Il rapporto tra l’esercizio della funzione amministrativa da parte degli enti pubblici ed il sindacato, sulle conseguenze di tale esercizio, da parte degli organi giurisdizionali ha impegnato nell’ultimo decennio, in Italia, la dottrina e la giurisprudenza in un confronto dai toni molto accesi.
Per molti anni il principio, elaborato dalla dottrina fin dai primi del novecento, della presunzione di legittimità degli atti amministrativi (tra gli altri U. Borsi, Fondamento giuridico dell’esecutorietà degli atti amministrativi, in Studi Senesi, 1905; G. Treves, La presunzione di legittimità degli atti amministrativi, Padova, 1936) ha circoscritto in un ambito molto limitato il sindacato del giudice sull’operato della pubblica amministrazione.
La legge abolitrice del contenzioso amministrativo (2248/1865 All. E) attribuì, infatti, al giudice ordinario il potere di non applicare gli atti amministrativi illegittimi, quando gli stessi impedissero di riconoscere la tutela dei diritti soggettivi azionati. L’istituto della disapplicazione è rimasto – anche in tempi recenti – circoscritto entro due limiti: a) la privazione di efficacia dell’atto amministrativo viziato riguarda il solo caso sottoposto all’attenzione del giudice, con conseguente conservazione di efficacia dell’atto per tutti gli altri rapporti; b) la possibilità per il giudice ordinario di disapplicare l’atto amministrativo antigiuridico sussiste solo quando la valutazione della illegittimità debba avvenire in via incidentale, il che si verifica “allorchè l’atto amministrativo non assume rilievo come causa del diritto del privato, ma come mero antecedente, sicchè la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come questione pregiudiziale in senso tecnico e non come questione principale” (Cass. Civ., sez. II, 27/3/2003, n. 4538).
Anche per i giudici amministrativi, chiamati – fin dal 1889 ossia dalla istituzione della quarta sezione del Consiglio di Stato – a sindacare in via diretta la legittimità dell’operato della pubblica amministrazione, il potere di incidere nei rapporti tra enti pubblici e cittadini è rimasto per lungo tempo ancorato alla previsione di un numero limitato di vizi riscontrabili nei provvedimenti amministrativi, nonché alla pronuncia di annullamento di tali provvedimenti senza possibilità – tranne i pochi casi di giurisdizione esclusiva – di occuparsi degli effetti che il cattivo esercizio del potere pubblico avesse prodotto sulle posizioni giuridiche soggettive dei destinatari.
Una svolta epocale nel rapporto tra la giustizia amministrativa e la pubblica amministrazione si è verificata, senza dubbio, alla fine degli anni novanta, quando sia la Corte di Cassazione che il legislatore hanno modificato radicalmente la tradizionale struttura del rapporto trilatero tra potere pubblico, soggetto privato e giudice amministrativo.
Con la sentenza n. 500 del 1999, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno – dopo decenni di diniego assoluto – previsto infatti la possibilità di conseguire il risarcimento del danno ingiusto cagionato da un provvedimento amministrativo illegittimo, anche quando la posizione giuridica lesa abbia natura di interesse legittimo. Alla base del proprio revirement, la Suprema Corte ha posto: “a) il radicale dissenso sempre manifestato dalla quasi unanime dottrina, che ha criticato i presupposti dell’affermazione, individuati nella tradizionale lettura dell’art. 2043 c.c. e denunciato come iniqua la sostanziale immunità della P.A. per l’esercizio illegittimo della funzione pubblica che essa determina; b) il progressivo formarsi di una giurisprudenza di legittimità volta ad ampliare l’area della risarcibilità ex art. 2043 c.c., sia nei rapporti tra privati, incrementando il novero delle posizioni tutelabili, che nei rapporti tra privati e P.A., valorizzando il nesso tra interesse legittimo ed interesse materiale sottostante (elevato ad interesse direttamente tutelato); c) le perplessità più volte espresse dalla Corte costituzionale circa l’adeguatezza della tradizionale soluzione fornita all’arduo problema (sent. n. 35-1980; ord. n. 165-1998); d) gli interventi legislativi di segno opposto alla irrisarcibilità, culminati nel d.lgs. n. 80 del 1998, che, nell’operare una cospicua ridistribuzione della competenza giurisdizionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo in base al criterio della giurisdizione esclusiva per materia, ha attribuito in significativi settori al giudice amministrativo, investito di giurisdizione esclusiva (comprensiva, quindi, delle questioni concernenti interessi legittimi e diritti soggettivi), il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del “danno ingiusto”.
Con la citata pronunzia si è voluto porre fine alla limitazione, fino ad allora giustificata dalla interpretazione giurisprudenziale delle norme vigenti, della responsabilità della P.A. nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica che abbia determinato diminuzioni o pregiudizi alla sfera soggettiva del privato. Tale limitazione, considerata non più conciliabile con le elementari esigenze di giustizia, è stata superata riconoscendo nuova dignità alla figura dell’interesse legittimo, visto non più come mero interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, bensì come posizione di vantaggio – riservata ad un soggetto – in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio della funzione pubblica, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene.
La conclusione alla quale sono giunti i giudici di Piazza Cavour, in seguito alla nuova prospettiva in cui è stato inquadrato l’interesse legittimo, è la seguente: “Qualora sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio della funzione pubblica, il detto giudice, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello schema normativo delineato dall’art. 2043 c.c., dovrà procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) procederà quindi a stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), ovvero nelle forme dell’interesse legittimo (quando, cioè, questo risulti funzionale alla protezione di un determinato bene della vita, poichè è la lesione dell’interesse al bene che rileva ai fini in esame, o altro interesse (non elevato ad oggetto di immediata tutela, ma) giuridicamente rilevante (in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori, e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto); c) dovrà inoltre accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva o omissiva) della P.A.; d) provvederà, infine, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A.”.
Non meno rilevante appare l’ulteriore arresto della Suprema Corte, nella sentenza de qua, in tema di pregiudizialità tra la tutela caducatoria dell’atto illegittimo e la tutela risarcitoria. Tale pregiudizialità, secondo la Cassazione, non sembra più ravvisabile nel giudizio di annullamento rispetto a quello risarcitorio, una volta svincolata la responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione dal riferimento alla lesione di un diritto soggettivo.
Gli effetti dirompenti della sentenza n. 500 del 1999 finiscono ben presto, però, per trasferirsi dall’ambito della giustizia civile a quello della giustizia amministrativa. Con la legge n. 205 del 2000, infatti, al giudice amministrativo viene affidata la cognizione, nell’ambito della sua giurisdizione, di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. La trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sull’intero rapporto intercorso tra pubblica amministrazione ed amministrati ha determinato, inevitabilmente, l’insorgere di nuove problematiche su cui si sono confrontati gli studiosi, prima tra tutte quella relativa ai limiti che caratterizzano il sindacato del giudice sui danni lamentati dal ricorrente per il cattivo esercizio del potere pubblico.
Il superamento del tradizionale binomio diritto soggettivo-risarcibilità del danno ingiusto ha posto un interrogativo a cui sono state date – sia in dottrina che in giurisprudenza – risposte diametralmente opposte. Ci si è chiesti, infatti, se sia possibile per il giudice qualificare come fatto giuridico produttivo di danno ingiusto un provvedimento amministrativo, ogni qualvolta quest’ultimo non sia oggetto di tutela impugnatoria.
Alcuni studiosi hanno dato una risposta negativa a tale domanda, con giustificazioni che attingono – per lo più – dalla tradizionale concezione della autoritarietà e presunzione di legittimità dell’atto amministrativo. Si è detto, infatti, che non è possibile per il giudice amministrativo disapplicare un provvedimento della p.a., per il divieto legislativo a tutt’oggi vigente, con conseguente impossibilità di sindacare se tale provvedimento – ove non impugnato o non più impugnabile – abbia prodotto o meno danni ingiusti risarcibili (G. M. di Lieto, La giurisdizione in tema di responsabilità aquiliana della P.A. per lesione di interessi legittimi e la c.d. “pregiudiziale amministrativa”, in Diritto & Giustizia, Giuffrè editore, 11/2002). L’istituto della disapplicazione, secondo tale orientamento, permette al giudice ordinario di ritenere tamquam non esset il provvedimento amministrativo illegittimo solo nel caso in cui, proposta un’azione risarcitoria, per la decisione sulla domanda risulti necessaria una valutazione incidenter tantum del provvedimento de quo; tale cognizione incidentale non può, evidentemente, trovare applicazione nel caso in cui il provvedimento illegittimo sia esso stesso la causa del danno lamentato dal destinatario, in quanto il sindacato sull’operato della pubblica amministrazione sarebbe effettuato non in via incidentale ma principale.
Alla prefata conclusione era approdata in realtà, alcuni anni or sono, anche la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale i principi sanciti con la nota sentenza 500/99 delle Sezioni Unite civili non consentono di teorizzare l’autonomia tra l’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e l’azione risarcitoria dei danni prodotti dallo stesso; ciò in quanto non si può qualificare come fatto illecito una situazione giuridica che l’ordinamento riconosce come verificata e produttiva di effetti, almeno fino a quando tale situazione non venga rimossa mediante i rimedi caducatori previsti dalla legge (Cass. Civ., sez. II, 27/3/2003, n. 4538).
Alla posizione di chi ritiene necessario l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo prima di poter ottenere il risarcimento del danno prodotto dallo stesso, si è contrapposta una corrente di pensiero autorevole, secondo cui il danneggiato ben può decidere di “tagliare i ponti con la P.A.”, chiedendo non la tutela specifica consistente nell’eliminazione dell’atto illegittimo, bensì la ben distinta reintegrazione in forma specifica che può consistere anche nel pagamento di una somma di denaro (F. P. Luiso, Pretese risarcitorie nei confronti della pubblica amministrazione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Riv. Dir. Proc., 2002, 46).
Anche la Suprema Corte, superata l’iniziale contrarietà, ha affermato il principio secondo cui l’azione di risarcimento degli interessi legittimi lesi da provvedimenti amministrativi non è affatto subordinata al previo annullamento di tali provvedimenti (Cass. Civ., sez. un.,12/6/2006, n. 13659; idem, sez. un., 13/6/2006, n. 13660; idem, sez. un., 21/10/2008, n. 30254). I giudici di Piazza Cavour hanno escluso, infatti, l’esistenza di un nesso inscindibile, desubimile da norme di legge o dal quadro costituzionale, tra la tutela di annullamento e tutela risarcitoria rispetto ai provvedimenti amministrativi illegittimi, in un sistema in cui al cittadino sono riconosciuti sia la tutela di annullamento sia la tutela risarcitoria contro l’esercizio illegittimo del potere amministrativo. Ammettere la necessaria dipendenza del risarcimento del danno dal previo annullamento dell’atto dannoso, secondo le Sezioni unite, significherebbe quindi restringere la tutela che spetta al privato di fronte alla pubblica amministrazione, assoggettando il diritto al risarcimento del danno, anziché alla regola generale della prescrizione, ad una Verwirkung (rifiuto di tutela per chi esercita il diritto con colpevole ritardo) amministrativa tutta italiana.
Conseguenza pratica più rilevante di tale orientamento giurisprudenziale è il venir meno dell’onere, per chi ritiene di aver subito un danno ingiusto a causa dell’illegittimo esercizio del potere pubblico ed intende conseguire un ristoro, della previa impugnazione dell’atto amministrativo che il danno ha provocato.
La tesi della totale autonomia tra l’azione di annullamento e l’azione risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo ha registrato, oltre al dissenso di una parte della dottrina, il rifiuto del massimo organo giurisdizionale amministrativo, ossia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. I giudici di Palazzo Spada hanno affermato infatti, in più occasioni, la necessità di far precedere l’azione risarcitoria da quella di annullamento, ponendo a fondamento di tale assunto: a) la presunzione di legittimità dei provvedimenti amministrativi, che si tramuta da relativa in assoluta quando – nel termine di decadenza – non sia stato proposto ricorso per l’annullamento o non sia intervenuto l’annullamento d’ufficio; b) l’impossibilità di configurare un danno come ingiusto quando a provocarlo sia stato un provvedimento non più impugnabile e, dunque, non più qualificabile come illecito (Cons. Stato, Ad. Plen., 22/10/2007, n. 12).
Nel corso dell’ultimo decennio i due principi sopra richiamati, ossia quello della presunzione di legittimità degli atti amministrativi e quello della connessione tra illegittimità del provvedimento ed illiceità dello stesso, hanno però subito una erosione anche all’interno della dottrina e giurisprudenza amministrativa, consentendo a quest’ultima di giungere ultimamente ad un approdo tutt’altro che prevedibile.
Si è infatti sostenuto, in merito al rapporto tra illegittimità del provvedimento ed ingiustizia del danno, che il danno ingiusto derivante da provvedimenti illegittimi “non è cagionato dal provvedimento atomisticamente inteso ma da un fatto, ossia da un comportamento, in seno al quale rilevano (anche se non soprattutto o solo) le condotte precedenti e successive all’atto, psicologicamente qualificate, in guisa che l’atto è solo un tassello del ben più complesso mosaico che compone l’illecito fonte di danno risarcibile”(F. Caringella, Compendio di Diritto Amministrativo, Dike Giuridica editrice).
Se, dunque, il provvedimento amministrativo, ove illegittimo, può essere equiparato ad un mero comportamento o fatto illecito generatore di danno secondo i principi di cui agli artt. 2043 e seguenti del codice civile, non risulterà necessario farne dichiarare l’illegittimità nel termine decadenziale per poter conseguire la tutela risarcitoria.
Nel nuovo codice del processo amministrativo proprio la tesi della autonomia tra azione impugnatoria ed azione risarcitoria dei danni prodotti da provvedimenti della pubblica amministrazione ha trovato la sua consacrazione legislativa.
L’art. 30 del decreto legislativo n. 104/2010 prevede, infatti, in proposito, che: ”L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma. 2. Può essere richiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria…3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva immediatamente da questo.”.
Il legislatore, nel porre fine all’aspro conflitto tra i massimi organi giurisdizionali civile ed amministrativo sul tema della pregiudiziale amministrativa, ha dunque previsto la facoltà di esperire in via autonoma l’azione risarcitoria quando da un provvedimento amministrativo illegittimo derivi un danno, sia pur entro un termine di decadenza più breve rispetto a quello di prescrizione quinquennale.
L’equiparazione del provvedimento illegittimo ad un illecito aquiliano rappresenta, a parere di chi scrive, un passo solo apparente sulla via della democratizzazione dell’azione amministrativa, come dimostra la ulteriore previsione normativa contenuta nel già citato articolo 30 del codice, ove si legge che: ”Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
Se, infatti, il provvedimento amministrativo non gode più di alcuna presunzione di legittimità, con conseguente equiparabilità dei danni prodotti dal provvedimento illegittimo a quelli prodotti da un qualsivoglia comportamento illecito di chicchessia, la condizione del danneggiato risulta più tutelata che in passato solo nella forma, non nella sostanza.
Il destinatario di un provvedimento afflittivo non può più, infatti, presumere che l’afflizione – provenendo da un Ente pubblico – sia giustificata, ma ha l’onere di verificare tempestivamente se tale afflizione derivi o meno da un provvedimento illegittimo. Costituisce infatti, secondo la novella legislativa, espressione di ordinaria diligenza l’esperimento degli strumenti di tutela – dunque anche del ricorso di annullamento – che possono consentire l’eliminazione degli effetti dannosi del provvedimento illegittimo.
Quid iuris, dunque, se il danneggiato non propone ricorso per l’annullamento entro il tradizionale termine decadenziale, magari per non aver tempestivamente compreso che la propria afflizione derivava da un provvedimento illegittimo, ma esperisce successivamente l’autonoma azione risarcitoria per il ristoro dei danni ingiusti subiti a causa dell’illegittimità del provvedimento?
Risposta eloquente a tale interrogativo è stata offerta, recentemente, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che nel commentare la portata della nuova norma sull’azione risarcitoria autonoma ha affermato che: “La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l’omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile. Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati [… ] recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi.”. (Cons. Stato, Ad. Plen., n. 3/2011).
Realizzando un felice incontro tra le posizioni, tutte interne al massimo organo giurisdizionale amministrativo, di chi in passato aveva sostenuto la tesi della pregiudiziale amministrativa (tra tutti R. Chieppa- V. Lopilato, Studi di Diritto Amministrativo, 2007), e chi invece aveva già da tempo negato la pregiudiziale (F Caringella, La pregiudiziale amministrativa: una soluzione antica per un problema attuale, atti del convegno “Le nuove frontiere del giudice amministrativo”, Lecce, 12-13 ottobre 2007), l’Adunanza Plenaria ha quindi ricondotto nell’alveo dell’art. 1227 comma secondo del codice civile l’omessa impugnativa del provvedimento illegittimo, decretando l’irrisarcibilità dei danni conseguenti non perché derivanti da un provvedimento amministrativo ancora valido ed efficace, ma perché evitabili mediante il ricorso tempestivo alla tutela caducatoria del provvedimento.
La rilettura in senso pancivilistico del rapporto tra l’esercizio del potere amministrativo ed i destinatari dei provvedimenti non appare, in vero, condivisibile.
Se, infatti, in alcuni casi – come nell’impugnativa delle procedure di evidenza pubblica – la scelta del privato di non chiedere l’annullamento dei provvedimenti illegittimi per seguire la sola via risarcitoria può costituire comportamento riprovevole sul piano della buona fede, non altrettanto può dirsi nella quasi totalità degli altri casi, in cui il danneggiato è spesso convinto che la propria afflizione – in quanto provocata dall’esercizio di un pubblico potere – non sia un damnum iniuria datum. Pretendere, quindi, che ciascun destinatario di provvedimenti amministrativi dannosi consulti tempestivamente un legale, per sapere se debba o meno chiederne l’annullamento e poter così conseguire anche la tutela risarcitoria, non muta nella sostanza la condizione di chi – seguendo l’orientamento della precedente giurisprudenza amministrativa – in passato chiedeva l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi per poter conseguire il risarcimento del danno ingiustamente arrecato dagli stessi.
Soluzione preferibile, a parere di chi scrive, sarebbe quella di qualificare come danni ingiusti solo quelli derivanti da provvedimenti la cui illegittimità sia stata accertata o in via incidentale dal giudice ordinario (in sede di disapplicazione), o in via principale dal giudice amministrativo chiamato ad annullare l’atto. Contestualmente sarebbe preferibile, infine, uniformare – grazie anche al ripristino della pregiudiziale amministrativa – il termine per esperire l’azione di risarcimento del danno ingiusto in caso tanto di lesione di diritti soggettivi che di interessi legittimi, eliminando così il nuovo termine di decadenza sulla cui legittimità costituzionale qualche Tribunale amministrativo ha già espresso perplessità (T.A.R. Sicilia, Palermo, Ord. 1628/2011).
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