Tutela dell’azienda nel campo della concorrenza

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Premessa

            Le limitazioni della concorrenza possono essere di due tipi: legali o contrattuali. A loro volta le limitazioni legali si possono suddividere in limiti pubblicistici e limiti civilistici, a seconda che i limiti alla concorrenza derivino da norme di diritto pubblico o di diritto privato.

In linea di massima l’attività di concorrenza è libera, ma, essendo questa un corollario della libertà dell’iniziativa economica, i limiti posti all’iniziativa economica si ripercuoteranno sulla libertà della concorrenza. Il principio della libertà dell’iniziativa economica è sancito dall’art. 41, 1° comma della Costituzione, se non che tale principio è temperato dal successivo 3° comma che prevede una economia controllata o addirittura programmata.

A rafforzare questa posizione vi è l’art. 43 della Costituzione nel quale si ammette la statalizzazione o socializzazione di determinate imprese vitali, per l’attività svolta o per la posizione di monopolio in cui si vengano a trovare. Alla fine di questi principi occorre esaminare l’art. 2595, affermante la limitazione della concorrenza “in modo tale da non ledere gli interessi della economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”.

La prima parte della norma è chiaramente comprensibile se si tiene presente che, allorchè il codice fu emanato, nel 1942, vigeva l’ordinamento corporativo attraverso il quale lo Stato controllava e dirigeva l’attività economica dei privati, globalmente considerata.

Oggi con la Costituzione la società italiana è configurata come una società ad economia mista, in cui coesistono diversi tipi di economia organizzata. Pertanto unico arbitro alla libertà di concorrenza sarà la legge,  eventuali interessi dell’economia nazionale saranno individuati e dichiarati tali esclusivamente attraverso specifiche disposizioni di legge.

Limiti contrattuali

  1. Rientrano fra i limiti contrattuali e non fra i limiti legali della concorrenza, i limiti che si ricollegano a determinati contratti, in base a disposizioni di legge, aventi carattere meramente dispositivo e pertanto, derogabili dalla volontà contrattuale delle parti;
  2. Sono previsti anche patti autonomi, volti direttamente a limitare la concorrenza. Tali patti, previsti dall’art. 2596, devono essere circoscritti ad una determinata zona o attività per una durata non superiore a cinque anni. Durate più lunghe verranno ridotte di conseguenza;
  3. Altra categoria di contratti sono i patti di non concorrenza attraverso i quali il datore di lavoro si premunisce contro una eventuale attività concorrenziale del prestatore di lavoro al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Questi patti devono risultare da atto scritto, prevedere un corrispettivo specifico, essere limitato nell’oggetto, nel luogo e nel tempo per un periodo massimo di tre anni o 5 per i dirigenti;
  4. Infine rientrano in questo campo gli accordi fra imprenditori per il coordinamento della produzione o degli scambi che possono assumere la forma elementare di cartelli o quella di più complessa dei

Limiti legali

  • Limiti pubblicistici:

Le norme di diritto pubblico limitanti la concorrenza possono addirittura escludere tale libertà. Si avranno, in questo caso, i monopoli che riservano allo Stato o ad enti pubblici talune attività economiche, essi potranno essere per intenti fiscali o per fini di utilità sociale.

I monopoli per fini sociali sono tassativamente indicati dall’art. 43 della Costituzione, la quale prevede la possibilità di costituirli, oltre che direttamente con lo Stato o gli enti pubblici, anche con comunità di lavoratori o di utenti. In quest’ultimo caso potrà essere prevista una concorrenza limitata fra un determinato numero di imprese socializzate.

La limitazione od anche l’esclusione della concorrenza si potrà ottenere , inoltre attraverso la concessione oppure l’autorizzazione di talune attività ad imprenditori privati:

  1. Lo Stato, che ha il monopolio di un pubblico servizio, ne cede l’esercizio ad un imprenditore privato, il concessionario, conseguentemente l’impresa concessionaria viene a trovarsi in una posizione di monopolio con esclusione della concorrenza da parte di altri imprenditori.

L’imprenditore concessionario è un privato e come tale persegue un utile, ma lo Stato, in vista della pubblica utilità, eserciterà un penetrante controllo. Egli opererà quale organo indiretto della pubblica amministrazione.

A termini dell’art. 2597, come qualsiasi impresa che operi in condizione di monopolio legale, l’imprenditore concessionario ha l’obbligo di trattare con chiunque richieda le prestazioni. Quanto detto non è valido nei casi di monopolio di fatto, tuttavia l’art. 43 della Costituzione permette la trasformazione dei monopoli di fatto in monopoli legali.

  1. Mercè questo istituto il legislatore si propone di limitare l’afflusso sul mercato degli operatori economici. Tuttavia non sempre si proporrà una limitazione della concorrenza, anzi, talvolta, un semplice controllo della presenza dei requisiti richiesti negli imprenditori che richiederanno l’autorizzazione. Quindi è dall’autorizzazione che può derivare, ma non obbligatoriamente, una limitazione della concorrenza.

Tipico esempio di limitazione di afflusso sul mercato di operatori economici per mezzo dell’autorizzazione è la disciplina del commercio di vendita al pubblico.

La prima legge al riguardo fu del 1926 e il criterio del numero circoscritto di esercenti fu riaffermato nella successiva legge del 1971, al fine di evitare un sovraffollamento comportante una levitazione dei prezzi ed una concorrenza talmente spietata da provocare turbamenti di mercato.

Il registro degli esercenti, istituito nel 1971, non era propriamente un registro di imprenditori commerciali, in quanto in questo registro dovevano essere iscritti, non solamente coloro che effettivamente esercitavano il commercio, ma anche quelli che, dotati di requisiti necessari, aspiravano ad esercitare il commercio. L’iscrizione al registro era condizione necessaria ma non sufficiente, occorrendo l’autorizzazione amministrativa per l’apertura di un esercizio.

In altre parole l’iter era suddiviso in due fasi: a) domanda di iscrizione al registro, in cui occorrevano requisiti soggettivi legalmente stabiliti, b) domanda di autorizzazione, dipendente dalla  situazione oggettiva del mercato.

La legge del 1971 poggiava su tre distinti pilastri: I) Registro degli esercenti il commercio, II) Piani di sviluppo e di adeguamento, III) Autorizzazione amministrativa. I) Il registro era istituito presso le Camere di commercio e le domande di iscrizione devono essere indirizzate all’apposita commissione. In caso di rifiuto di iscrizione i ricorsi erano rivolti al presidente della giunta regionale ed in terza istanza alla magistratura ordinaria. Il richiedente doveva dimostrare di avere superato presso l’apposita commissione un esame di idoneità, oppure di avere frequentato con esito positivo un corso professionale riconosciuto dallo Stato. II) I singoli comuni provvedevano alla formazione dei piani della rete di vendita al fine di favorire una più razionale evoluzione dell’apparato distributivo. III) L’autorizzazione per l’apertura di esercizi al minuto, per il trasferimento in altra zona e per l’ampliamento di un esercizio già esistente, era rilasciata dal sindaco con l’osservanza del piano di sviluppo , contro la reiezione della domanda da parte del sindaco era ammesso ricorso alla giunta regionale. L’autorizzazione si trasferiva automaticamente con la vendita del negozio, bastava che l’acquirente fosse iscritto nel registro degli esercenti il commercio.

  • Limiti civilistici:

Gli atti di concorrenza sleale si possono classificare in vari modi.

In primo luogo, si possono distinguere gli atti di concorrenza sleale diretta o specifica dagli atti di concorrenza sleale generica od indiretta.

Alla prima categoria appartengono quegli atti che colpiscono un determinato concorrente, pertanto spetterà a lui soltanto esercitare l’azione repressiva della concorrenza sleale. Nella seconda categoria rientrano gli atti di concorrenza sleale che colpiscono indiscriminatamente i concorrenti in generale, in tale caso saranno legittimati ad agire in giudizio tutti i concorrenti senza distinzione alcuna.

Talvolta un atto di concorrenza sleale, che sembrerebbe riguardare un singolo concorrente, estende, invece, i propri ingiusti effetti all’intera generalità dei concorrenti.

Rientra in questo gruppo l’imitazione servile o contraffazione di nomi o di segni, in quanto confondere merce scadente con merce di prima qualità comporterà uno svilimento generalizzato di questa nell’opinione del consumatore, con conseguente perdita di prestigio e di clientela. In tal modo il danno non si ripercuote sull’imprenditore imitato, ma su tutta la categoria.

In realtà alcuni atti di concorrenza sleale si configurano come figure intermedie di atti lesivi, non di uno oppure della generalità dei concorrenti, ma di più o meno ampie categorie circoscritte di imprenditori concorrenti. In questa ipotesi l’azione repressiva spetterà di conseguenza ai produttori appartenenti alla specifica categoria.

In secondo luogo, gli atti di concorrenza sleale si possono distinguere in atti che alterano illegittimamente gli elementi di scelta e di giudizio del pubblico sulle imprese in concorrenza e atti che tendono a porre un’impresa concorrente in condizioni di sostanziale inferiorità. Nella prima classe rientrano atti di concorrenza sleale diretta o indiretta, mentre nella seconda solo atti di concorrenza sleale diretta.

La disciplina legislativa sulla concorrenza sleale è prevista negli articoli 2598-2599-2600 del Codice Civile. L’art. 2598 è composto dal n. 1-2-3 dove, secondo la dottrina prevalente, nel sistema di questo articolo, la materia della concorrenza sleale sarebbe interamente dominata dal n. 3, con funzione conclusiva e riassuntiva. Casanova afferma, contrariamente, che il n. 3 è a contenuto generico e si aggiunge, ma non si sovrappone, alle categorie specifiche indicate nei n. 1 e 2 dove la concorrenza sleale può configurarsi indipendentemente dalla correttezza professionale.

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