazione previdenziale, tanto che da tale momento decorre la prescrizione, è altrettanto vero che il lavoratore può chiedere la tutela della sua aspettativa concernente le prestazioni assicurative ancora prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi, a tal fine, della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, volta ad accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare danno, salvo poi esperire, al momento del prodursi dell’evento dannoso, l’azione risarcitoria ex art. 2116 comma secondo cod. civ. o quella diversa, in forma specifica, ex art. 13 della legge 12 agosto 1962 n. 1338” ([6]).
Applicando detti principi, la Suprema Corte ha inferito “… che il diritto ad agire giudizialmente, una volta verificatosi l’inadempimento del datore di lavoro nel versamento dei contributi, per ottenere, pur in forma di condanna generica, il risarcimento del danno derivante da tale omissione contributiva, costituisce diritto che viene acquisito dal lavoratore a seguito ed in conseguenza del detto inadempimento e che è quindi, in ragione di ciò, suscettibile di formare oggetto di accordo transattivo alla stregua degli altri diritti maturati a favore del lavoratore in relazione all’avvenuto svolgimento de rapporto di lavoro”.
Si tratta, è vero, di una sentenza che non ha fatto indirizzo e che è stata da subito soppiantata da altro e più seguito orientamento della Corte di Cassazione, per il quale “… il lavoratore può rinunciare alle retribuzioni, ma non anche alle contribuzioni previdenziali, che rientrano nel novero dei diritti indisponibili” ([7]); tuttavia, nondimeno, è un sentenza interessante perché si pone a precedente antesignano e supporto non di un orientamento giurisprudenziale, bensì di una tendenza legislativa ad incidere sulle tecniche modulatorie e sugli strumenti di tutela tipici del diritto del lavoro mediante una regressione del principio di “solidarietà” nel principio “liberale”.

3. – La rinunciabilità dei diritti futuri in generale. Il contenuto delle sentenze sopra richiamate preliminarmente ci introduce nella dissertazione di uno dei problemi più delicati in materia previdenziale: la rinunciabilità dei cc.dd. diritti futuri.
Il quesito cui preliminarmente occorre dare una risposta è rappresentato dalla possibilità o meno di una rinuncia a quelle situazioni prive del requisito dell’attualità del diritto.
In proposito è necessario premettere che il potere di rinuncia ad un diritto soggettivo, in quanto modo di essere del potere di disposizione, dovrebbe trovare il suo presupposto nell’attualità del diritto o, quantomeno, della titolarità di esso.
Tale è il postulato che sembra emergere dalla elaborazione della prevalente dottrina in materia, la quale da detto principio deduce, quale conseguenza impreteribile, “l’inidoneità a costituire oggetto di rinuncia di quei diritti che non esistano attualmente nel patrimonio del rinunziante …” ([8]).
Una analisi comparativa delle posizioni dottrinarie in materia non può prescindere dalla posizione sopra enunciata, perché assunta, per adesione o confutazione, alla base di ogni altra opzione teorica.
Il principio enunciato assertivamente dalla dottrina “di base” può trovare la sua sintesi dogmatica nelle seguenti due proposizioni, che del principio medesimo rappresentano il paradigma concettuale:
1-) le eventuali rinunzie non sono in condizione di generare effetti estintivi nel caso in cui i diritti dimessi non esistano nel momento dell’atto abdicativo;
2-) l’atto dismissivo non consente il verificarsi di effetti provvisori in vista e in funzione dell’eventuale futuro acquisto.
L’atto di rinuncia al diritto futuro, insomma, sarebbe nullo e privo di effetti in quanto, stante la mancanza del crisma della “attualità” del diritto nel patrimonio del rinunziante, questi non sarebbe legittimato all’atto dispositivo: “Concepire la rinunzia ai diritti futuri come rinunzia anticipata, come rinunzia ora per allora, per il momento in cui il diritto sarà entrato nel patrimonio dell’agente, non sembra possibile, poiché il soggetto ha o acquista la legittimazione alla rinunzia di un diritto solo se ne è titolare o dal momento in cui lo acquista. Per la stessa ragione non si può configurare la rinunzia a diritto futuro o altrui come rinunzia sospensivamente condizionata all’acquisto del diritto. Non vi può essere, infatti, legittimazione attuale – come è necessaria per l’atto di rinunzia – a disporre d’un diritto il cui sorgere è sub condizione” ([9]).
Una tale soluzione, benché costituisca il punto di arrivo di una centenaria e comparata elaborazione dottrinaria, perde nel contempo la sua valenza di sintesi dogmatica dell’orientamento di cui rappresenta l’epigone ed assume il ruolo di punto di partenza di una successiva elaborazione da parte della dottrina, che nelle sue espressioni più significative giunge a soluzioni opposte o, comunque, a posizioni che non si pongono in sintonia con quanto assunto dalla precedente e prevalente dottrina.
Una sintesi equilibrata di tali posizioni si ritrova in coloro i quali, ponendo in maniera dubitativa il problema, cercano di fornire una soluzione che, scevra da ogni intento di definire concetti irreformabili ed incontestabili, orienta l’obiettivo in direzione di altri e differenti spunti problematici per un ulteriore approfondimento del problema.
In proposito è stato osservato che “Perplessità sorgono in ordine alla rinunciabilità ad un diritto futuro… La ragione del divieto potrebbe … essere ricercata nell’impossibilità del prodursi dell’effetto abdicativo con riferimento ad un diritto non esistente nel patrimonio del soggetto al momento della rinuncia ovvero esistente ma in un patrimonio altrui; il prodursi di tale effetto dovrebbe essere impedito dalla carenza dei presupposti indispensabili per il compimento dell’atto, che consistono nella capacità di rinunciare, nella disponibilità del diritto e nella legittimazione a porre in essere la rinuncia …” ([10]).
Effettivamente, da una ricognizione delle pronunce generali in materia, per la giurisprudenza appare attendibile dare all’interrogativo una soluzione che faccia propendere per l’ammissibilità di una rinunzia avente ad oggetto un diritto futuro.
Tale tesi trova supporto in massime giurisprudenziali che ormai fanno stato di orientamento costante ed uniforme, tale da far pensare ad un assetto ormai definitivo e tendenzialmente uniforme della materia ([11]), pur non mancando, nella giurisprudenza di legittimità, qualche pronuncia in senso contrario, anche se risalente nel tempo ([12]).

4. – La rinunciabilità dei diritti futuri in ambito previdenziale. Il problema, così come posto, tuttavia non è sufficiente a risolvere la questione allorquando essa emerge nel campo previdenziale.
La peculiarità del caso è data dalla circostanza per la quale in questo ambito la fattispecie riguarda la rinuncia ad un diritto nascente non da un comune rapporto disciplinato dalle norme generali del diritto civile, bensì un diritto originato, a titolo di movente iniziale o per causa genetica, da un rapporto di lavoro e confluito, anche se per sola congiunzione o intersecazione, in un autonomo rapporto previdenziale, ossia nato ed operante in rapporti che suppongono una loro specificità rispetto ai rapporti negoziali regolati interamente dal diritto comune.
Una tale specificità, che non riguarda solo il diritto del lavoro, ha portato parte della dottrina a sostenere che “La piena configurabilità logica di un atto meramente abdicativo di situazioni giuridiche del … tipo … implica che il problema si sposti, semmai, sulle singole fattispecie per verificare se le singole posizioni giuridiche soggettive siano o meno rinunziabili” ([13]).
Questa affermazione, che, prima ancora di assurgere ad una soluzione del problema fondamentale della rinunciabilità o meno ai cc.dd. diritti futuri, costituisce una fondamentale scelta di metodo, se da una parte impone, in applicazione delle più elementari regole della logica, il ripudio dell’opinione di chi assertivamente esclude in assoluto l’ammissibilità della rinunzia ad un diritto futuro, dall’altra impone una specifica valutazione dei diritti nascenti direttamente o indirettamente dal rapporto di lavoro e fondati su norme inderogabili.
Il problema, secondo una parte della dottrina, dovrebbe essere assolutamente circoscritto in quanto si tratterebbe “… di prendere posizione fra la tesi che ritiene possibile una rinunzia solo dal momento in cui il soggetto è divenuto titolare del diritto e la diversa opinione di chi, argomentando dall’art. 1348 c.c. – che consente la deducibilità nel contratto di una prestazione di cose future – si preoccupa unicamente di verificare il rispetto del requisito di determinatezza o determinabilità del contratto voluto dall’art. 1346 c.c.” ([14]).
La medesima dottrina, facendo perno sul fatto che “Una simile alternativa, tuttavia, finisce per non tenere in alcun conto la possibilità che la rinuncia a diritti futuri mascheri, in realtà, un assetto di interessi diverso da quello imposto dalla norma inderogabile e se anche a questo proposito i profili dell’ inderogabilità della norma e quelli dell’irrinunciabilità del diritto vanno tenuti distinti, ciò nondimeno la linea di confine risulta, nell’ipotesi in discussione, assai sfumata”, deduce che “… nella gestione di un rapporto complesso come quello di lavoro, nel quale si susseguono una pluralità di rapporti obbligatori singoli, ciascuno dei quali ubbidisce ad una regola inderogabilmente posta, una rinunzia preventiva rischia fortemente di incidere non sulle utilità (future) derivanti dai singoli rapporti obbligatori, ma sulla regola stessa. Di talché, una rinunzia ai diritti futuri sembra possa sfuggire alla sanzione della nullità che colpisce gli atti in deroga alle norme imperative e possa, di conseguenza, rientrare nell’ambito dell’art. 2113 c.c. solo se limitata a singoli rapporti obbligatori, circoscritti nell’oggetto e nel tempo” ([15]).
Si tratta di una tale soluzione che fornisce una discutibile operatività delle tecniche modulatorie e che è da ritenersi soppiantata da altra e più condivisibile dottrina, la quale, rispetto al problema della rinunciabilità dei diritti futuri, differenzia nettamente dall’ipotesi comune il caso in cui oggetto della dismissione sia un diritto nascente dal rapporto di lavoro o con esso connesso.
La detta opzione dottrinaria, partendo dal presupposto generale che “I diritti futuri non possono costituire punto di riferimento di rinunzie … stante la mancanza attuale del diritto nel patrimonio del rinunciante, questi non è legittimato all’atto”, soggiunge: “Concepire la rinunzia ai diritti futuri come rinunzia anticipata non pare possibile in quanto il soggetto ha o acquista la legittimazione alla rinunzia ad un diritto solo se ne è titolare o dal momento in cui lo acquista…”, e conclude che, a maggior ragione, “Una tale conclusione sembra ineccepibile ancor più in materia di rapporti di lavoro, contraddistinti da una disciplina normativa di carattere prevalentemente inderogabile, sicché la rinunzia a diritti futuri si traduce in una regolamentazione preventiva diretta ad eludere disposizioni inderogabili e, quindi, le stesse vanno giudicate non meramente annullabili, ma radicalmente nulle. Ed invero, rinunziare ad un diritto futuro significa, in realtà, stipulare un patto contrario alla norma inderogabile e, quindi, un patto nullo. Per cui la rinunzia ai diritti futuri è da considerarsi, in linea di massima, come un negozio fraudolento radicalmente nullo e, dunque, sottratto al regime di decorrenza limitata del termine di impugnazione” ([16]).
Se una tale soluzione fosse acquisita al patrimonio giurisprudenziale comporterebbe che il diritto del lavoratore derivante da norma inderogabile sarebbe anche indisponibile, in quanto l’indisponibilità non deriverebbe sic et simpliciter dalla inderogabilità della norma, ma conseguirebbe dal fatto che un detto effetto, in quanto legato alla rinuncia ad un diritto non ancora acquisito nel patrimonio giuridico, opererebbe nel senso della nullità assoluta proprio perché relativo ad una preventiva rinunzia al diritto stesso e non ad una semplice rinuncia o diversa regolamentazione di un diritto già sorto ed acquisito al patrimonio del titolare: cioè la nullità più che conseguenza della violazione imperativa di legge, sarebbe la conseguenza della elusione della norma medesima o, ipotesi ancora più grave, la risultante del difetto genetico della causa del negozio dismissivo, anche se in dottrina e giurisprudenza non è mancato chi ha ritenuto che il lavoratore, de da una parte con il proprio atto dispositivo deroga direttamente alla regolamentazione eteronoma ed inderogabile del proprio rapporto di lavoro e di conseguenza disponi di diritti futuri ed eventuali, dall’altra gli atti abdicativi incidono sul momento genetico del diritto in quanto la nullità deriva dalla contrarietà a norma imperativa ([17]).
Questa soluzione trova avallo nella quasi unanime giurisprudenza giuslavoristica, per la quale i generali parametri valutativi che, come detto, nell’ambito dei comuni rapporti di diritto civile orientano in via generale per una tendenziale possibilità di rinunciare ai diritti futuri, subiscono una variazione modale allorquando il negozio abdicativo ha ad oggetto diritti nascenti dal rapporto di lavoro: in questa ipotesi il fenomeno della negoziazione su futuri diritti indisponibili non consente in linea di massima la possibilità di porre in essere atti dispositivi.
Dunque, a fronte di un orientamento che in generale si è espresso favorevolmente sulla rinunciabilità ai cc.dd. diritti futuri, si pone una giurisprudenza giuslavoristica che si è pronunciata per l’inconfigurabilità, sul piano giuridico, della rinuncia ad un diritto non ancora acquisito al patrimonio del disponente, e ha enunciato il principio per il quale la previa maturazione del diritto è postulato della sua rinunciabilità: non può il lavoratore rinunciare al diritto se non quando tale diritto sia maturato ([18]).

5. – La posizione contributiva come fattispecie a formazione progressiva. Assumendo questo dato quale principio di partenza, si deduce che dovrebbero rimanere fuori dall’ambito applicativo dell’art. 2113 c.c. quei diritti non ancora maturati, ma che il titolare, benché legati ad una mera potenzialità, potrebbe acquistare nel futuro per effetto del venir ad esistenza di altri elementi costitutivi perché, possibili o probabili nella loro insorgenza, sono nondimeno legati ad una progressione di eventi il cui susseguirsi temporale ne determina l’insorgenza definitiva e finale: tale è il diritto alle prestazioni previdenziali, soprattutto quelle legate all’età pensionabile.
Nel caso ci troviamo di fronte non ad un diritto già nato, valido e completo nei suoi elementi costitutivi, ma ad un diritto in fieri la cui nascita è differita nel tempo e che si perfeziona solo allorquando viene in vita l’ultimo tassello cui ne resta subordinata l’insorgenza (ad es., compimento dell’età anagrafica e maturazione del requisito contributivo).
In questo senso appare impensabile che il danno da omessa o irregolare contribuzione non abbia una formazione differita nel tempo e ponga il suo movente iniziale nel rapporto di lavoro da cui trae origine, anche se per mera occasionalità, l’obbligo di versamento della contribuzione.
Il diritto alla prestazione previdenziale, in una siffatta situazione, matura di volta in volta, con il susseguirsi del tempo e dei fatti giuridici presupposti: all’inizio sono presenti solo alcuni componenti del suo codice genetico e si perfeziona solo allorquando siano entrati nel patrimonio storico tutti gli elementi costitutivi della fattispecie a seguito del suo evolversi strutturale fino al completamento della fattispecie.
In questo senso la nullità assoluta cui si vorrebbe affetta la rinuncia ricadrebbe certamente su di un diritto futuro, ma anche su un diritto originato da una fattispecie a formazione progressiva, nella misura in cui può considerarsi tale “quella fattispecie che necessariamente consta di fatti che si devono succedere nel tempo, nel senso che uno di essi non può che seguire l’altro. In tal caso, nei limiti in cui sia ravvisabile una aspettativa legittima tutelata dalla legge, anche l’accadimento di un solo fatto può essere produttivo di effetti, ma non finali, quanto piuttosto prodromici e strumentali nel senso che si è detto” ([19]).
In un tale contesto, prima che si formi il rapporto definitivo, l’ordinamento non ritiene irrilevanti le singole posizioni già sorte e concede particolare importanza alla disciplina di rapporti che la legge instaura tra soggetti in vista di un rapporto definitivo ([20]).
A fornire credito ad una tale asserzione, appare ancora più esplicita la situazione di pendenza che in tale evenienza si genera se solo si considera il fatto che nel medio tempore si realizza una posizione di aspettativa.
Sostiene in proposito la dottrina che “Può avvenire che l’acquisto di un diritto derivi dal concorso di più elementi successivi. Se di questi alcuni si siano verificati ed altri no, si ha la figura dell’aspettativa…” la quale “… è perciò un interesse preliminare del soggetto, tutelato in via provvisoria e strumentale, ossia quale mezzo al fine di assicurare la possibilità del sorgere di diritti. Quest’ipotesi del diritto soggettivo che si realizza attraverso stadi successivi viene anche considerata, oltre che dal lato del soggetto (la cui situazione psicologica è di attesa: perciò aspettativa), sotto il punto di vista oggettivo della fattispecie. Si parla, infatti, di fattispecie a formazione progressiva, per dire che il risultato si realizza per gradi, progressivamente (prima l’aspettativa, poi il diritto) e l’aspettativa attribuita al singolo costituisce un effetto preliminare o prodromico o anticipato della fattispecie.” ([21]).
Insomma, proprio perché nella fattispecie a formazione progressiva o successiva i singoli elementi costitutivi non sono contestuali, ma si dispongono in ordine successivo nel tempo, la formazione definitiva del diritto è preceduta da una “fase preliminare di gestazione” ([22]), alla quale, a fronte degli effetti finali, detti anche definitivi, che sono ricollegati dalla legge alla fattispecie complessivamente intesa, si ricollegano dal punto di vista oggettivo taluni effetti c.d. anticipatori o prodromici e dal punto di vista soggettivo una posizione di aspettativa ([23]).
Ossia, se da una parte si richiede che tutti i fatti e/o atti della sequenza legale si siano avverati, così da esaurire l’intero iter formativo della fattispecie stessa, dall’altra il dispiegarsi parziale e progressivo di essi pone in essere una preliminare fase di “pendenza”, la quale, sebbene sia caratterizzata da uno stato di incertezza sulla futura produzione degli effetti definitivi ([24]), risponde all’idea di fondo, per la quale “… se la fattispecie consta di una serie di fatti che si succedono nel tempo, si possono verificare effetti prodromici o preliminari, prima che l’intera serie sia completata… Senza dubbio questa protezione è minore di quella prevista quando la fattispecie sarà completa in tutti i suoi elementi, ma l’effetto anticipato non si può negare…” ([25]).
Ora, a voler ragionare in relazione alla fattispecie in esame, se si presume la fondatezza della soluzione prospettata dalla Suprema Corte nella sentenza presa a spunto delle presenti osservazioni, non si può negare che, per essere coerenti con detta soluzione, il ragionamento deve necessariamente rispondere al meccanismo della fattispecie a formazione progressiva, perché solo se si presume la preliminare sequenza costitutiva di una pluralità di elementi che si dispongono in ordine successivo secondo una procedura organizzata e necessaria, si può concludere per la possibilità di disporre della fattispecie in ordine agli effetti cui è orientato il procedimento di formazione della situazione finale prima che il diritto sia sorto nella sua integralità.
Infatti, per effetto della creazione del rapporto giuridico previdenziale, sia se generato dal rapporto di lavoro per relazione conseguenziale immediata e diretta sia per rapporto di mera occasionalità, si genera una situazione di pendenza caratterizzata da effetti giuridici preliminari o prodromici e da situazioni di interesse tutelate dall’ordinamento in funzione della definitiva consolidazione della fattispecie: il lavoratore non è ancora titolare del diritto alla prestazione previdenziale legata alla omessa o irregolare contribuzione previdenziale e non si sa se lo diverrà, ma la posizione di interesse iniziale, giuridicamente riconosciuta come tale, si pone in funzione di un suo ulteriore evolversi in una situazione finale di diritto soggettivo, alla quale evidentemente sotto il profilo soggettivo è preliminare una situazione di c.d. aspettativa a titolo di antecedente logico-giuridico che poi consente al diritto di venire ad esistenza.
Infatti, in detta ipotesi ci troviamo innanzi ad una semplice potenzialità giuridica: il diritto non è ancora nato, è solo in embrione, perché ciò che è maturato al tempo della rinuncia e/o transazione è solo uno dei tasselli, o meglio, un segmento dell’intera vicenda costitutiva della fattispecie di cui lo spezzone di anzianità previdenziale rappresenta uno dei fatti costitutivi.
Dunque, in siffatta evenienza la rinuncia del lavoratore subordinato non concerne diritti condizionati, ancorché eventuali nella loro operatività, bensì il presupposto logico-giuridico e sostanziale costitutivo degli elementi genetici dei suddetti diritti, in quanto il negozio dismissivo è diretto e finalizzato ad impedire al lavoratore la acquisizione del diritto.
Da ciò consegue che, potendo formare oggetto di rinuncia o transazione solo quei diritti o quelle posizioni giuridiche parziali già acquisite dal titolare, si può parificare a tale situazione il caso della dismissione della posizione di mera aspettativa.
Se per quanto riguarda la rinunziabilità dei diritti futuri, pur nelle oscillazioni sopra accennate, fondamentalmente dottrina e giurisprudenza ritengono che, nell’ambito del diritto del lavoro la fattispecie sconta il regime della nullità assoluta ex art. 1418 c.c., per quanto concerne la rinuncia ad una mera posizione di aspettativa la medesima soluzione non è poi così sicura, perché in tal caso oggetto del negozio dismissivo non sarà più il diritto complessivamente considerato nella sua configurazione finale e definitiva, ma il ben più limitato interesse che consegue alla situazione di aspettativa.
Senza voler tergiversare sul punto, l’aspettativa è “… uno stadio preliminare del diritto soggettivo … che … è necessario, ma non ancora sufficiente, perché possa sorgere un vero e proprio diritto. In attesa che si verifichi l’ulteriore fatto …, che determinerà la nascita di quella più completa forma di protezione che è appunto il diritto soggettivo, può ragionevolmente ammettersi la possibilità di un meccanismo di protezione che assicuri il possibile verificarsi dell’ulteriore elemento della fattispecie, o che garantisca … il normale iter formativo della situazione alla quale si ricollega il sorgere del diritto. Quando l’ordinamento giuridico riconosce la legittimità di un interesse siffatto, non si avrà ancora la tutela dell’interesse-risultato … ma si avrà la tutela di un interesse preliminare, tutela che ha per sua natura il carattere della provvisorietà e quello della strumentalità” ([26]).
Alla luce di questa ricostruzione bisogna allora rileggere tutta la dottrina sopra riportata: in una tale analisi a ritroso si può notare che gli stessi autori che hanno sostenuto la irrinunziabilità dei c.d. diritti futuri non pongono, invece, alcun dubbio sulla possibilità di compiere atti dismissivi aventi ad oggetto una situazione di c.d. aspettativa ([27]).
Ciò porta anche ad una necessaria reinterpretazione dei principi affermati più volte dalla Suprema Corte, nell’alveo dell’indirizzo giurisprudenziale cui si inserisce, da ultimo, la richiamata sentenza n. 3963 del 2001.
Ora, si può anche ritenere che nel caso di omissione contributiva il lavoratore può chiedere la tutela della sua aspettativa concernente le prestazioni assicurative ancora prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali; si può anche ritenere – come si esprime il giudicante nella prefata sentenza – che “… il diritto ad agire giudizialmente, una volta verificatosi l’inadempimento del datore di lavoro nel versamento dei contributi, per ottenere, pur in forma di condanna generica, il risarcimento del danno derivante da tale omissione contributiva, costituisce diritto che viene acquisito dal lavoratore a seguito ed in conseguenza del detto inadempimento e che è quindi, in ragione di ciò, suscettibile di formare oggetto di accordo transattivo alla stregua degli altri diritti maturati a favore del lavoratore in relazione all’avvenuto svolgimento de rapporto di lavoro”.
Una tale soluzione, in quanto nulla aggiunge alle considerazioni motivazionali rispetto alle altre sentenze in materia, più che inaugurare un nuovo indirizzo, si colloca su di un solco antitetico rispetto a quello che la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, con l’intervento delle sezioni unite, ha definitivamente provveduto a “cristallizzare”: il diritto al risarcimento del danno per omessa o irregolare contribuzione assicurativa sorge nel momento in cui si verifica il duplice presupposto dell’inadempienza contributiva del datore di lavoro e della perdita totale o parziale della prestazione previdenziale ([28]).
Ora fermo restando che la soluzione prospettata dai giudici di legittimità nella citata sentenza n. 3693/01 non collima con i principi già elaborati in materia, si diceva che si può anche giungere ad una tale conclusione: ciò è ovviamente possibile e la sua fattibilità fenomenica non è in discussione; però vi è anche da dire che una tale conclusione deve anche essere la risultante di un iter argomentativo condotto sui binari delle rigorose regole della logica e del diritto.
All’uopo, l’orientamento in esame della Corte poggia su due solidi principi da cui trarre le successive conclusioni: 1-) il diritto al risarcimento del danno per omessa o irregolare contribuzione sorge nel momento in cui si realizza il duplice presupposto dell’inadempimento contributivo e della perdita totale o parziale della prestazione previdenziale; 2-) il lavoratore può comunque chiedere la tutela della sua aspettativa concernente le prestazioni assicurative ancora prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni.
Applicando detti principi, la avversata giurisprudenza della Suprema Corte assume quanto segue: “Alla stregua di tali principi va pertanto che il diritto ad agire giudizialmente, una volta verificatosi l’inadempimento del datore di lavoro nel versamento dei contributi, per ottenere, pur in forma di condanna generica, il risarcimento del danno derivante da tale omissione contributiva, costituisce diritto che viene acquisito dal lavoratore a seguito ed in conseguenza di detto inadempimento e che è quindi, in ragione di ciò, suscettibile di formare oggetto di accordo transattivo alla stregua degli altri diritti maturati a favore del lavoratore in relazione all’avvenuto svolgimento del rapporto di lavoro” ([29]).
Una tale conclusione, così come apoditticamente riportata, non sembra seguire la regola logica della consequenzialità.
Infatti, ad analizzare il richiamato orientamento giurisprudenziale, ci si avvede che la ricostruzione della fattispecie o risulta affetta da illogicità – il che può essere solo una impressione “prima facie”- o – come è da ritenersi – richiede una attenta e puntuale analisi del substrato argomentativo non esternato nelle motivazioni ma evidentemente presupposto a suo implicito fondamento.
Cominciamo con l’analizzare il primo dei principi recepiti dall’indirizzo giurisprudenziale in esame.
Si tratta della individuazione del presupposto primordiale posto a fondamento della obbligazione risarcitoria di cui all’ art. 2116, secondo comma, cod. civ. e, in buona sostanza, della necessità di determinare il momento in cui si perfeziona la fattispecie di responsabilità del datore di lavoro e sorge il diritto al risarcimento del danno.
Premesso che in materia la giurisprudenza non ha mai dubitato della prescrittibilità e disponibilità del diritto al risarcimento del danno perché autonomo rispetto al diritto ordinario di natura indisponibile relativo alla posizione assicurativa ([30]), inizialmente la giurisprudenza medesima ha sostenuto che il diritto al risarcimento, secondo una tesi ormai del tutto abbandonata, sorgerebbe al momento dell’inadempimento dell’obbligo di pagare i contributi, in quanto lesivo del diritto alla posizione assicurativa ([31]).
Ma un tale indirizzo – come già detto – è stato successivamente soppiantato dalla stessa Corte mediante l’intervento delle sezioni unite, che di seguito ha enunciato un principio dal quale la giurisprudenza successiva non si è mai discostata: secondo tale indirizzo il diritto al risarcimento del danno per omessa o irregolare contribuzione assicurativa, di cui al secondo comma dell’art. 2116 c.c., sorge nel momento in cui si verifica il duplice presupposto dell’inadempienza contributiva del datore di lavoro e della perdita totale o parziale della prestazione previdenziale ([32]).
Il principio trova successiva esplicazione in altre sentenze nelle quali si specifica ancora più chiaramente che “Il diritto al risarcimento del danno da omessa o irregolare contribuzione assicurativa sorge con il realizzarsi dell’intera fattispecie, che si pone in essere con la perdita totale o parziale della prestazione previdenziale, la quale non può, a sua volta, ritenersi verificata se non quando, venuti a concreta esistenza tutti gli altri presupposti della sua erogazione, essa non possa essere fornita, in tutto o in parte” ([33]).
Detta azione, dunque, perché possa ritenersi sorta la fattispecie, postula sia l’inadempienza contributiva sia la conseguente perdita totale o parziale della prestazione assicurativa: è tale il momento in cui sorge il diritto del lavoratore al risarcimento del danno ex art. 2116, secondo comma, c.c. ([34]).
Appare evidente, dunque, come il diritto alla c.d. integrazione patrimoniale, ossia il diritto al risarcimento per omessa o irregolare contribuzione assicurativa, di cui all’art. 2116 c.c., non possa essere legato ad una mera probabilità per il solo fatto che sia maturata l’inadempienza contributiva del datore di lavoro, ma la fattispecie richiede l’integrazione con un altro elemento: l’attuale perdita della prestazione previdenziale, atteso che nel periodo antecedente non è neppure certo che il danno abbia a verificarsi ([35]).
Se questa è la giurisprudenza in materia, appare evidente come, se la Suprema Corte abbia voluto intendere, nell’indirizzo in commento, che il diritto al risarcimento del danno consegua sic et simpliciter all’inadempimento della obbligazione contributiva, incorra in una erronea lettura dei suoi precedenti obiter dicta, anche di quelli espressamente evocati a sostegno dello specifico orientamento ([36]).
Se così invece non è, come si è fermamente convinti, allora quale significato dare alle motivazioni rese dalla Suprema Corte a sostegno della tesi in esame?
Per evitare il ritorno o la rievocazione di orientamenti giurisprudenziali nel tempo abbandonati e dei quali di fatto non si scorge alcun margine per riconsiderarne la possibilità di reviviscenza ([37]), evidentemente alle ragioni che la Suprema Corte adduce a sostegno della tesi nessun altro significato può essere dato se non quello finalizzato a configurare il conseguimento della prestazione previdenziale come una fattispecie a formazione progressiva, nell’ambito della quale il corretto adempimento della prestazione contributiva da parte del datore di lavoro costituisce oggetto di una aspettativa che, come tale, è situazione soggettiva autonomamente tutelabile ancora prima che il diritto soggettivo, al cui sorgere è strumentale, venga ad esistenza.
Una tale situazione trova conforto nel rinvio motivazionale, rinvenibile nelle ultime pronunce in tal senso espresse, alla sentenza Cass. 26.05.1995, n. 5825, pronuncia nella quale la Suprema Corte ha fatto espressamente richiamo ad una preventiva situazione di aspettativa della quale dovrebbe essere possibile, mediante una azione di condanna generica, la tutela anticipata rispetto al diritto cui è funzionalmente preordinata.
Dunque, il ragionamento rinvenibile, per sintesi, nell’indirizzo in esame può trovare una sua giustificazione, o meglio, un suo fondamento logico-giuridico solo a condizione che tutta la vicenda venga riletta alla luce delle sopra riportate considerazioni in tema di fattispecie a formazione progressiva, di cui il caso in esame sarebbe una tipizzazione o una ipotesi esplicativa; altrimenti argomentando si dovrebbe concludere, ignorando un costante ed univoco orientamento che trae origine da una pronuncia a sezioni unite e mai contraddetto negli ultimi venti anni, che il diritto al risarcimento del danno per omessa contribuzione sorga al semplice verificarsi dell’inadempimento contributivo ([38]).

6. – La ricostruzione del problema nella prospettiva dell’art. 2113 c.c: l’accertamento generico e la condanna futura. Questa è una possibile – la più verosimile – ricostruzione ermeneutica dell’orientamento giurisprudenziale rinverdito dalla sentenza n. 3963 del 2001, ma ciò non significa anche che, corretta dal punto di vista logico-giuridico e formalmente legittima, la soluzione sopra prospettata, pur nella rigorosità della ricostruzione scientifica da cui consegue, possa ritenersi condivisibile nel merito, soprattutto se comparata con i consolidati principi elaborati dalla medesima Corte nel corso di due lunghi decenni.
Tale convinzione non è suscitata da alcuna petizione di principio, ma è solo ed esclusivamente il frutto di un convincimento formatosi a mero titolo speculativo.
A confutare la soluzione prospettata dai giudici di legittimità basta rendere conto di quanto già più volte affermato dalla medesima Corte nella stessa materia, con sentenze a volte confermate addirittura mediante una reiterazione semantica di precedenti giurisprudenziali.
Uscendo dalla specificità dell’art. 2116, secondo comma, c.c. e riguardando il problema dall’angolo di una visuale più ampia, quella dell’art. 2113 c.c., pur nella integrazione delle due disposizioni, è stato sostenuto che sono sottratte dal regime dell’impugnabilità di cui alla norma da ultimo citata e possono essere considerate affette da nullità assoluta non tutte le rinunce ai diritti derivanti da norme di fonte inderogabile, ma solo quelle rinunce connotate essenzialmente dalla mancanza originaria della causa, in quanto aventi ad oggetto diritti che, non ancora entrati nel patrimonio dei disponenti, sono connotati da una essenziale incertezza in quanto all’ “an” perché diritti di potenziale e futura acquisizione ([39]).
In sostanza, applicando detto principio, l’art. 2113 c.c. dovrebbe disciplinare il fenomeno della rinuncia ai diritti già maturati e non quello della rinuncia preventiva ad un diritto futuro, benché sorretto da aspettative legate al meccanismo della formazione progressiva, dovendosi ritenere in tal caso la clausola del contratto individuale affetta da nullità assoluta ex art. 1419, secondo comma, c.c. per difetto genetico di uno dei suoi requisiti essenziali ([40]).
Infatti, come è stato osservato in dottrina, il contrasto con una norma imperativa di legge è vizio diverso dalla mancanza originaria della causa, perché nel primo caso si pone comunque il problema di verificare se, in relazione alla natura imperativa della norma, la inderogabilità produce anche la indisponibilità ([41]), nel secondo caso, invece, il problema della applicabilità dell’art. 2113 c.c. non si pone già ab imis perché il vizio colpisce alla radice l’atto dismissivo indipendentemente dalla natura della norma su cui si fonda il diritto leso, in virtù dell’art. 1325 in combinazione con l’art. 1418, secondo comma, c.c.: mentre la natura imperativa della norma non esclude per tale esclusiva caratteristica la disponibilità del diritto; il vizio genetico o funzionale ricadente sulla causa, invece, determina sempre la nullità dell’atto indipendentemente dalla disponibilità del diritto.
Dunque, si deve inferire che nel caso in cui la rinuncia riguardi un diritto non ancora acquisito al patrimonio del disponente, l’atto dismissivo sarebbe privo di una sua giustificazione causale, ossia non esplicherebbe alcuna funzione economico-sociale-individuale meritevole di apprezzamento e di tutela perché posto in essere senza una ragione giustificativa.
Rovesciando la prospettiva e anche a voler denegatamene ritenere esistente il requisito essenziale della causa, la nullità sarebbe ugualmente assoluta ex art. 1419, secondo comma, c.c. perché la fattispecie non richiamerebbe solo la violazione di una norma inderogabile di legge (art. 1419, primo comma, c.c), ma conseguirebbe sempre al vizio di uno dei requisiti essenziali del negozio, in quanto la causa sarebbe posta in funzione fraudolenta, intento rispetto al quale subordinatamente si porrebbe, ex art. 1344 c.c., l’ulteriore vizio della illiceità di una causa che comunque l’atto non ha ed ostenta ugualmente.
Questi principi trovano conferma nel fatto che la medesima giurisprudenza considera del tutto irrilevante l’elemento soggettivo o lo stato psicologico di affidamento del lavoratore, fino a ritenere del tutto irrilevante l’eventuale consapevolezza dell’omissione contributiva e della sua potenzialità dannosa ([42]).
Sul punto rileva, inoltre, la distinzione tra danno-evento, conseguente alla definitività dell’inadempimento, momento in cui non si è ancora prodotto il danno risarcibile, e danno conseguenza, consistente nella perdita patrimoniale, che si realizza soltanto con il verificarsi dell’evento protetto dall’assicurazione: solo rispetto al primo è possibile una azione di accertamento in generale ritenuta possibile dalla Suprema Corte sia in materia contrattuale che extracontrattuale ([43]).
Infatti, la definitività dell’inadempimento (danno-evento) non significa necessariamente anche produzione del danno risarcibile, consistente nella perdita o nella diminuzione della prestazione previdenziale (danno-conseguenza), se ancora non si è verificato l’evento protetto dall’assicurazione.
Questo principio generale trova specificazione proprio nella materia in esame, dove ormai la esperibilità di una azione di mero accertamento o di condanna generica è un dato acquisito: il lavoratore, nella pendenza della fattispecie, può avvalersi, a tutela delle sue prerogative, dello strumento della condanna generica.
Ciò è vero e trova riscontro in numerose sentenze, ma tutte le pronunce monitorate non suppongono mai una pregiudizialità della domanda di preventivo accertamento sull’ “an” del diritto al risarcimento rispetto a quella ordinaria che può avere ad oggetto non solo l’ “an” ma anche il “quantum” del risarcimento: una tale soluzione trova, invece, originaria cittadinanza nell’ultimo “capolavoro” della giurisprudenza ([44]).
Se una tale pregiudizialità fosse fondata, si finirebbe per dissociare l’accertamento della fondatezza del diritto al risarcimento dalla quantificazione del danno.
Ma una tale soluzione, pur nella sua originalità, non trova riscontro in alcun precedente giurisprudenziale e, salvo improbabili inversioni, non è destinata a trovare seguito alcuno, proprio per la sua incoerenza, prima dogmatica e poi logico-giuiridica, con i consolidati principi di cui si è innanzi discettato.
Allora, la soluzione che ne deriva necessita di un correttivo, già suggerito dalla generalità delle sentenze considerate: la possibilità di agire per una condanna generica non costituisce il contenuto di un obbligo per il lavoratore nei cui confronti sia omesso il versamento dei contributi, sì da precludere, in caso di inerzia, la successiva possibilità di agire per il risarcimento del danno, ma si pone nel mero ambito delle facoltà, senza che dal mancato esercizio ne possa derivare pregiudizio per il ristoro del danno.
Si noti bene: facoltà e non onere, per cui dal suo mancato esercizio nessun pregiudizio per decadenza ne subisce il titolare, perché, ove non esperita l’azione per la condanna generica, non risulta pregiudicata l’azionabilità del diritto al risarcimento del danno ([45]).
Da ciò consegue che non appare convincente l’assunto secondo il quale, avendo il lavoratore la possibilità di agire in sede di mera condanna generica o futura chiedendo l’accertamento di un inadempimento e la sua potenzialità lesiva, vede poi preclusa la possibilità di agire in sede di condanna nel momento in cui il diritto viene acquisito al patrimonio del lavoratore-creditore per l’attualità del danno se prima non ha agito per l’accertamento del semplice “an”.
Per di più una tale soluzione finirebbe per determinare uno sviamento rispetto alle ragioni che in altre consimili situazioni hanno indotto la Suprema Corte a ritenere percorribile la strada della “condanna generica” o del giudizio di mero “accertamento”.
Infatti, l’escogitazione della “condanna generica” consegue alla specifica ratio di tutelare il lavoratore, nei confronti del quale invece oggi lo stesso strumento, ove fosse legittimato l’effetto preclusivo del preventivo meccanismo della condanna generica, si riverserebbe paradossalmente in danno del soggetto a presidio del quale è stato validato.
Per dare riprova di ciò basta citare qualche massima, a titolo di prototipo del ragionamento costantemente posto in essere dalla giurisprudenza in materia ([46]).
E’ questo il motivo per cui altra giurisprudenza, soppiantando il rapporto di alternatività, considera più realisticamente le due azioni autonome e cumulabili: la condanna generica ha ad oggetto una mera aspettativa, la condanna al risarcimento, invece, un vero e proprio diritto ([47]).
Si badi bene: l’interesse ad agire suppone sempre l’esigenza di ottenere un risultato utile, che può identificarsi anche nell’azione di accertamento, ma l’esperibilità di una tale azione non può mai pregiudicare la possibilità di conseguire sempre e comunque l’interesse giuridicamente apprezzabile che il lavoratore ha diritto ad acquisire in via definitiva, senza che ciò sia precluso dalla mancata tutela di una situazione soggettiva di semplice aspettativa.
Allora, da quale impulso potrebbe essere spinto il Giudice nel negare autonomia alla fattispecie risarcitora?
Ribadendo che la posizione assunta dalla giurisprudenza in ordine al momento in cui si perfeziona la fattispecie di responsabilità può dar luogo al pratico inconveniente di non consentire al lavoratore di far valere l’inadempimento (definitivo, per essersi maturata la prescrizione dei contributi) se non a distanza di tempo, talvolta notevolissima, la stessa giurisprudenza, con empirismo funzionale, è giunta all’apprestamento di una tutela davvero completa e generale, ed ha ammesso che contro l’inadempimento, divenuto definitivo perché la prescrizione impedisce la regolarizzazione contributiva, ha supposto che l’inadempimento possa formare oggetto di accertamento da parte del giudice prima ancora del completo verificarsi della fattispecie risarcitoria, ed ha riconosciuto la possibilità di proporre una domanda di mero accertamento dell’illecito e della responsabilità potenziale, o di condanna generica del risarcimento del danno, restando riservato al Giudice della liquidazione di accertare se il nocumento si sia verificato in concreto e in quale misura.
Atteso, dunque, che il giudicato sull’an debeatur accerta l’astratta possibilità dannosa dell’omissione contributiva, ma non preclude di stabilire che in concreto il danno si è o non si è verificato, oggi ritenere che l’astratta esperibilità di una tale azione non facoltizza il lavoratore ma gli impone l’obbligo di proporre la domanda di mero accertamento dell’inadempimento o di condanna generica per l’illecito, si opererebbe non solo una sovrapposizione ma una vera sostituzione al diritto al risarcimento di una astratta potenzialità dannosa dell’illecito.
Una tale operazione, oltre i dubbi di “arbitrarietà” per la sua atipicità categoriale, è anche una immotivata regressione rispetto a principi consolidati senza che ciò sia giustificato da una qualsivoglia e pur minima modificazione del quadro normativo e sostanziale di riferimento.

7. – Il punto di vista della dottrina giusprevidenzialistica. Però questo modo di affrontare e risolvere problemi così particolari, oltre a non rispondere alle legittime considerazioni sopra esposte, non trova commenti favorevoli nemmeno nella dottrina giusprevidenzialistica, la quale osteggia una siffatta soluzione per ragioni diverse da quelle in commento.
La dottrina, infatti, pur avendo consapevolezza di essere in contrasto con un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, addirittura riporta le censure alle estreme conseguenze.
Un accenno a tali posizioni, anche se comporta la risoluzione di problemi aggiuntivi ed ulteriori rispetto a quelli che la più limitata e specifica materia del risarcimento del danno per omessa contribuzione sembra evidenziare, è comunque d’obbligo, pur nell’avvertenza che non sembra opportuno un approfondimento nelle presenti considerazioni.
Infatti, qui addirittura è stato revocato in dubbio uno dei principi cardini in materia: il diritto al risarcimento del danno ex art. 2116, secondo comma, c.c., sotto il triplice profilo genetico, funzionale e strutturale sarebbe collegato al rapporto previdenziale e non a quello di lavoro, trovando nel primo la causa pretendi e nel secondo la mera occasione: “Poiché il cosiddetto rapporto previdenziale ha … multiformi manifestazioni, si deve ammettere che il principio di autonomia non può non valere pienamente anche quando si faccia questione, ad esempio, degli obblighi di cui all’art. 2115 c.c…. Infatti, le obbligazioni del datore di lavoro, concernente la tutela previdenziale dei propri dipendenti, non possono ritenersi inserite nel contratto di lavoro, alla stregua degli obblighi legali diretti a rafforzare e qualificare i doveri di protezione costituenti il corrispettivo … della prestazione di lavoro: esse sono, invece, con quelli soltanto interferenti, per la necessaria, istituzionale intersecazione del rapporto di lavoro con i rapporti che nascono dalla acquisizione dello status previdenziale, e mantengono, perciò, la propria identità di obbligazioni che trovano fonte e giustificazione in quest’ultimo. Conformemente a tale impostazione, è da ritenere … che non solo le azioni ex art. 2115 c.c., ma anche le azioni ex art. 2116 c.c. e ex art. 13, legge n. 1338 del 1962 trovino la loro causa pretendi non già nel rapporto di lavoro, bensì in una obbligazione inerente al rapporto previdenziale. E’ ben vero che, in tal caso, la finalità previdenziale viene realizzata attraverso un rapporto diretto tra datore di lavoro e lavoratore; ma tale elemento non è sufficiente per affermare che la relativa controversia non attiene al rapporto previdenziale…, essendo, invece, determinante accertare, preventivamente, se la specifica obbligazione del datore di lavoro faccia parte del rapporto di lavoro o non piuttosto del rapporto previdenziale: se essa, cioè, sia inerente alla disciplina legale del primo, piuttosto che alla disciplina del secondo. Poiché l’art. 2116 non sanziona altro che le conseguenze dell’inadempimento di obbligazioni specifiche del soggetto passivo del rapporto previdenziale, al pari di quest’ultimo, nel suo complesso, l’obbligazione risarcitoria del danno conseguente ad omissione o tardivo pagamento dei contributi previdenziali deve, pertanto, ritenersi collegata soltanto estrinsecamente al rapporto di lavoro. In altri termini, l’azione ex art. 2116 c.c., avendo come presupposto lo status previdenziale e come fatto costitutivo la violazione di un diritto riconosciuto dalla legge al titolare dello status nei confronti del proprio datore di lavoro, è da ritenere che dia luogo ad una controversia di natura previdenziale, in senso tecnico” ([48]).
Queste considerazioni trovano conferma nel fatto che la giurisprudenza, nella problematica in esame, non ha percepito come “… laddove si affermava l’esistenza di un pregiudizio attuale alla sfera giuridica del lavoratore, si assumeva a riferimento, necessariamente ed esclusivamente, il rapporto previdenziale e l’interesse alla sua conservazione e ricostituzione, nonché al suo completamento. Si verifica, per questa via, una vera e propria scissione di piani. Si ritiene, infatti, che per l’azione di risarcimento del danno per omessa contribuzione … la prescrizione … decorre dalla perdita totale o parziale della prestazione previdenziale … ma si ammette la legittimità delle transazioni tra le parti, negando l’applicabilità dell’art. 2115, terzo comma, c.c. Sembra così doversi concludere che il percorso ricostruttivo è ancora da terminare, sussistendo l’ostacolo di voler conservare margini di disponibilità alle parti private in una materia in cui risulta difficile (perché riferita a fatti risalenti nel tempo) il recupero di certezze in ordine all’identificazione ed alla prova della sussistenza dei presupposti dell’obbligazione contributiva. Va detto, peraltro, che il persistente richiamo alla responsabilità contrattuale, se appare pragmaticamente utile per la soluzione del caso concreto (attraverso l’utilizzo del percorso transattivi), lascia aperto un vuoto difficilmente spiegabile del sistema previdenziale…, laddove lo stesso è centratosi di un modello legale inderogabile di realizzazione della tutela, il cui cardine consiste nell’erogazione di una rendita (e non di un capitale)” ([49]).
Tali osservazioni, più che una variante rispetto alle soluzioni sopra riportate, sembrano porre problemi “de iure condendo” per la supposta rilevanza pubblicistica dell’interesse protetto, natura su cui una semplice modulazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza non pare che possa influire in maniera determinante fino a consentirne il mutamento della identità, perché la mancata operatività del principio dell’automatismo delle prestazioni ex art. 2116, primo comma c.c., non è di per sé sufficiente a far acquisire al lavoratore una posizione costituiva dello status previdenziale: il diritto di chiedere il risarcimento del danno al datore di lavoro, così come previsto dal secondo comma dell’art. 2116 c.c., costituisce certo una norma di chiusura che completa la tutela previdenziale del lavoratore subordinato, ma è e resta una norma operante nell’ambito del diritto civile per sanzionare un inadempimento contrattuale senza trasmigrare nell’ordinamento previdenziale (“La responsabilità deriva dalla violazione da parte del datore dell’obbligo contributivo, il quale, quindi, se ha rilevanza nei rapporti con l’ente previdenziale, che ne è il creditore, s’inserisce anche negli obblighi di correttezza e buona fede del datore di lavoro a tutela dell’integrità fisica e morale [ex art. 2087 c.c.] del prestatore, nella quale è compresa la liberazione dallo stato di bisogno determinato dalla perdita o dalla riduzione della capacità di lavoro o di guadagno. Sotto questo aspetto, l’obbligo contributivo rientra negli effetti integrativi del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 1374 c.c., con conseguente natura contrattuale della responsabilità in cui incorre il datore per il danno che il lavoratore subisce a causa dell’omissione contributiva” ([50]).
La soluzione quivi prospettata dalla dottrina, data la modificazione diametrale della prospettiva, richiederebbe ben altre considerazioni involgenti i presupposti fondamentali di identificazione dell’istituto, ossia si tratterebbe di rimettere in discussione un dato stabilmente acquisito al patrimonio giurisprudenziale: che la responsabilità del datore di lavoro nella fattispecie ha natura contrattuale ([51]).
Ma una tale opzione, stante l’assetto ormai definito dell’istituto, o richiama un intervento politico di revisione legislativa della materia, oppure, in mancanza, evoca una precisazione giudiziale in sede di interpretazione del dato legislativo che, allo stato, in quanto a venire, non può costituire oggetto della presente trattazione, perché, stante la configurazione della responsabilità nascente da omessa o irregolare contribuzione come responsabilità civile e, segnatamente, di responsabilità contrattuale, la esigenza della tutela discende sempre e comunque dalle regole civilistiche e si attua con le tecniche proprie dei rimedi c.d. sinallagmatici.

8. – La intangibilità della posizione contributiva e l’art. 1 della legge n. 383 del 2001: la dichiarazione di emersione del lavoro irregolare ed il concordato previdenziale per gli anni pregressi nell’ottica dell’art. 2116, secondo comma, cod. civ. Fermo restando che l’assetto normativo generale della materia è ancora quello sopra delineato, eppure un intervento legislativo, anche se settoriale ed indiretto, recentemente vi è stato: si tratta di disposizioni ad efficacia temporalmente limitata e definita la cui operatività si esaurisce nello specifico ambito di elezione della emersione dell’economia sommersa; ma si tratta anche di norme che contengono ed inaugurano un principio il quale, se reiterato, potrebbe perpetuarsi e divenire “patrimonio” dell’ordinamento applicabile a fattispecie diverse ed ulteriori rispetto a quelle nelle quali allo stato attuale è preordinata la sua operatività.
Il riferimento è alla legge 18 ottobre 2001, n. 383, intitolata “Primi interventi per il rilancio dell’economia”, il cui primo articolo definisce, tra l’altro, il regime normativo per la regolarizzazione dei rapporti di lavoro svolti in violazione degli obblighi contributivi.
Detta legge principalmente dispone, attraverso un derogatorio meccanismo impositivo, un particolare regime fiscale e contributivo agevolato il cui scopo è quello di consentire la emersione del lavoro c.d. irregolare o “in nero”.
Il programma di emersione di per sé, dal punto di vista previdenziale, può anche essere del tutto indifferente per il lavoratore, il quale non vede assolutamente pregiudicata la propria posizione contributiva, salvo gli effetti – peraltro, non escluso, potenzialmente favorevoli ed apprezzati dai singoli lavoratori come tali – sulla imposizione complessiva in caso di adesione al programma (ved. art. 1, secondo comma lettera b-, per il quale detti lavoratori per un triennio sono esclusi dalla contribuzione previdenziale e ad essi si applica un’unica imposta sostitutiva sul reddito con aliquote progressive).
Il problema, invece, si pone in tutta la sua evidenza per il pregresso, in quanto la dichiarazione di emersione può valere anche come proposta di concordato per i debiti fiscali e previdenziali del periodo precedente alla regolarizzazione: in questo caso per ciascuno degli anni regolarizzati “…il concordato produce effetti preclusivi, automatici degli accertamenti … previdenziali”: così recita il terzo comma del primo articolo, in forza del quale la regolarizzazione, se fornisce immunità al datore di lavoro, non ha rilevanza ai fini della ricostituzione della posizione previdenziale del lavoratore.
Parallelamente, recita il comma successivo, il lavoratore può condonare, mediante il pagamento di una contribuzione sostitutiva, la propria quota di debito previdenziale e regolarizzare la propria posizione contributiva.
L’effetto che, per espressa previsione legislativa, deriva da un tale sistema è che all’estinzione del debito previdenziale da parte del datore di lavoro e, eventualmente, del lavoratore non consegue alcuna copertura contributiva: il lavoratore, se vuole che gli anni regolarizzati siano computabili nella anzianità previdenziale, è obbligato a ricostruire la posizione pensionistica mediante contribuzione volontaria, integrata percentualmente da un apposito fondo per la quota a carico del datore di lavoro, fino alla concorrenza di un massimo di cinque anni.
Detta soluzione ha incontrato non poche perplessità in dottrina, fino al punto che è stato osservato che “La prima considerazione da fare è che, a prescindere dal nome nuovo, si è davanti a un condono previdenziale con il quale per la prima volta si consente al datore di lavoro di non pagare b integralmente la contribuzione. Tale soluzione normativa si pone in rotta di collisione con il sistema previdenziale ove la tutela della posizione previdenziale del lavoratore subordinato ha costituito una costante del sistema tant’è che l’unico a rispondere dell’inadempimento dell’obbligo contributivo è stato sempre il datore di lavoro e nella ipotesi del suo inadempimento scatta il c.d. principio di automatismo. Il legislatore … non si accontenta di consentire al datore di lavoro un pagamento unitario ed a stralcio dei suoi debiti pregressi alla dichiarazione di emersione … ma altresì coinvolge in tale operazione il lavoratore … che sino ad oggi e quanto meno nel rapporto previdenziale, era considerato il soggetto destinatario del reticolato di tutela e che, in ogni caso, non pare abbia alcun potere nei confronti del datore di lavoro affinché induca questi ad adempiere i propri obblighi di carattere previdenziale” ([52])
Dunque, l’estinzione del debito previdenziale, analogamente alla prescrizione dell’obbligo contributivo, integra “… un’ipotesi di vera e propria estinzione del rapporto obbligatorio” ([53])
Qui saltano le certezze che ogni giuslavorista legittimamente può pretendere di avere: i principi cardinali sui quali si fonda tutto l’ordinamento giuslavoristico vengono rimessi in discussione.
“Il lavoro dell’uomo per un altro uomo”, è stato scritto, “pone nei termini più crudi all’economia e al diritto il problema della libertà e della personalità umana del lavoratore … La personalità del lavoratore è impegnata col contratto di lavoro in due sensi, perché la prestazione di lavoro è inseparabile dalla persona del prestatore, e dunque questi deve immettersi nell’impresa, entrare a far parte dell’organizzazione porsi alle dipendenze altrui; e ancora perché questa dedizione personale del lavoratore all’impresa è normalmente esclusiva, onde la retribuzione che il lavoratore trae dal suo lavoro è il suo solo mezzo di sostentamento, la sua risorsa vitale… Se tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti, il contratto di lavoro riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere, il bene che è condizione dell’avere e di ogni altro bene. Ora chi si pone alle dipendenze di una altro, che deve lavorare e guadagnare per provvedere alla sua esistenza e a quella della famiglia, chi in questa lotta per la vita deve subire la concorrenza di tanti altri che si trovano nella stessa necessità è ben lontano dal trovarsi nelle condizioni in cui si trova chi vuol provvedere al suo profitto. La libertà e l’uguaglianza non avrebbero nessun significato effettivo, nessun contenuto concreto, sarebbero finzioni posticce, se l’ordinamento non tendesse a realizzare la pari dignità sociale …” ([54]).
Tuona lo studioso: “Questo è l’atto di nascita del diritto del lavoro… Qui sta … la spiegazione di tutto il diritto del lavoro” ([55]).
Più di mezzo secolo fa forse era inimmaginabile il rapido grande percorso che il diritto del lavoro era destinato a fare ed altrettanto inimmaginabile era la “fragilità” del suo sistema, fino al punto che una semplice disposizione normativa può avviarne il cammino verso il crepuscolo: questo è l’art. 1 della legge in questione, il quale, al di là della contingente fattispecie disciplinata, contiene il virus che potenzialmente può “infettare” il principio insito nella dichiarazione di nascita del diritto del lavoro: la situazione di debolezza del lavoratore e la disparità in pejus della sua posizione rispetto al datore di lavoro.
Al di là di ogni considerazione tecnica sulla legge, il criterio modulatore dei suoi contenuti ripudia la supposta differenziazione tra il datore di lavoro ed il lavoratore ed appare essere una postulata parità tra datore di lavoro e lavoratore, secondo il principio liberale della uguaglianza formale che presidia il diritto comune dei contratti; il che riporterebbe il rapporto di lavoro dal secondo comma dell’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza sostanziale) al primo comma della stessa disposizione (principio di uguaglianza formale).
Il condono previdenziale in questione non è il primo nel nostro ordinamento: altri ve ne sono stati, ma in ognuno di essi le prerogative previdenziali del lavoratore sono sempre state considerate come una intangibile variabile indipendente, o perché il datore di lavoro è stato comunque mantenuto nell’obbligo di versamento dei contributi e dei premi previdenziali evasi, compresi quelli a carico de lavoratore, con estinzione del debito in forma agevolata ([56]), o perché, pur ammettendo il datore di lavoro al pagamento di una quota percentuale del premio calcolato sui minimali contributivi, al lavoratore è stata ugualmente riconosciuta la possibilità di recuperare, fino ad un massimo di tre anni, la posizione contributiva attraverso la contribuzione figurativa a carico pro quota della fiscalità generale ([57]).
In nessuna di queste ipotesi il datore di lavoro ed il lavoratore sono mai stati messi sullo stesso piano: pur con le dovute varianti, in ambo i casi l’esigenza di tutela del lavoratore ha assunto priorità e maggiore valenza rispetto alla esigenza di salvaguardare la parità dei soggetti, proprio perché la garanzia della posizione previdenziale è speculare ad una supposta insolvenza del datore di lavoro su cui grava l’obbligo di trattenere e versare la quota di contributi posta a carico dei lavoratori (art. 2115 c.c.).
Nella normativa introdotta con la legge n. 383 del 2001, invece, si sottende, quale filosofia ispiratrice delle sue linee guida, la presunzione iuris et de iure di un consilium fraudis tra datore di lavoro e lavoratore.

9. – La tutela del lavoratore “emergente” e non “aderente: l’ottica dell’art. 2116, secondo comma, cod. civ. Ma non sempre le cose stanno così, anzi: può anche darsi e non è escluso che in ipotesi casisticamente irrilevanti vi possa essere la volontaria partecipazione del lavoratore alla evasione dell’obbligo contributivo, ed in questo senso la norma si porrebbe in funzione antifraudolenta; ma sono molti più – la quasi totalità – i casi in cui il lavoratore sia del tutto incolpevole, fino ad essere costretto a subire l’imposizione di un rapporto di lavoro irregolare.
Dunque, se la esclusione di una specifica tutela del lavoratore si giustifica quando l’evasione dell’obbligo contributivo si realizza con la partecipazione attiva del lavoratore, in modo che il datore di lavoro non paga i contributi a proprio carico e non trattiene quelli a carico del lavoratore, la medesima esclusione non si giustifica nel caso di involontaria condotta del lavoratore, laddove il datore di lavoro, oltre a non pagare i contributi a proprio carico, omette di riversare sulla retribuzione la quota spettante al lavoratore.
Da ciò non poche perplessità sulla legittimità della disposizione in esame, non per altro perché spetterà a dottrina e giurisprudenza valutare attentamente la conformità della normativa non solo con i parametri costituzionali nella cui cornice deve trovare giustificazione, ma anche con la direttiva del Consiglio CEE n. 80/87 del 1980 ([58]).
Infatti, non si può negare che la disciplina in commento incide sulla operatività del principio della automaticità delle prestazioni, collocandosi sul versante delle “… diverse disposizioni delle leggi speciali…”, al ricorrere delle quali l’art. 2116 c.c. fa salve le diverse previsioni normative, con effetto bloccante sull’automatismo delle prestazioni: il lavoratore non avrà più diritto alle prestazioni indipendentemente dall’assolvimento dell’onere contributivo da parte del datore di lavoro, ma le prestazioni saranno dovute solo ed in quanto provveda a ricostruire, mediante versamento dei contributi volontari, la propria posizione contributiva.
Con ciò, fermo restando la possibilità di derogare all’art. 2116 c.c., si realizza comunque una tutela conforme a quella prevista dall’art. 7 della direttiva sopra citata?
Per rispondere al quesito, senza addentrarci in considerazioni eccessivamente analitiche, non pochi dubbi suscita la normativa, quantomeno nella parte in cui non fornisce alcun valore al caso in cui l’evasione dell’obbligo contributivo avvenga senza la volontaria partecipazione del lavoratore, il quale rischia di diventare due volte vittima del proprio datore di lavoro: la prima volta perché, oltre a non vedere versata la quota di contributi a proprio carico, non se la ritrova nemmeno nella e quale retribuzione; la seconda volta perché, pur non avendo ricevuto dal datore di lavoro la quota di contribuzione che quest’ultimo avrebbe dovuto versargli quale sostituto d’imposta, è costretto ad accollarsi l’onere economico per la ricostituzione della sua posizione previdenziale.
La stessa normativa dovrà fare i conti oltre che con lo “…spirito del diritto del lavoro…”, altresì con un orientamento giurisprudenziale che, pur formatosi sull’art. 2116, secondo comma c.c., se confermato nei suoi principi anche in sede di applicazione della legge n. 383 del 2001, potrebbe scardinarne i meccanismi e renderla di fatto inoperante.
Si tratta di quell’orientamento, prevalente se non addirittura unanime, che nell’omissione contributiva considera del tutto irrilevante l’elemento soggettivo o lo stato psicologico di affidamento del lavoratore, fino a ritenere del tutto ininfluente l’eventuale consapevolezza dell’omissione contributiva e della sua potenzialità dannosa ([59]).
Questo ragionamento ci introduce all’esame del profilo, molto delicato, della tutela del lavoratore: se quest’ultimo aderisce al programma di emersione null’altro può fare se non ricostruire la propria posizione contributiva con il versamento dei contributi volontari ed agire – semmai la giurisprudenza si mostri favorevole – in via di regresso nei confronti del datore di lavoro per la restituzione di quanto versato.
Il problema per questa categoria di lavoratori “regolarizzati” si pone per il periodo di lavoro pregresso non soggetto a ricostituzione previdenziale ( il periodo oltre il quinquennio): in questo caso l’adesione al programma di emersione gli impedisce ogni azione a tutela della integrità della propria posizione contributiva? Si può ritenere applicabile alla fattispecie l’art. 2113 c.c. e configurare la medesima come una rinuncia o transazione assistita dalla validità perché vi partecipa l’autorità amministrativa? In caso positivo, nel caso non ci si troverebbe innanzi alla disposizione di una posizione previdenziale futura, con tutte le riserve già espresse?
Appare più plausibile in tutti questi casi ritenere che la normativa, avente carattere speciale, sia derogatoria ad ogni altra normativa ed impedisca al lavoratore ogni forma di azione; dunque, nessuna tutela, salvo il giudizio di congruità costituzionale.
Il problema, invece, si pone sul fronte della tutela del lavoratore che non aderisce al programma di emersione.
Qual è la sua situazione?
Ora, avendo accostato l’art. 1 della legge n. 383/01 all’art. 2116, secondo comma, cod. civ., quale collegamento vi è tra le due disposizioni?
Il criterio ermeneutico seguito, che presuppone l’esistenza essenziale di una relazione biunivoca tra pagamento della sanzione e remissione del tributo, conduce alla fiscalizzazione della contribuzione omessa e, anche se una tale impostazione metodologica potrebbe condurre ad una censura di incostituzionalità per violazione degli artt. 3, secondo comma, e 38 della Costituzione ([60]), conduce ad una inevitabile alterazione della posizione previdenziale del lavoratore, pur nella sua intrinseca inalterabilità.
Se la dichiarazione di emersione del lavoro irregolare di fatto produce l’estinzione della obbligazione contributiva, appare evidente che i contributi “oblati”, si può dire, per omologarli a strutture esistenti, al pari di quelli prescritti, oltre a non essere più esigibili, non sono più soggetti nemmeno a versamento; il loro pagamento, dunque, dovrebbe costituire un indebito versamento senza che possano mai essere computati agli effetti del perfezionamento del diritto alla pensione e della misura di essa.
Infatti, l’unica modalità di accreditamento per la reintegrazione della posizione previdenziale prevista e consentita è il versamento volontario dei contributi da parte del lavoratore, il quale, una volta che si astiene dall’aderire alla dichiarazione ed al programma di emersione, non avrà altra scelta se non quella del contenzioso per tutto il periodo passato.
Se questa è l’unica soluzione che rimane, quale tutela per il lavoratore che, non avendo aderito al programma di emersione, ambisce alla ricostituzione della sua posizione previdenziale?
Il problema va esaminato nella prospettiva dell’interesse del lavoratore alla ricostruzione della posizione previdenziale e sul punto non sembra esatta la tesi di chi sostiene che la dichiarazione di emersione effettuata dal datore di lavoro dovrebbe renderlo immune da ogni conseguenza perché, stando alla lettera della norma, il concordato impedisce l’accertamento fiscale della violazione ed opera sul piano tributaristico, ma la sanatoria ex lege connessa alla dichiarazione di emersione non può, sotto il profilo civilistico, paralizzare la pretesa del lavoratore: quest’ultimo non può più pretendere il versamento dei contributi “regolarizzati” e non può agire contro il datore di lavoro per pretendere la regolarizzazione piena della propria posizione contributiva, ma nulla toglie che possa agire in via risarcitoria per il ristoro del danno subito per effetto di una condotta che è e rimane, nei rapporti interpersonali, una condotta illecita.
Se questa è la conseguenza e l’effetto del concordato previdenziale che discende dall’art. 1, terzo comma, della legge n. 383 del 2001, appare evidente che lo strumento di tutela del lavoratore, supposta l’incidenza bloccante della oblazione sulla operatività del meccanismo della c.d. automaticità della prestazione, trova la sua naturale radice proprio nell’azione risarcitoria prevista dall’art. 2116, secondo comma, cod. civ., e al lavoratore non può essere disconosciuta la possibilità di chiedere il risarcimento per equivalente o la costituzione di una rendita vitalizia come una delle modalità di realizzazione del risarcimento in forma specifica che il danneggiato ha diritto di ottenere in via generale (cfr. art. 2058/I c.c.), alla stessa stregua di quanto avviene, mutatis mutandum, con l’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338.
In definitiva, il contrasto tra datore di lavoro “dichiarante” e lavoratore “emergente”, pur alleviando per il futuro la condizione di irregolarità da cui è uscito il lavoratore, non tiene conto che forme sommerse costituiscono assai spesso una costante dell’attività di impresa e della gestione dei rapporti di lavoro; dunque, evitare che l’emersione venga rivolta verso fini contrastanti con l’interesse dei singoli lavoratori coinvolti è l’unico imperativo cui categoricamente il legislatore avrebbe dovuto ubbidire.
In conclusione, nel nuovo sistema normativo, così come nei tentativi della giurisprudenza più conservatrice, si ravvede il tentativo di sabotare il passaggio dal principio della automaticità delle prestazioni a quello della effettività della tutela, secondo un paradigma ormai acquisito al patrimonio giuridico dell’ordinamento.
Infatti, la normativa speciale in esame costituisce una eliminazione del livello di effettività del diritto alla tutela previdenziale, che è espressione del più generale principio di solidarietà sociale sotteso all’art. 38 Cost.
Antonio Federici
Note:
([1]) Per tutti, cfr. ROSSI, La previdenza sociale, Padova, 1994, pag. 75; ROSSI, Impresa e Lavoro, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, Torino, s.d., pag. 707 e segg.
([2]) In generale, sulla responsabilità per omissione contributiva, oltre ala consueta manualistica, tra cui PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, pag. 99 ss., ved., ex plurimus, tra i più recenti, MARINELLI, Il risarcimento del danno da omissione contributiva nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza, in Atti del Convegno sul tema “Il dialogo tra dottrina e giurisprudenza nel diritto del lavoro”, in Quaderni della Riv. inf. mal. prof., Roma, 1998, p. 349 ss.; GALLIGANI, Il risarcimento del danno da omissione contributiva nell’attuale ordinamento italiano, in Lav. Prev. Oggi, 1992, p. 2113 ss. Tra gli interventi più risalenti nel tempo, ved., fra molti, CANIGLIA, L’azione di danno da mancata o irregolare contribuzione nell’assicurazione di invalidità e vecchiaia, in Riv. giur. lav., 1962, I, p. 139 ss.; TRAVERSA, Osservazioni sulla responsabilità del datore di lavoro ex art. 2116 cod. civ., in Dir. Ec., 1960, pag. 431 ss.; PERA, La responsabilità del datore di lavoro per omesso versamento di contributi previdenziali e l’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, in Riv. dir. lav., 1962, I, p. 304 ss.
([3]) Trib. Cassino, 22 settembre 2003, n. 567: “Il principio di automaticità delle prestazioni trova applicazione a condizione che esista in capo al datore di lavoro un obbligo contributivo ed in quanto il lavoratore non abbia rinunciato ex art. 2113 c.c. al versamento dei contributi. Non può configurarsi un’ipotesi di irrinunciabilità assoluta del diritto al versamento dei contributi in ragione della natura pubblicistica del rapporto contributivo tra il datore di lavoro e l’istituto previdenziale, in quanto la previsione stessa di un termine di prescrizione del diritto a richiedere il versamento dei contributi appare assolutamente incompatibile con la possibilità di qualificare come irrinunciabile il suddetto diritto”.
([4]) Si tratta della sentenza Cass., sez. lav., 20 marzo 2001, n. 3963 (ved. infra) e in Lav. Prev. Oggi, 2001, n. 5, pag. 342.
([5]) Cass. 26 maggio 1995 n. 5825; cfr. Cass. 2 novembre 1998 n. 10945, 19 ottobre 1988 n. 5677.
([6]) Corte di Cassazione, Sez. lav., 20 marzo 2001, n. 3963 – Pres. Genghini – Rel. Mercurio – Quarella c. Dondi, in LPO, 2001, 5, 652 e seg.

([7]) Cass. 8 giugno 2001, n. 7800 – Pres. Lupi – Rel. Filadoro – Faro Srl c. Bassi e INPS, in LPO, 2001, 11-12, pag. 1610 e segg.; ved., anche, C. Cass., 09.05.2002, 6663, in M.G.L., 2002, 10, pag. 674 e segg.,
([8]) A. Bozzi, voce RINUNCIA -Diritto pubblico e privato-, in Nss. Dig. It., XV, Torino, 1968, pag. 1141.
([9]) A. BOZZI, voce RINUNCIA, cit., pag. 1141; in senso adesivo cfr. G. ATZERI – G.M. VACCA, Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, Torino, 1915, pag. 320; limitatamente favorevole P. PERLINGIERI, I negozi sui beni futuri, I. La compravendita di cosa futura, Napoli, 1962, 24 e seg.
([10]) F. MACIOCE, voce Rinuncia -diritto privato-, in Encl. dir. 1989, Milano, pag. 940 e segg.
([11]) Per tutte, ved. Cass. 26.06.1967, n. 1582; Cass. 09.03.1971, n. 649; Cass. 09.11.1971, n. 3163; Cass. 15.05.1974, n. 1391; Cass. 01.06.1974, n. 1573; Cass. 17.01.1975, n. 204; Cass. 05.04.1975, n. 1222; Cass. 18.02.1977, n. 745 e Cass. 16.11.1979, n. 5967; per la giurisprudenza di merito cfr., in senso adesivo, App. Ancona 26.05.1958; App. Firenze 27.07.1956.
([12]) Cfr. Cass. 25.05.1973, n. 1537 e Cass. 23.02.1957, n. 664.
([13]) L.V. MOSCARINI, voce Rinuncia I, Encl. Giur., Vol. XV, 1991, Roma, pag. 5.
([14]) C. CESTER, voce Rinunce e transazioni (dir. lav.), in Enc dir. 1989, Milano, pag. 996 e segg.
([15]) C. CESTER, op. ult. loc. cit.
([16]) G. FERRARO, voce RINUNZIE E TRANSAZIONI DEL LAVORATORE, in Encl. Giur., vol. XV, 1991, Roma, pag. 7; sul punto ved. altresì G. GIUGNI, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore: riesame critico, in Dir. lav., 1970, I, pag. 8.
([17]) Sul punto ved. F. Santoro Passarelli, L’invalidità delle rinunce e transazioni del prestatore di lavoro, in Giur. Compl. Corte Cass., 1948, II, 53; M. MAGNANI, voce Disposizione dei diritti, in Digesto IV, Disc. Priv., Sez. Comm., V, Torino, 1990, 60; in giur. cfr. Cass. 13 marzo 1992, n. 3093, in Mass. Giur. Lav., 1992, 176; Cass. 7 aprile 1992, n. 4219, in Foro it., 1993, I, 2324; Cass. 19 luglio 1994, n. 6723, in RIDL, 1995, II, 571; Pret. Milano 2 novembre 1995, Riv. Crit. Dir. Lav., 1996, 479 ; Cass. 12 luglio 1998, n. 6875, in RIDL, 1999, II, 439; Cass. 14 dicembre 1998, n. 12548, in Not. Giur. Lav., 1999, 248; Cass. 5 agosto 2000, n. 10349, in Foro it., Rep., 2000, voce Lavoro (rapporto), n. 2029; Cass. 8 novembre 2001, n. 13834, in Foro it., Rep., voce Lavoro (rapporto), n.1640.

([18]) Ved., ex plurimus, Cass. 12.06.1985, n. 3538; Cass. 08.08.1987, n. 6823; Cass. 02.02.1988, n. 983; Cass. 14.03.1992, n. 3093; Cass. 13.10.1992, n. 11154; Cass. 10.07.1998, n. 6766; Cass. 19.07.1998, n. 6857;Cass. 14.12.1998, n. 12548; Cass. 18.08.2000, n. 10963; in senso sostanzialmente analogo si è espressa la giurisprudenza di merito, per la quale cfr. per tutte, Pret. Milano, 2 novembre 1995. Cantoni c. Soc. Orion, in Riv. critica dir. Lav., 1996, 479: “La rinuncia, qualora attenga a diritti non ancora maturati, deve essere dichiarata radicalmente nulla, non rientrando nella fattispecie regolata dall’art. 2113 c.c., il quale sanziona con l’annullamento le rinunce e le transazioni che abbiano ad oggetto diritti indisponibili già venuti in essere”.
([19]) Così F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 1987, Napoli, pag. 81.
([20]) RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1977, p. 269 e seg.: : “L’opinione corrente, prestando attenzione ai fatti più che ai rapporti giuridici, preferisce parlare in questi casi di fatti ( fattispecie) a formazione successiva, o progressiva, o di p r o c e d i m e n t i , che è parola che pure suggerisce l’idea di uno svolgersi dei fatti verso un risultato finale. Quel che vi è di sicuro è che in vista di quell’esito, e al di là dell’incertezza che caratterizza la situazione, la legge impone diritti ed obblighi ai soggetti, anche indipendentemente dal risultato, così che si configurano gli estremi di un rapporto dotato di una sua autonomia e di una specifica funzione”
([21]) A. TORRENTE-P. SCHLESINGER, Manuale di diritti privato, 1994, Milano, pag. 58.
([22]) BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di Vassalli, XV, 2, 1960.
([23]) RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939.
([24]) BIGLIAZZI GERI, BUSNELLI, BRECCIA e NATOLI, Diritto civile, 1, II, Torino, 1987, p. 439.
([25]) A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale …, cit., p. 129 e seg.
([26]) R. NICOLO’, Istituzioni di diritto privato, I, 1962, Milano, pag. 45 e seg.
([27]) Per tutti, A. BOZZI, voce RINUNZIA, cit., pag. 1141 e seg.: “Le aspettative di diritto o legittime possono costituire oggetto di rinunzia … In presenza di una tutela che ancora non concerne l’interesse-risultato, sirene l’interesse preliminare, con le note della provvisorietà e della strumentalità, si hanno effetti preliminari o prodromici. In tale caso … la rinunzia … in quanto valida ed operante, impedisce la nascita o l’acquisto del diritto di cui all’interesse-risultato. In senso analogo cfr. F. MACIOCE, voce RINUNCIA…, cit., pag. 940.
([28]) Così Cass., sez. un., 18 dicembre 1979 n. 6568, in Giust. Civ., 1980, I, 585, con nota di G. GALLIGANI, Un meditato ripensamento delle sezioni unite civili della Cote di Cassazione; anche in Giur. it., 1980, I, 1, 806.

([29]) Così la citata sentenza n. 3963 del 2001.
([30]) Cass. Sez. un. 06.05.1975, n. 1744; in senso adesivo cfr. Cass. 24.07.1971, n. 2483; Cass. 19.01.1985, n. 163: “L’indisponibilità dei diritti derivanti dalle norme imperative in materia di assicurazioni obbligatorie non comporta l’indisponibilità del diritto al risarcimento dei danni alla prescrizione dei contributi dei quali è stato omesso il versamento e, conseguentemente, non esclude che quest’ultimo diritto – anche se derivante, in via mediata e indiretta, da norma inderogabile di legge – possa formare oggetto di transazione”; per la giurisprudenza di merito cfr. Pret. Napoli, 30 luglio 1993, Nobili c. Soc. ed. Il Mattino, in Lav. giur., 1994, 594.
([31]) Cass. 18.11.1965, n. 3492; Cass. 08.07.1969, n. 2517.
([32]) Cass., sez. un., 18.12.1979, n. 6568.
([33]) Cass. 02.04.1982, n. 2048.
([34]) Il principio è ribadito anche in materia di prescrizione: “Con riguardo al diritto del lavoratore subordinato al risarcimento del danno per omessa contribuzione assicurativa (art. 2116, secondo comma, cod. civ.), la prescrizione inizia a decorrere quando venga a verificarsi, con la suddetta inadempienza del datore di lavoro, la perdita totale o parziale della prestazione previdenziale, restando in proposito irrilevante il diverso momento in cui sia maturata la prescrizione del credito contributivo”, così Cass., sez. un., 24 febbraio 1986, n. 1106.
([35]) Cass. 08.01.1983, n. 145; conf. Cass. 08.11.1983, n. 6612; Cass. 28.01.1984, n. 708; Cass. 04.10.1984, n. 4934; Cass. 05.02.1985, n. 831; Cass. 21.01.1986, n. 374; Cass. 15.02.1988, n. 1622; Cass. 22.10.1985, n. 5187; Cass. 05.02.1983, n. 1001; Cass. 26.11.1985, n. 5871; Cass. 09.01.1984, n. 159; Cass. 23.01.1984, n. 562; Cass. 17.03.1984, n. 1855; Cass. 14.07.1984, n. 4126; Cass. 04.06.1988, n. 3790 conf. Cass. 04.06.1988, n. 3790; Cass. 19.12.1991, n. 13715; Cass. 29.10.1983, n. 6466; Cass. 19.10.1985, n. 5148; 20.01.1994, n. 486; Cass. 16.06.1987, n. 5327; in dottrina, per un inquadramento generale della problematica, ved. PALERMO, Interesse dell’assicurato e valore della posizione assicurativa, in MGL, 1966, pag. 338 e segg.; VIANELLO, Omissione contributiva e tutela del prestatore di lavoro, in La Contribuzione Previdenziale.
([36]) Ciò è particolarmente visibile nella sentenza n. 3963 del 2001, nella quale, a sommesso giudizio dello scrivente, si richiamano “impropriamente” precedenti giurisprudenziali, quali Cass. 19 ottobre 1988, n. 5677, Cass. 26 maggio 1995, n. 5825 e Cass. 2 novembre 1998, n. 10945).
([37]) Si tratta della citata tesi, risalente nel tempo, di cui negli ultimi trent’anni non consta alcun altro precedente, secondo la quale il diritto al risarcimento sorgerebbe al momento dell’inadempimento dell’obbligo di pagare i contributi, in quanto lesivo del diritto alla posizione assicurativa; ved. Cass. 18.11.1965, n. 3492 e Cass. 08.07.1969, n. 2517, già citt.
([38]) Per completezza del ragionamento si ritiene opportuno far presente che non mancano opinioni in dottrina che ricostruiscono il rapporto previdenziale in termini di fattispecie a formazione progressiva. Una tale ricostruzione, da ultimo proposta da R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, 2000, Padova, pag. 134 e segg. e 331 e segg., trova già riconoscimento in quella dottrina per la quale “Il rapporto previdenziale pensionistico complessivamente inteso presenta, in definitiva, possibili stadi evolutivi, i quali, in estrema sintesi, vanno da una fase iniziale, precedente all’acquisizione di un’anzianità previdenziale, alla successiva, graduale costituzione ed accumulazione dell’anzianità medesima, sino alla maturazione dei requisiti del diritto a pensione … per giungere all’acquisizione del diritto vero e proprio …: secondo lo schema tipico della fattispecie a formazione progressiva” C.A. NICOLINI, Prescrizione dei contributi previdenziali, in Riv. It. Dir. Lav., 1996, 3, I, pag. 339 con riferimenti in nota 123 a BARBARA, Responsabilità del datore di lavoro per omesso versamento dei contributi assicurativi, Riv. Dir. Comm., 1971, I, pag. 400 e segg.; BOER, La tutela delle posizioni in itinere da parte della Corte Costituzionale, passim.
([39]) Ved. Cass. 08.08.1987, n. 6823; Cass. 04.04.1987, n. 3297; Cass. 11.03.1983, n. 1846.
([40]) Ved. Cass. 15.02.1988, n. 1622; Cass. 08.07.1988, n. 4529; Cass. 13.03.1992, n. 3093.
([41]) Ved. G. FERRARO, op. loc. ult. cit.
([42]) Cass. 19.10.1985, n. 5148; 20.01.1994, n. 486; ved. anche Cass. 16.06.1987, n. 5327: “La decorrenza della prescrizione del diritto del lavoratore al risarcimento dei danni da carenza di contribuzione assicurativa coincide, a norma dell’art. 2934 cod. civ., con l’inizio della possibilità di far valere il suindicato diritto e, pertanto, non con l’inadempimento del datore di lavoro, o con il momento in cui il lavoratore ne venga a conoscenza, ma con la data in cui, essendosi posti in essere … gli altri presupposti necessari al conseguimento delle prestazioni previdenziali, manchi, in tutto o in parte, la fruizione delle medesime”; oppure “… essendo da escludere che nell’ordinaria diligenza considerata da tale norma rientri un onere del lavoratore di richiedere al datore di lavoro l’esercizio (prima della cessazione del rapporto) della facoltà di cui al citato art. 13 della legge n. 1338 del 1962 o di provvedere egli direttamente, ove non possa ottenerla dal datore di lavoro, alla costituzione della rendita”, così Cass. 20.01-1994, n. 486.
([43]) Cass. 23 novembre 1995, n. 12103.
([44]) Il riferimento è alla citata sentenza n. 3963 del 2001.
([45]) Ne è riprova la massima appresso riportata, dove il doppio uso della locuzione “può” è decisivo: essa, per la sua univoca valenza semantica, orienta verso il riconoscimento di una facoltà, qualunque sia il meccanismo ermeneutico che si vuole mettere in atto per interpretarne il significato; Per raggiungere il risultato opposto e configurare la sussistenza di un “onere” in luogo di una “facoltà” la medesima locuzione avrebbe dovuta essere soppiantata da un “deve” imperativo e categorico: “In caso di omissione contributiva, il lavoratore può chiedere, anche nel corso del rapporto, la tutela delle sue aspettative alle prestazioni assicurative – ancora prima del verificarsi degli eventi che condizionano l’erogazione di queste – avvalendosi a tal fine della domanda di condanna generica al risarcimento del danno o di quella diretta alla reintegrazione specifica ex art. 13 della legge 12 agosto 1962 n. 1338, la quale ultima ha come contraddittore necessario anche l’istituto assicuratore; mentre, qualora l’omissione abbia determinato la perdita di queste prestazioni, il lavoratore può proporre l’azione risarcitoria ex art. 2116 cod. civ. – che sorge nel momento in cui, verificatosi l’evento coperto da assicurazione, l’istituto assicuratore abbia, con provvedimento definitivo, rifiutato di corrispondere le prestazioni stesse – ovvero la diversa azione di risarcimento in forma specifica, mediante costituzione di una rendita sostitutiva ex art. 13 della legge n. 1338 del 1962 citata, dovendosi, nella prima di tali ipotesi, commisurare il risarcimento dovuto ex art. 2115 cod. civ. non solo al danno emergente, comprensivo dei ratei di pensione perduti, a anche al lucro cessante, secondo le disposizioni generali di cui agli artt. 1223, 1226e 1227 cod. civ.”: Cass. 08.01.1983, n. 145; Cass. 06.11.1986, n. 6517; Cass. 19.10.1988, n. 5677 e, da ult., Cass. n. 10945 del 1998.
([46]) “Nel caso di omissione contributiva sussiste l’interesse del lavoratore ad agire per il risarcimento del danno (ex art. 2116 cod. civ.) ancora prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi, a tal fine, della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, volta ad accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare il danno” ; “Nel caso di omissione contributiva, se è vero che il diritto al risarcimento del danno, fondandosi sul duplice presupposto dell’inadempimento contributivo da parte del datore di lavoro e della perdita della pensione, sorge nel momento in cui sarebbe maturato il diritto del lavoratore alla prestazione previdenziale, tanto che da tale momento decorre la prescrizione, è altrettanto vero che il lavoratore può chiedere la tutela della sua aspettativa concernente le prestazioni assicurative ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi, a tal fine, della domanda di andana generica al risarcimento dei danni, volta ad accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare danno, salva poi la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell’evento dannoso, l’azione risarciotria ex art. 2116, secondo comma, cod. civ., o quella diversa, in forma specifica, ex art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338” Cass. 02.11.1998, n. 10945:.
([47]) Cass. 26.05.1995, n. 5825; sulla cumulabilità in dottrina cfr. M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, 1996, Padova, pag. 91.
([48]) M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, 1996, Torino, pag. 101 e segg.
([49]) R. PESSI, Lezione di diritto della previdenza sociale, cit., pag. 327 e seg.
([50]) Sulla natura contrattuale della responsabilità si è espressa la dottrina; per tutti, ved. F. MAZZIOTTI, Diritto della previdenza sociale, Napoli, 1999, pag. 37 e segg.; ; in senso adesivo cfr. L. RIVA-SANSEVERINO, Disciplina delle attività professionali – Impresa in generale, in Commentario cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Roma, 1986, p. 604 e segg.; contra CINELLI, Diritto della previdenza sociale, cit., pag. 102.
([51]) Per tutte ved. Cass. 04.10.1984, n. 4934.
[52] A. SGROI, Inadempimenti contributivi: dichiarazione di emersione e condono previdenziale, in Riv. Giur. Lav., 2002, I, 710 e segg., in particolare 727.
[53] NICOLINI, Prescrizione di contributi…, cit. pag. 308.
([54]) F. SANTORO PASSARELLI, Spirito del diritto del lavoro, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Catania, 1947-48, p. 5 e in Il diritto del lavoro, 1948, p. 275.
([55]) Op. loc. ult. cit.
([56]) Art. 18 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e art. 4 decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito in legge, con modificazioni, con la legge 28 maggio 1997, n. 140.
([57]) Si tratta dell’esperienza dei cc.dd. contratti di riallineamento o di emersione disciplinati dal decreto legge 01 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, con le successive modificazioni ed integrazioni.
([58]) Per una valutazione generale, cfr. BOER, Garanzia della retribuzione e della pensione nella direttiva comunitaria ed inadempienza dello Stato italiano, in Dimensione sciale del mercato comune europeo (Atti del Convegno di Ascoli Piceno, 27 – 28 ottobre 1989), Milano, 1990, 200.
([59]) Cass. 19.10.1985, n. 5148; 20.01.1994, n. 486; ved. anche Cass. 16.06.1987, n. 5327: “La decorrenza della prescrizione del diritto del lavoratore al risarcimento dei danni da carenza di contribuzione assicurativa coincide, a norma dell’art. 2934 cod. civ., con l’inizio della possibilità di far valere il suindicato diritto e, pertanto, non con l’inadempimento del datore di lavoro, o con il momento in cui il lavoratore ne venga a conoscenza, ma con la data in cui, essendosi posti in essere … gli altri presupposti necessari al conseguimento delle prestazioni previdenziali, manchi, in tutto o in parte, la fruizione delle medesime”; oppure “… essendo da escludere che nell’ordinaria diligenza considerata da tale norma rientri un onere del lavoratore di richiedere al datore di lavoro l’esercizio (prima della cessazione del rapporto) della facoltà di cui al citato art. 13 della legge n. 1338 del 1962 o di provvedere egli direttamente, ove non possa ottenerla dal datore di lavoro, alla costituzione della rendita”, così Cass. 20.01-1994, n. 486.
([60]) L’operazione ha taglio tributaristico e non tiene conto della specificità e dei presupposti costituzionali dell’obbligazione contributiva per l’assicurazione generale obbligatoria.

Redazione

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